La Leopolda, il partito, il leader: oltre la retorica

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La convocazione a Firenze dell’incontro di Renzi, con l’ostentata continuità rispetto alla storia della sua ascesa politica («Leopolda 5»), si è scontrata con la contemporanea protesta della Cgil sul cosiddetto Jobs Act e la critica interna di una parte del Pd. Il combinato disposto di questi eventi ha rilanciato il luogo comune dello scontro tra due sinistre. E analisi senza fine su scissioni, vittorie, sconfitte. Merita però spostare un poco l’attenzione su due elementi: l’idea di partito e le modalità retoriche dello scontro.

L’adunata fiorentina è stata una positiva occasione di incontro e di lavoro per molte volenterose persone. Difficile sottovalutare l’importanza di forme di incontro reale, in tempi di secolarizzazione di ogni valore e di liquidità virtuale di ogni relazione. Certo, la sua forma è stata del tutto particolare. Intanto, ha assunto la forma di una convocazione di un gruppo, il cui capo è il segretario nazionale del Pd, senza essere stata un’iniziativa del partito. Tale scelta è simbolicamente rivelatrice – se ancora ci fosse bisogno – di un rapporto piuttosto originale di Renzi con il modello di partito. Qui non si tratta di essere nostalgici dei partiti di massa del passato. Ma di considerare come ormai non si intenda più costruire un partito come esperienza collettiva radicata nella società, come consolidamento di esperienze, saperi, classe dirigente. Il leader convoca con libertà i suoi esperti, i suoi militanti, i suoi testimonial e li mette a lavorare attorno ai temi che lui sceglie. Che nel suo partito ci siano altre sensibilità e competenze, non è un problema che lo riguardi. Per questo, egli può far spallucce quando qualcuno nota che il Pd avrebbe perso tre quarti dei suoi iscritti nell’ultimo anno: ci sono in cambio gli elettori delle «primarie» che hanno eletto il leader (una delle stranezze italiane: le primarie nella loro patria, cioè gli Stati Uniti, e in qualsiasi paese al mondo, servono per designare i candidati alle cariche istituzionali, non i capi di partito, ma tant’è). E poi soprattutto ci sono gli elettori tout court, che hanno dato il 40% al partito (alle elezioni europee peraltro, ma ormai è facile presentarlo come un mandato a governare senza ombre). Del tutto coerente: il partito serve per portare acqua al leader, che conquista il consenso. E’ chiaro che tutto torna: anche un modello di lavoro in cui si assemblano cento «tavoli» piuttosto assortiti in una giornata di lavoro – alcuni molto interessanti, ma con dei titoli che assomigliano ad enciclopedie del sapere – e poi spetta al leader trarne le conseguenze culturali e politiche. I seminari paralleli diventano notizia solo quando qualcuno la spara più grossa del consentito (come il Davide Serra di turno). Tutto ciò sarebbe parte integrante del «nuovo» modello di partito, libero, aperto, «all’americana»? Mi piacerebbe che nei nostri ambienti se ne discutesse di più. Personalmente, dubito che tale impostazione porti molto lontano. O comunque che sia una strada per rivitalizzare la politica.

Anche sulla contrapposizione che si è aperta attorno alla riforma delle regole per il lavoro è possibile qualche riflessione. E’ chiara l’impasse della sinistra critica, a partire dalla Cgil e dalla minoranza del Pd. La quale coglie a mio parere nel segno dicendo una semplice verità: che non è vero che togliere ulteriori tutele al mercato del lavoro serva veramente a far investire di più in Italia e quindi a creare quel lavoro che disperatamente manca. Ma si può dire di più: bastasse ridurre per tre anni gli oneri sociali per i nuovi assunti per ridar fiato a un’economia in ginocchio e convincere a bere un cavallo che non vuole bere, cioè, fuor di metafora, convincere a investire un capitalismo asfittico e ossessionato dai risparmi sul costo del lavoro! D’altra parte, però, diciamocela tutta: le opposizioni sono in grave difficoltà a delineare una strategia alternativa, tanto che la loro resistenza appare ai più troppo semplicemente conservatrice di un assetto che non funziona, da qualunque parte lo si guardi. In questo paradosso, l’abilità comunicativa di Renzi sfonda ampiamente. Egli è bravissimo a utilizzare il classico luogo retorico della politica che consiste nel costruirsi un avversario, e quindi anche un capro espiatorio contro cui risalta la propria attività e che – mal che vada – serve anche a spiegare le proprie difficoltà. La polemica consolida l’immagine di un attivismo che può anche essere piuttosto modesto nei fatti (le presunte «misure reali» finalmente messe in campo), ma si giustifica e si rafforza contrapponendolo alla passività altrui. Così si capisce perché egli tenda a enfatizzare lo scontro, tramite figure retoriche oggettivamente provocatorie e che in senso proprio sono del tutto infondate e criticabili: «il lavoro non è un diritto, è molto di più, è un dovere» (come se si potesse far strame del delicato equilibrio costituzionale tra diritti e doveri), oppure «dov’erano i sindacati negli anni in cui i diritti dei ragazzi erano cancellati?» (come se fosse responsabilità dei sindacati creare lavoro). Veri e propri assunti polemici gratuiti, che però funzionano, mirando propriamente a costruire contrapposizioni retoriche in cui la «modernità» e la «fattività» presunte del governo spiccano con forza. Speriamo però che il dinamico presidente del Consiglio lo sappia da solo: con queste abilità si può sopravvivere una stagione, ma la storia suggerisce che non si va lontano. Se ancora il consenso regge, sarà alla prova dei fatti che andrà misurato, non alla prova della retorica.

Guido Formigoni

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  1. Sono riflessioni importanti e che condivido. La forma partito, l’esercizio della leaderschip, la formazione e la selezione della classe dirigente, il pluralismo interno; e poi, pur con tanti aspetti positivi e “riforme” necessarie anche nel campo del lavoro, la necessità di non diminuire tutele e garantire il futuro (anche previdenziale) ai giovani di oggi, e di cercare di avvicinare le parti sociali e i decisori politici anzichè mettere in difficoltà organizzazioni, esperienze o addiritture provocarle. Tutti argomenti sui quali solo una parte tiene ancora il timone dritto. Altri ormai sono imbarcati sulla nave della speranza del cambiamento per il cambiamento (senza negare gli aspetti che è giusto modificare senza permettere ostruzionismi). Però, se molti in quel che definiamo per comodità “cattolicesimo democratico” condividono e sono pronti a confrontarsi e ragionare, senza alimentare conflittualità, fra coloro che appartengono a questo mondo cultural/politico c’è troppa divisione e dispersione. Perciò le posizioni di personalismo comunitario e solidale continuano non solo ad essere minoritarie, ma non raccolgono tutti coloro che le dovrebbero sostenere, non riescono ad esprimere un leader che “buchi” anche il video (purtroppo oggi più che le idee conta il modo di presentarle) e non aggregano altri compagni di strada. Comunque le ragioni restano e non si ci si deve arrendere. L’unico aspetto positivo di Renzi è che ha interrotto la continuità di storia dei contenitori e degli slogan della sinistra. Il nuovo centro-sinistra doveva portare tutti a bruciarsi il passato alle spalle. Questo non era avvento che per alcuni; ma interrompere la continuità (vedremo se ha la possibilità, il coraggio e la forza di farlo anche col contenitore europeo in cui si è adagiato) non deve andare a scapito di scelte che dovrebbero essere nel solco di valori che oggi solo Papa Francesco riafferma e rilancia in ogni occasione: vedi l’ultimo discorso ai Movimenti Popolari.

  2. A Renzi il PD serve , ma come contenitore, una società per azioni da scalare con iniezioni di capitali (il consenso clientelare) per dominarlo con la maggioranza di azioni. Difatti quando parla (e parlava) Renzi, non dice neanche di aver (noi) conquistato il partito, ma dice “abbiamo preso” il partito, riferito alla combriccola di “soci-amici” che ha messo su dai tempi della Margherita. E’ questo in fondo il modello berlusconiano, che viene prima di Berlusconi: prendere il partito come si prende e si compra un’azienda. E in fatti: lui fa parlare la minoranza, ma poi decide sempre lui, perché lui … “comanda”, come Berlusconi, il partito è suo. E poi ha il consenso degli italiani (il 41%); “le riforme ce lo chiedono gli italiani”, ripetono istruite le damigelle ministro. ma non sono le cose che sentivamo sempre dire dalla corte berlusconiana? Non c’è da cantar vittoria se quel 41% è riferito solo al 50% dell’elettorato che ha votato! Che senso ha avere il 41% se fai la stessa politica di Berlusconi?

  3. non c’è nessuna stranezza. Per Statuto il segretario è il candidato Premier, realizzando l’unione personale tra le due figure: è per questa ragione che è scelto con le primarie

    • Certo, principio comprensibile, anche se piuttosto originale. Peccato che poi quando si vota si vada a finire a fare altre primarie, come nel 2012… Qualche motivo politico per farlo salta fuori sempre.

  4. No, perché le primarie di coalizione del 2012 furono un escamotage per non fare quelle di partito, dato che comunque un passaggio democratico era inevitabile avendo eletto il segretario nel 2009. Tutti gli altri partiti europei scelgono il segretario-candidato circa un anno prima del voto com’è logico che sia.

  5. sono colpito da tante sollecitazioni, prima fra tutte l’apparente riconoscimento della Leopolda (a cui ho orgogliosamente partecipato pur non essendo ne finanziere, ne imprenditore) per giungere al suo svilimento ipotizzando che i lavori dei tavoli, gli argomenti proposti, le discussioni generate, i rapporti costruiti, siano in realtà uno scimmiottamento di un presunto modello americano che non porta da nessuna parte…
    Inoltre, mi sorge spontanea una domanda: laddove si afferma: “… considerare come ormai non si intenda più costruire un partito come esperienza collettiva radicata nella società, come consolidamento di esperienze, saperi, classe dirigente.” si da per presupposto che fino a ieri fosse così?

  6. Oltre a ciò che viene smentito da Ceccanti e da Radaelli, c’è dell’altro nel testo di Guido Formigoni.

    Trovo singolare, per cominciare da un dettaglio, che un docente di storia contemporanea faccia riferimento in data 28 ottobre (“il Pd avrebbe perso tre quarti dei suoi iscritti nell’ultimo anno”) a una notizia smentita in data 10 ottobre (http://www.europaquotidiano.it/2014/10/10/323946/). Mi sembra anche diciamo un tantino ‘sopra le righe’ parlare di “far strame del delicato equilibrio costituzionale tra diritti e doveri” riferendosi a una asserita frase di Renzi («il lavoro non è un diritto, è molto di più, è un dovere») in cui a dire il vero non si fa altro che enfatizzare i contenuti della seconda parte dell’art.4 della Costituzione (“…Ogni cittadino ha il dovere di svolgere…una attività o una funzione…”).

    Più sostanziale è un’altra questione. Davvero la Leopolda è la “convocazione di un gruppo” che manifesta “un rapporto piuttosto originale di Renzi con il modello di partito” (dove l’aggettivo ‘originale’ non è certo usato in senso benevolo), davvero essa è il segno che “non si intenda più costruire un partito come esperienza collettiva radicata nella società, come consolidamento di esperienze, saperi, classe dirigente”?

    Mi domando: perché lasciare – da parte di Guido Formigoni – che un eccesso di polemica faccia velo alla percezione della realtà? Facciamo un esempio concreto, che ho la fortuna di conoscere bene. Nella città in cui Lei, professore, insegna, Milano, c’è il circolo 02PD, piuttosto conosciuto perché è quello di Lia Quartapelle, di Bussolati, di Maran. C’è una maggioranza di renziani, e minoranze corpose che votarono a suo tempo Cuperlo e Civati. Il dibattito è continuo. Il circolo ha parecchi nuovi iscritti, giovani e meno giovani: gente che ha sentito nell’ultimo anno il bisogno di dare una mano alla soluzione dei problemi del paese (eh sì, le “volenterose persone” di cui parla il suo articolo…)

    Accanto e frammista al circolo c’è una rete di altre realtà associative, più piccole. Una ad esempio si chiama “Adesso!Milano Est”, che è in parte il vecchio comitato elettorale pro Renzi, che si è rifondato e si propone scopi di approfondimento politico là dove il partito non riesce ad arrivare. Comprende, tra gli altri, professionisti, piccoli imprenditori, vecchi militanti che hanno saputo guardarsi in giro. Ne fanno parte sia iscritti PD, sia persone che non vogliono iscriversi, perché vogliono fare un lavoro politico ma non si sentirebbero a loro agio nel PD.

    L’attività? Nell’arco di un mese tra settembre e ottobre il circolo o l’associazione (ma più frequentemente in collaborazione) hanno deciso l’argomento, organizzato e gestito tre incontri sul mondo del lavoro, ognuno con circa 300 partecipanti, con nomi come Orfini/Morando, Ichino/Landini, il ministro Poletti. (E se Lei fosse stato presente all’incontro con Poletti, tra il fuoco di fila di domande cui il ministro è stato sottoposto avrebbe trovato anche risposta alle questioni sul lavoro di cui parla la seconda parte del suo intervento). Esistono dei coordinamenti di queste associazioni, basta dare un’occhiata per Milano ad “Adesso! Metropoli” e per esempio a Torino al sito “Ateniesi”, ma ce n’è in parecchie altre città. C’è stata mesi fa una riunione nazionale a Bologna, ed è in gestazione un coordinamento nazionale.

    Che cosa ci dice questo complesso di informazioni, relative certo ad una situazione locale particolarmente vivace, ma comunque pertinenti anche per parecchie altre realtà? Ecco qualche risposta:

    – Non c’è affatto un leader solo al comando e non c’è affatto una Leopolda concepita come una “giornata di lavoro” isolata. C’è invece un lavoro continuo, c’è un solido gruppo dirigente che è l’espressione di un movimento di base di uomini e donne liberi che intendono precisamente – checché ne pensi Guido Formigoni – costruire un’«esperienza collettiva radicata nella società, come consolidamento di esperienze, saperi, classe dirigente».

    – Il partito non può più essere concepito come un tempo, per il semplice motivo che la società è divenuta più complessa e più fluida; il PD può essere un punto di raccordo di istanze poliedriche, non può più pretendere di rappresentarle tutte al suo interno, interno che comunque rimane articolato e per nulla prono ai voleri di un capo (casomai alle decisioni di una maggioranza, come dovrebbe essere normale in democrazia).

    – Non è affatto vero che “il partito serve per portare acqua al leader”, a cui solo spetterebbe trarre “le conseguenze culturali e politiche” del lavoro svolto dei singoli. E’ vero al contrario che il lavoro è rivolto in primo luogo all’elaborazione condivisa delle scelte (suggerirei in proposito di dare un’occhiata, ad esempio, alla consultazione in corso sul sito ‘labuonascuola.gov.it’), ma anche, in secondo luogo, alla crescita personale di chi lo fa, per renderlo capace di trasmettere una maggior coscienza dei problemi tra la gente con cui è a contatto, sul territorio: e questo non costituirebbe un progetto di “esperienza collettiva”?

    – Un’ultima nota: chi mi legge vada, se vuole, a vedersi (https://www.youtube.com/watch?v=e17EdMuBJgk) l’intervento alla Leopolda del vicesegretario del PD Debora Serracchiani. Troverà un discorso per nulla adagiato sulle posizioni renziane (l’accenno alla rottamazione) e giustamente preoccupato di non interrompere il legame con le istanze rappresentate nella piazza CGIL di Roma.

    Per tutti i motivi esposti, considero le osservazioni di Formigoni come assolutamente infondate. Spiace constatare che un personaggio autorevole come Guido Formigoni abbia redatto un testo che appare frutto di ostilità preconcetta e anche – occorre pur dirlo – di mancanza di informazioni.

    • Non c’è niente da fare: attorno al segretario del Pd e presidente del Consiglio il clima non è favorevole a discussioni pacate. Tant’è: mi prendo le accuse veementi. Non senza precisare che il riferimento (ipotetico e condizionale) agli iscritti non era a “una notizia” ma a un trend che nemmeno Guerini nega. Mi sembra addirittura inutile invece precisare che le mie osservazioni non erano e non sono né difensive di un presunto passato da non cambiare (quando mai!), né disdegnose del lavoro messo in atto in questi mesi e anni. Ben venga il movimento in atto e gli esempi citati (non capisco davvero in che cosa mi si ritorcano contro). Il punto del mio intervento è un altro: quando il segretario nazionale di un partito convoca una cospicua iniziativa politica che non è del partito, ma sua propria (non si tratta di un gruppo di militanti che fanno qualcosa “là dove il partito non riesce ad arrivare”, caro Maggi), c’è qualcosa che depone a favore di una concezione peculiare dell’equilibrio tra leadership e partito. O no?

      • A parte ogni polemica, io penso semplicemente che questa “concezione peculiare” sia un’opportunità e non un limite. Se il segretario di un partito riesce a coinvolgere in un lavoro politico persone che votano, ma che (alcune almeno) non vogliono iscriversi al suo partito, dov’è il problema? (a parte il fatto che Renzi non si è certo disinteressato delle Feste dell’Unità, anzi le ha rilanciate).
        Un secondo punto su cui mi pare le nostre opinioni divergano: Renzi è sicuramente un leader (con tutti i difetti inerenti), e del leader ha soprattutto la capacità di coinvolgere persone nella realizzazione di un progetto. Ritengo che ogni valutazione che esamini solo lui personalmente e non il gruppo che è riuscito a creare sia inadeguata. Cordiali saluti.

  7. Arrivo in ritardo . Mi sono permesso tempo fa di ricordare all’associazione c3dem, che nelle iniziative promosse, nei convegni, negli incontri, nei dibattiti fra iscritti e simpatizzanti, anche sul sito, bisognava evitare di dare l’impressione che c3dem fosse una associazione di cattolici. Molto, ma molto meglio essere definiti laici cristiani che praticano “l’autonomia laicale”. Ma ho nello stesso tempo suggerito di evitare che la galassia c3dem, venisse confusa con una generica associazione di laici. Ce ne stanno già tante in giro.
    Evitando la nostalgia di un passato irripetibile, e senza attendere un leader “che buchi” il video come sogna Baviera, il compito che dunque ci attende(va) era allora quello di essere consapevoli che nel nostro retroterra esiste(va) uno specifico “culturale”. Sui cui valori (laici) si poteva far leva per affrontare le sfide sociali e politiche, oltre che democratiche ed etiche, dietro l’angolo. Valori da incarnare in forme nuove, nei tempi nuovi, nei “segni dei tempi” nuovi, con quel metodo della mediazione che ci sollecita ripetutamente Lino Prenna. Ricordo, en passant, che tra i valori forti emergono i diritti umani e sociali. Quei diritti posti alla base della dignità della persona. Quei diritti al lavoro che hanno trasformato Bergoglio in un marxista teologo della liberazione che combatte l’utilitarismo e il profitto. Ed emergono i diritti alla democrazia partecipata, piatto forte del cattolicesimo politico e democratico lungo tutto l’arco del Novecento. Quei diritti tesi a realizzare una democrazia pluralista e sussidiaria – non dico solidale perché è una categoria inflazionata – con una varietà di corpi intermedi tra Stato e società. Ma con la politica al suo legittimo posto che solo occhi bendati non vedono ai nostri giorni in pericolo, a causa dell’avanzata incontrollabile dell’economia dalle mani libere, di un neo-liberismo anarchico sotto specie di “Stato minimo” e sotto forma di democrazia decisionista, centralizzata e leaderistica. Una democrazia tendenzialmente senza partiti e rappresentanza. Interclassista. Favorita dalle illusioni delle primarie aperte, dalla tele politica e dei cinguettii dei twitter. Ma col tacito consenso dei poteri economico-finanziari globali, oggi padroni della storia. E’ un trend questo , non è una scelta razionale. Con queste superflue e sommarie premesse, non ho per niente capito le critiche mosse a Formigoni. Formigoni si è limitato a sottolineare, con la sua elegante e solita passione, oltre alla “stranezza” della “Leopolda 5” e alla idea “originale” della forma partito che ha in testa Renzi – che pur avendo votato Pd e tifato per Renzi, ritenendomi peraltro lontanissimo dalla corazzata “Potionchi” condivido – anche alcune emergenze preoccupanti della democrazia politica dei nostri giorni. Peraltro sotto gli occhi di tutti, caro Maggi. Non solo di Formigoni. Significa andare contro Renzi quando si ricorda che in un universo sferico e complesso ,post-euclideo, la minima distanza tra due punti non è mai la retta? Significa remare contro se si sottolinea che si sta imboccando la strada di un partito statunitense? Ricordo che ci aveva provato Berlusconi a trasformare il suo partito nel partito del “Presidente”. No, non è Renzi, caro Conte, che si serve del Pd “…per dominarlo” assieme ai suoi soci. Ma è il clima politico che respiriamo, che fa si che Renzi sia preso da questo desiderio. E nessun scimmiottamento dunque caro Radaelli, di un presunto ( ma perché presunto?) modello americano, perché ormai ci siamo dentro con tutte le ruote! E prima prendiamo coscienza verso dove stiamo andando, meglio sarà.
    Bisognerebbe allora aiutare Renzi a capire che siamo sulla strada di un post-partito del pubblico – meglio: della cangiante opinione pubblica sondaggiata . Un post-partito comitato elettorale. Come ormai si denuncia. Leggero e “liquido”. Senza classe dirigente competente dedita all’etica e al servizio. Buono per ogni ceto e classe sociale: soprattutto per i giovani intellettuali disoccupati emergenti che si sono incontrati a Firenze . Ma forse non per i giovani senza lavoro e per gli anziani con il lavoro alle spalle. Senza una identità che come ci ricorda Z. Bauman, è invece indispensabile a farci compiere scelte responsabili. Un post-partito senza iscritti, insomma. Sostenuto dal finanziamento privato e dalle possibili cordate di lobby economiche, con la retorica della democrazia diretta di quelle primarie che rendono inutile la classe dirigente e lo stesso partito. E con un leader dominus della filiera partito- Governo- Parlamento, delegittimando il pluralismo sociale e politico, e che il buon Stefano Ceccanti rimanda solo alle procedure e alle regole per dire che esse fanno parte dello statuto del Pd, mentre con tutta la sua competenza potrebbe entrare nel merito per dirci dove sta andando la democrazia italiana. Che, ripeto, Renzi sta velocemente percorrendo senza che nessuno lo aiuti a pensare su dove stiamo andando e sulla democrazia che stiamo costruendo.
    Chiarisco a scanso di equivoci che non ho mai avute preclusione verso un maggioritario bipolare. Così come non mi sono allarmato sul “Senato” che avrei però visto volentieri elettivo . E non mi sto mettendo le mani nei capelli sulla nuova legge elettorale, purché rispetti il pluralismo della nostra Costituzione “bolscevica”. Quella dei diritti sociali e dei corpi intermedi. Quella comunitaria e non individualista. Quella che tutela il dissenso e la libertà di dissentire. Quella che non snatura il pluralismo soffocandolo sotto il precipitoso bisogno di leader, ben dichiarato da Maggi, lontano però mille miglia dal gioco di squadra e dalle decisioni collegiali che abbiamo sempre difeso. Ma mi sto forse anche convincendo che mascherata dietro l’esigenza, indiscutibile, della governabilità si nasconda la trappola della delegittimazione del Parlamento confondendolo col parlamentarismo, e si mascherano un decisionismo e un nuovo centralismo democratico di tipo populista: il leader in diretto contatto con gli elettori senza “Circoli” di mezzo, che in Italia sono diversi da come li vive Maggi a Milano. Aggiungo infine che non significa essere antirenziani ricordando che come cattolici democratici, se ha ancora un senso definirsi tali, abbiamo il dovere di non fare solo resoconti statistici sulle attività svolte, sui convegni promossi e su quanta gente ha partecipato, ma di testimoniare la nostra vocazione a difendere la democrazia. Non solo agendo nel territorio, ma…pensando…pensando…pensando politicamente. E se siamo capaci immaginando e proponendo una democrazia rappresentativa del XXI secolo salda nei suoi principi di fondo. Progettando, se riusciamo, una “nuova cittadinanza” e un welfare a misura di dignità umana e, certamente anche una nuova forma partito con il rispetto del pluralismo e la pratica della democrazia interni. Che poi assieme alla scelta per i più deboli rappresentano la parte migliore del nostro “retroterra culturale”. E’ stato un autentico liberale laico che a tale ultimo proposito ci ha ricordato una categoria appartenuta al marxismo fondamentalista. Ci ha ricordato cioè che il compito delle èlites democratiche è quello di trovare soluzioni ai conflitti di classe, che per lui non erano i conflitti tra borghesia e proletariato , ma fra”… coloro che hanno e coloro che non hanno” : (Robert A. Dahl: I dilemmi della democrazia pluralista, N.Y. 1982).
    Nino Labate

  8. Confermo un certo imbarazzo davanti alla distorsione che si sta alimentando tra il dito mitico che indica la luna e la luna stessa, tra chi evidenzia ovviamente ma inevitabilmente e pure indispensabilmente tutti i limiti culturali e decisionali della politica italiana davanti ai suoi problemi reali e le risposte indispensabili ed urgenti. Smettiamo la polemica sul renzismo e le analogie impossibili con il berlusconismo e misurioci davvero con le soluzioni possibili e con il
    Riscatto culturale di un paese carente non poco di senso dello stato. Siamo pieni di diritti ma non ci piacciono i doveri, ci sono tre milioni di giovani senza lavoro e non vediamo nessun inutile burocrate a nessun livello che rischia niente anche se inutile e costoso….mettiamoci nel mezzo e facciamo dialogare politica e società richiamando equilibrio tra diritti e doveri… Ci ricordiamo ancora di moro? E la sua preoccupazione per le nuove generazioni? Non sentite il fascino di tanti giovani capaci anche se anche spavaldi? Io sostengo ed apprezzo il rischio

  9. Premesso che lo strapotere dell’economia globalizzata e turbo-finanziarizzata non lo ridimensiona certo Renzi (ma nemmeno Fassina, e neanche Landini), vorrei sottoporre una semplice domanda, certo non espressione di un alto pensiero politico, ma forse di una certa concretezza.
    Se – in attesa di avere un partito “ideale” (che Renzi non fa ma non c’era neanche prima) e di trovare un leader con la “giusta” impostazione democratica (che non vedo all’orizzonte) – non proviamo ad affrontare con decisione qualcuno dei tanti problemi che affliggono l’Italia, da chi saremo governati nel frattempo: da larghe intese sine die, o magari da Grillo o da Salvini?

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