COME CREARE LAVORO?

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Un primo punto di analisi e commento sul dibattito in corso in vista del nostro Convegno su Costituzione ed Economia del 29 novembre.

di Sandro Antoniazzi

Un convegno che intende affrontare oggi il tema del lavoro non può non avere al centro la questione dell’occupazione, di com’è possibile rilanciarla nell’immediato, ma anche in una prospettiva più lunga e duratura.

Siamo ormai nel settimo anno di crisi, non si vede ancora una via di uscita da questa situazione, ogni giorno leggiamo e sentiamo notizie di fabbriche che chiudono e di riduzione del personale, gli sforzi del governo non hanno dato finora risultati tangibili; insomma l’esigenza di individuare una soluzione efficace si presenta quanto mai attuale e su questo si misureranno nel convegno le diverse concezioni, orientamenti, sensibilità.

Diverse, infatti, sono le risposte che si possono dare al problema che, pur distanti tra loro, non si presentano necessariamente in contrasto almeno teoricamente (nella pratica poi le cose vanno diversamente per via delle priorità, dei finanziamenti, delle scelte culturali, delle alleanze politiche).

A mio modo di vedere, anche leggendo gli interventi espressi, si possono enucleare quattro filoni o forme di pensiero che propongono le loro risposte.

Una prima proposta, sostenuta nel dibattito da Domenico Cella, e che lui fa risalire alla Costituzione, riguarda un piano d’investimenti pubblici realizzati direttamente dallo Stato. Si tratta della classica politica keynesiana, riproposta autorevolmente da Stiglitz a livello internazionale e che trova in Italia vari sostenitori: quando gli investitori privati per via della crisi non hanno interesse a investire, l’unico che può investire è lo Stato, che non ha da temere rischi. Per quanto riguarda l’Italia, l’ostacolo maggiore che si frappone è la mancanza di risorse finanziarie disponibili; in questa direzione s’indirizza il provvedimento “Sblocca Italia”, ma i miliardi a disposizione sono ben pochi (e poi se si vuole fare alla svelta, sorgono fondate critiche sulle salvaguardie ambientali, sulla corruzione, e così via). Meglio puntare sulla cifra, per noi astronomica, dei 300 miliardi d’investimenti che dovrebbero venire dall’Europa e su cui si spera che Renzi faccia qualcosa nel suo incarico europeo attuale.(Del resto gli USA hanno investito non meno di 700 miliardi di $ per salvare banche, assicurazioni, fabbriche automobilistiche).

Una seconda linea è quella, solo accennata, da Gianni Toniolo, che si presenta altrettanto classica: essa mette l’accento sui ritardi complessivi della società italiana relativamente allo sviluppo di una moderna economia: necessità, dunque, di migliorare la formazione, il merito, la produttività, l’internazionalizzazione… Ci sono enorme sacche di inefficienza e di ritardi nella realtà italiana e una difficoltà a proiettarsi in un mercato che è ormai tutto mondiale; abbiamo ottime aziende che hanno operato positivamente questa scelta, altre che non sono in grado o non si sentono di compierla, anche a causa di una limitata dimensione. Questa strada è naturalmente indispensabile per un’economia che intenda essere al passo di quella mondiale, ma non è priva di ostacoli: in particolare occorrerebbe una grande condivisione nazionale che la sorregga. Per questo sarebbe opportuno un diverso atteggiamento del sindacato molto più propenso a chiedere (e a contestare il governo) mentre il problema primo sta nel migliorare le fabbriche, la produttività, la produzione. Per quanto essenziale dubito che sia l’unica soluzione e in sé sufficiente.

Vi è poi una riflessione ulteriore che senza negare le prime due mi sento personalmente di sostenere. Essa parte dalla constatazione che molto probabilmente nel prossimo futuro avremo una crescita molto modesta, non in grado di garantire occupazione (la Settimana Sociale dei cattolici francesi del dicembre scorso proponeva di ragionare sulla base di uno sviluppo dell’ 1% per i prossimi dieci anni). Se così fosse avremmo altri disoccupati, altri poveri, altre situazioni insostenibili, ciò che induce a ritenere che forse è giunto il momento di aprire ad altre forme di pensiero più ispirate alla sobrietà, alla condivisione, alla solidarietà. Occorrerà pensare a nuove forme di lavoro, di economia civile, di rilancio dei beni comuni, a forme comunitarie e mutualistiche di cooperazione e di difesa. In questa prospettiva due questioni appaiono più rilevanti e urgenti:

1)    La garanzia di un reddito minimo di esistenza per le povertà estreme. Nessuno dovrebbe trovarsi in una condizione disumana e pertanto questo obiettivo dovrebbe costituire per noi una priorità assoluta (esiste in proposito il progetto REIS – reddito di inclusione sociale – promosso da Caritas e Acli, che merita di essere sostenuto).

2)    La riduzione dell’orario di lavoro rappresenta un altro obiettivo importante. L’Italia è uno dei paesi europei dove si lavora di più. Non si tratta di chiedere per legge la riduzione d’orario, ma di portarla avanti in modo articolato, dove ci sono le condizioni, in modo determinato e continuo.

Questa terza prospettiva apre anche all’ultimo discorso, quello di Roberto Mancini, il quale avanza una critica etica di fondo, ricordando che siamo di fronte a un sistema capitalistico, tanto ben funzionante quanto inaccettabile. Personalmente ritengo che vada mantenuta la critica al capitalismo, ma poi bisogna anche saper dire che cosa fare. Quando tanti uomini politici di sinistra – penso a compagni del valore di Pino Ferraris e di Vittorio Rieser (purtroppo recentemente scomparsi) – sostengono che l’intera storia di due secoli del movimento socialista e comunista è fallita e conclusa, non basta dire (come fa Bertinotti nel suo ultimo libro) che si è per la rivoluzione; occorre saper indicare come e in che cosa consiste l’alternativa e come ricostruirla. Dichiariamo la nostra indignazione, ma cominciamo a costruire: in questo la Costituzione ci è servita molto negli anni passati, serve in parte ancora al di là dell’ispirazione, ma certamente ci attendono tante altre riflessioni, altri confronti, altre elaborazioni per entrare preparati, e non ingenuamente, nella dimensione mondiale. Per dirla in altre parole e per concludere: le diverse proposte possono andare bene, ma ciò che manca oggi è una prospettiva credibile di progresso civile e sociale in cui inserirle e per cui valga la pena di impegnarsi.

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  1. Necessita partire dalle risorse dei territori storici che abitiamo per attivarne la più coerente coltivazione mediante nuove imprese di operatori culturali (paidecoltori).
    Imprese di paidecoltori che abbiano le competenze per maturare redditività (culturale ed economica) con la conduzione dei servizi di cultura e con la cura del “patrimonio d’arte coesteso all’ambiente come sua peculiare componente qualitativa”.
    Se non si pone il patrimonio di storia e d’arte del museo Italia quale risorsa da coltivare con nuovi processi di cultura, la crescita economica senza sviluppo culturale distruggerà sempre la maggiore e più qualificante risorsa italiana, come ha fatto fin qui l’industrialismo, l’edilizia indiscriminata e come si appresta a fare gran parte del turismo (benché autodefinentesi: “culturale”, o “ambientale”).

  2. Nel sistema capitalistico, tanto più se globalizzato e iper-finanziario, la soluzione del problema dell’occupazione non esiste.
    Lei dice che ” manca oggi una prospettiva credibile di progresso civile e sociale”. Le vorrei chiedere: conosce non superficialmente le tesi della decrescita? Non la considera una prospettiva di progresso civile e sociale?
    O non la considera credibile?
    Certo, non è una ricetta pronta da mettere in tavola, e di difficile attuazione: ma non si può dire che manchi.

  3. Da Rio a Kioto e Doha, ci eravamo abituati a declinare crescita con sostenibilità. Oggi con l’acqua alla gola diciamo solo crescita, purché sia.
    Secondo. Crescita si accompagna con produttività ed occupazione. Forse non sapendo che produttività e occupazione – oggi, in economie mature come la nostra – sono termini antitetici.
    Proviamo a togliere di mezzo questo equivoco. Con produttività, gli imprenditori (italiani) intendono un miglior ritorno dei costi di produzione. E lo risolvono tagliando l’occupazione, sostituendola con l’automazione di processi. Per non parlare degli imprenditori che delocalizzano o trasferiscono i capitali all’estero o escono dal settore industriale e servizi per darsi alla finanza creativa mondiale, molto più remunerativa (quando va bene.
    L’imprenditore pensa di salvare se stesso, tagliando l’occupazione, senza pensare che, alla fine, taglia la domanda globale. La tendenza al licenziamento e la ritrosia ad assumere personale (specie giovane), è un calcolo miope che fatalmente ricadrà sull’economia macro e sulle aziende.
    Si legga l’Economia giusta di Ed.Berselli p. 92, dove l’autore cita la strategia dell’industria tedesca negli anni di crisi. Queste sono le “best practises” che dovremmo copiare dalla Germania. Il modello di cogestione (che tanto criticavo da ricercatore nei primi anni ’70) ancorato nella Legge fondamentale tedesca, si è avverato un modello saggio che regge anche nei momenti di crisi.
    Se da noi è crollata la domanda lo si deve al licenziamento (taglio dei salari) e al rifiuto di occupare i giovani. A breve può anche servire il salario minimo. Ma è molto meglio passare dal lavoro, con tutte le forme e flessibilità necessarie, ma che sia lavoro stabile e salario giusto.
    Purtroppo questo dibattito sembra già troppo vecchio. Joseph Rifkin (Società a costo marginale zero) delinea i cambiamenti in corso nei sistemi di produzione e nei mercati nei prossimi cinquant’anni. E non c’è da stare allegri.
    V.C.

  4. Riprendo la questione finale dell’articolo: “… ciò che manca oggi è una prospettiva credibile di progresso civile e sociale…”. Certamente, dopo la fine delle ideologie si sono esauriti anche gli ideali nei quali una comunità si riconosce; gli ideali sono stati sostituiti in larga misura dagli interessi privati, ma con questi ultimi risulta praticamente impossibile realizzare proposte condivise di inclusione e solidarietà.
    Certo, la decrescita, come suggerito dal sig. Mandara, è una proposta da tenere in considerazione, anzi più o meno forzosamente ci si arriverà, quindi meglio che sia la più felice e responsabile possibile. Però non risolve la questione in quanto, se posso esprimere il mio pensiero, penso che si tratti di una proposta più che di una prospettiva, che io vedo come un contenitore di ideali sufficientemente ampio e robusto da abbracciare e motivare le diverse proposte.
    Ritengo piuttosto che, in questo momento storico, come cristiani siamo fortemente chiamati ad impegnarci sui temi sociali, quindi anche nella ricerca di valide prospettive condivise, anzi forse proprio dai cristiani potrebbe nascere qualcosa di nuovo. In questo senso vedo con favore e speranza un’idea vecchia ma sempre nuova: perché non ricercare attivamente la prospettiva poggiandosi sull’insegnamento sociale della Chiesa? Sappiamo bene che, fin dai suoi albori, ha cercato di contrastare sia il comunismo che il capitalismo sulla base della centralità dell’essere umano. Perché non affrontare questo compito anche adesso, tanto più che si è recentemente arricchito dell’ultima esortazione apostolica di papa Francesco?
    Grazie

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