Contro il sovranismo, occorre guardare avanti

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Nei giorni in cui tra la Cina e gli Stati Uniti sembrano rullare i tamburi di una inedita guerra commerciale, occorrerà pur riflettere su cosa sta succedendo nel mondo. Anche perché una lettura della situazione il più possibile chiara aiuta poi a prendere posizioni, a immaginare percorsi, a costruire eventuali alleanze. Se continuiamo a viaggiare nella nebbia delle ideologie, non riusciremo nemmeno a orientarci per uscire dalle nostre difficoltà.

C’è una rappresentazione della realtà molto diffusa, che mi pare invece poco convincente. Naturalmente qui forzo un poco i toni per farmi capire, ma non credo di fare caricature. Secondo questa linea di pensiero, dopo la fine della guerra fredda per fortuna sono finiti i mondi ideologicamente chiusi e si è aperta una stagione di positiva integrazione economica del mondo, che ha provocato l’avvicinamento benefico dei mercati e dei popoli. Oggi tale stagione è in crisi, sottoposta al rigurgito reazionario dei populisti e dei sovranisti, che vogliono farci tornare indietro nelle secche delle piccole patrie nazionali. Apertura-chiusura sarebbe quindi la vera frattura dei nostri tempi, su cui schierarsi senza indugi. E questa linea di scontro avrebbe ormai definitivamente superato il senso della contrapposizione destra-sinistra, troppo legata al mondo angusto del XX secolo, per fortuna alle nostre spalle.

Posso esprimere una seria e radicale perplessità? Mi sembra che tale approccio sia troppo subalterno a una ideologia della globalizzazione, che è ben diversa dal fenomeno storico della globalizzazione nella sua dinamica intrinseca. Tale ideologia è servita appunto ad ammantare di progresso e di immagini positive una vicenda che è ben più complessa e storicamente ambigua. Come sempre succede nella storia, l’apertura commerciale o la libertà di movimento dei capitali (e solo in parte delle persone) sono infatti stati strumenti che la politica ha via via utilizzato, alternati e intrecciati con altri e contrapposti meccanismi, per realizzare determinati fini e per rispondere a interessi economici e sociali specifici, spesso del tutto localistici. Come diceva il grande storico Fernand Braudel, tra capitalismo e poteri statuali c’è sempre stata dialettica e intreccio, non alternatività: «Lo Stato moderno, che non ha costruito il capitalismo ma lo ha ereditato, talora agisce a suo favore, talaltra ne ostacola i propositi; a volte gli permette di espandersi liberamente, ma in altri casi ne distrugge le risorse. Il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo Stato, quando è lo Stato».

Non a caso, la società degli Stati Uniti ha costruito la propria straordinaria ascesa economica all’ombra di un rigido protezionismo gestito dallo Stato federale (anche contro la vecchia madrepatria britannica che predicava il libero scambio fin dall’abolizione delle Corn laws del lontano 1846, avvenuta dopo due secoli di ascesa tutelata dal mercantilismo e dalla marina militare). Quando poi le imprese americane ottenuto posizioni produttive significative grazie al dispiegamento maturo della stagione fordista, la politica statunitense ha scelto l’apertura dei mercati, favorendo il grande ciclo espansivo del secondo dopoguerra. L’apertura internazionale agli scambi di merci sempre più vorticosi è andata insieme a un sobrio indirizzo dell’economia in chiave keynesiana, di cui hanno fatto parte la regolazione flessibile contro l’instabilità dei mercati e il sostegno alla crescita dei redditi delle masse popolari: la riduzione delle diseguaglianze serviva infatti in quelle stagioni storiche ad allargare e consolidare i mercati di massa. E la posizione di forza americana sui mercati aperti globali permetteva anche di tollerare qualche politica poco gradita, come la crescita giapponese o tedesca, ambedue troppo guidate dallo Stato agli occhi dei signori di Wall street. Quando è entrato in crisi il modello fordista per una serie di ragioni complesse (a cavallo tra esaurimento da maturità raggiunta, crisi del dollaro, del petrolio e delle relazioni industriali), l’élite americana (e anglosassone, tornando a giocare assieme a Reagan il junior partner inglese impersonato dalla signora Thatcher) ha risposto non tanto – come a volte si dice – lasciando più libera l’economia, ma costruendo una nuova politica che imperniava un’ulteriore svolta storica su due manovre statuali: in primo luogo l’aumento dei tassi di interesse ai fini di lottare contro l’inflazione e consolidare le monete, in seconda battuta la liberalizzazione del movimento dei capitali. Tale mix doveva servire (e in effetti servì) a innescare una nuova stagione di crescita occidentale imperniata sulla centralità della finanza e dei servizi, in cui si realizzò nuova accumulazione di capitali. Il sottoprodotto di questa stagione nelle società sviluppate è stato certamente la riduzione dello spazio sociale del lavoro e la compressione della quota di ricchezza ad esso redistribuita. Servivano comunque merci a basso costo per i mercati di massa e qui si è provveduto aprendo alla delocalizzazione industriale verso la periferia del mondo. I paesi che economicamente e politicamente hanno saputo cogliere questa opportunità sono stati molti: dalla Germania ancora manifatturiera fino alla Cina del «socialismo di mercato» di Deng Xiaoping. I nuovi «paesi emergenti» si sono inseriti nell’inedito ciclo di espansione produttiva e commerciale, sfruttando gli investimenti internazionali e poi pian piano costruendo proprie autonomie, mentre facevano uscire milioni di persone dalla povertà. Anche tale crescita è stata rigorosamente protetta dai governi agli inizi e lo è ampiamente ancora oggi: ma via via è divenuta sempre più capace di chiedere libertà per le proprie merci e i propri investimenti infrastrutturali e imprenditoriali all’estero, quando a casa propria la libertà non è esattamente una merce diffusissima. Abbiamo assistito pochi mesi fa, al G20, al siparietto di Xi Jinping che si è intestato il ruolo di difensore della globalizzazione contro il revirement di Trump.

Cosa rappresenta questa schematica lettura degli eventi? Il punto è che apertura e chiusura sono sempre stati elementi di un gioco permanente tra politica ed economia, che via via hanno assunto significati e forme diverse al servizio di progetti politici, sociali ed economici differenti. La destra anglosassone ha ispirato gli inizi della svolta verso la globalizzazione, la sinistra europea e mondiale non ha saputo granché rispondere a questa direttiva. Ha balbettato in un tentativo di attutire gli effetti di diseguaglianza indotti dalla nuova spinta economica, confidando nel mantenimento delle sue basi sociali (e naturalmente culturali), che invece stavano profondamente modificandosi. I ceti medi e anche i ceti più bassi hanno colto il messaggio individualistico e consumistico della prima stagione della globalizzazione, ma ora sono per molti versi alle prese con i suoi effetti problematici se non negativi (riduzione delle protezioni, precarizzazione dei percorsi di vita, delocalizzazioni di posti di lavoro). E quindi sono diventati ricettacolo di una serie di insoddisfazioni, di mugugni, di ansie, di umori reazionari, che come spesso succede sono divenuti terreno fertile per il successo di abili imprenditori politici che hanno lanciato l’ideologia della protezione delle identità locali come baluardo emotivo contro tutto quello che si identifica con l’ideologia cosmopolitica e progressiva degli happy few, vincitori della globalizzazione. I vinti sono divenuti preda di nuovi messaggi semplificati, semplice carne da macello elettorale senza troppe speranze di vedere modificare le politiche che li hanno sfavoriti.

Infatti, è evidente che si cela una contraddizione nei messaggi dei sovranisti: essi possono chiudere qualche frontiera ai migranti, mettere qualche dazio, introdurre qualche misura contro le delocalizzazioni. Cosmesi amministrativa e propaganda elettorale, in fin dei conti. Ma nessuno di loro (in particolare all’interno di Stati piccolo-medi) ha la forza di invertire il ciclo dell’accumulo di ricchezza e di potere degli ultimi decenni. Nemmeno all’interno dei propri paesi, dove significherebbe mettersi contro l’élite finanziarizzata che ha cavalcato ovunque la stagione della prima globalizzazione. Tant’è che in Italia il riscontro delle politiche dure di difesa dei confini è la flat tax, cioè un semplice favore ai più ricchi… Direi nemmeno lo stesso Trump, che può appunto mimare una guerra doganale, nella sua consumata abilità comunicativa, ma non ha lo spazio per condurre veramente a fondo quello che predica, in un paese indebitato con il resto del mondo e scarsamente capace di reggere la sfida competitiva (se non nel ristretto settore dell’economia delle comunicazioni e di alcune tecnologie). Vorrei vedere, se si entrasse davvero in un ciclo protezionista, quanto le imprese americane dovrebbero alzare i salari anche dei propri working poors per compensare gli effetti dell’aumento dei costi nel carrello dei supermercati a bassissimo prezzo, favoriti dalla globalizzazione, che sono l’unico aggancio della pace sociale americana. Figuriamoci in Italia.

In sostanza, una risposta al sovranismo che ambisca a costruire una vera e duratura alternativa non può essere un semplice rilancio dell’ideologia della globalizzazione nella versione finto-ingenua che ha favorito la svolta politica degli anni ’80, con i connessi cambiamenti economici e sociali. Se vogliamo costruirne una versione sostenibile, orientata a sinistra, cioè nel senso dell’equità e della condivisione, occorre cambiare verso. Vedrei quindi l’urgenza di avviare una seria riflessione su come rimettere in gioco nella pratica politica (e rilegittimare nella comunicazione pubblica) una serie di misure statuali che, alternando controlli non burocratici, investimenti statali diretti, protezione sociale estesa e incentivi alla parte sana dell’economia produttiva, compensati con la capacità di far pagare quel capitale che ha accumulato la parte preponderante del dividendo della globalizzazione, riescano a costruire un modello di integrazione più equilibrato e convincente. In cui sia possibile difendere gli interessi delle parti più fragili delle società più avanzate, trovando anche qualche esplicito e contrattato compromesso con la crescita dei paesi emergenti. Costruendo insomma percorsi di integrazione delle diversità, più equilibrati e sostenibili nel lungo periodo rispetto a quelli sperimentati nell’ultimo trentennio. Una vera globalizzazione della solidarietà (vi ricordate questa espressione più volte emersa negli interventi papali?).

Naturalmente fa parte del problema un ragionamento appropriato su quale tipo e livello di statualità sia oggi praticamente in grado di immaginarsi e produrre tale percorso innovativo: la vera e unica risposta dovrebbe essere una forma di statualità europea, che sia all’altezza per autorità e dimensioni della complessità necessaria per la sfida. Naturalmente la questione europea è oggi aperta: fa parte del problema piuttosto che della soluzione. Ma se dovessi esprimere una voce dal mondo politico e culturale che tenta di rilanciare una seria alternativa alla deriva esistente, proclamerei con forza l’urgenza di prendere in mano tale progetto.

 

Guido Formigoni

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