Le nostalgie democristiane delle gerarchie romane

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Riproduciamo, in questo spazio più “interno” all’area della rete c3dem, l’articolo pubblicato il 29 dicembre 2012 su “Europa”, quasi a continuazione di un altro articolo uscito lo stesso giorno su “l’Unità” e anch’esso riprodotto nel nostro sito. L’autore è senatore del Pd e redattore della rivista “Appunti di cultura e politica”, pubblicata a cura dell’Associazione “Città dell’uomo”

 

Ci si interroga sul sostegno aperto delle gerarchie romane (sottolineo: romane) all’iniziativa politica di Monti. Una relativa novità. Nei lunghi anni che ci separano dal 1995 – anno spartiacque, coinciso con il grande convegno ecclesiale di Palermo – grosso modo il tempo dominato dalla figura controversa di Berlusconi, i vertici ecclesiastici hanno seguito un doppio binario: l’enunciazione della legittimità del pluralismo politico tra i cattolici italiani e il malcelato, pratico sostegno al centrodestra. Più esattamente: la diffidenza e persino l’ostilità verso l’Ulivo e il centrosinistra. Ne sa qualcosa Romano Prodi, che ne fu ferito anche sul piano personale. A lui non si perdonavano due cose: l’esercizio pratico dell’autonomia laicale e politica (da “cattolico adulto”, una bella formula legata al Concilio, la meta stessa della educazione cristiana dentro la modernità secolare, che fu significativamente bollata come espressione presuntuosa e polemica) e l’avere egli patrocinato e capeggiato uno schieramento di centrosinistra, l’Ulivo. Ulivo che per un verso sanciva l’agognato approdo a una democrazia sanamente competitiva e dell’alternanza dopo mezzo secolo di democrazia bloccata, per altro verso faceva segnare il carattere irreversibile dell’approdo al pluralismo politico tra i cattolici e l’esaurimento dello schema unitario. Prima nella Dc e poi nei suoi più esili epigoni, quali il Partito popolare di Martinazzoli.

Ora sembra che si vogliano sospingere indietro le lancette dell’orologio, pur dentro coordinate decisamente diverse. Intendiamoci: che si passi dal sostegno più o meno dichiarato a Berlusconi (che tanto e giustificato sconcerto ha suscitato in larghi settori della base cattolica e della più vasta opinione pubblica) al sostegno a Monti può essere letto come un passo apprezzabile. Restano tuttavia interrogativi che qui posso solo formulare, senza svolgerli.

Primo: la dubbia efficacia dell’endorsement delle gerarchie (dopo l’Osservatore Romano è arrivato anche il cardinal Bagnasco su Avvenire). Il voto cattolico è da tempo libero e trasversale, si è positivamente deideologizzato, non è condizionato granché dai pastori. I quali – preti e vescovi locali – per altro, a loro volta, hanno opinioni e orientamenti politici diversi. Un recente sondaggio dell’Swg attesta che, tra i cattolici praticanti, il voto cattolico, in maggioranza, si indirizza al Partito democratico.

Secondo: è pure lecito dubitare della corrispondenza tra vertice e base delle stesse associazioni cattoliche i cui leader si sono associati politicamente a Monti. Per due ragioni: la lunga e consolidata tradizione di autonomia, sancita anche statutariamente, di associazioni popolari quali le Acli e la Cisl, di cui è testimonianza il disagio di molti loro militanti, che evidentemente non hanno gradito il coinvolgimento di quelle sigle in una operazione politica e la forzatura operata dai loro dirigenti; e poi il connubio francamente innaturale tra culture e sensibilità decisamente diverse quali il cattolicesimo sociale – con la sua indole riformista, diciamo così, naturaliter di centrosinistra –, la vena elitario-tecnocratica di Monti, il liberismo spinto di Montezemolo e soci.

Terzo: ci chiediamo se alla svolta liberale delle gerarchie romane corrisponda la disponibilità a silenziare l’enfasi tradizionale sui principi non negoziabili posta sulle cosiddette questioni eticamente sensibili, delle quali non c’è traccia nell’agenda Monti. Sia chiaro: è buona cosa che si acceda alla consapevolezza che l’ancoraggio ai principi etici non esonera dall’esercizio della mediazione politico-legislativa dentro società democratiche e segnate dal pluralismo delle concezioni etiche. Solo rammentiamo sommessamente quanto il riferimento ad esse sia stato opposto allo schieramento di centrosinistra, nel quale si ama discutere, e per converso addotto a giustificazione del sostegno a un centrodestra non meno dominato dal secolarismo ma disinvoltamente disponibile a brandire strumentalmente quei riferimenti.

Quarto ed ultimo interrogativo: con una certa enfasi, Monti ha fatto sue alcune formule degasperiane. Al netto dell’audacia del paragone sul piano soggettivo, vanno rimarcate tre decisive differenze: De Gasperi fu “cattolico adulto”, che, nei passaggi cruciali, anziché il sostegno, scontò l’opposizione delle gerarchie; egli fu leader di un grande partito popolare e strutturato, non di una lista elettorale improvvisata nell’arco di qualche settimana; infine, il suo partito si connotava per una ispirazione democratica e cristiana, che è cosa affatto diversa dal Partito popolare europeo di oggi, cioè dalla famiglia politica dei conservatori europei, nella quale tuttora militano, ancorché mal sopportate, le truppe di Berlusconi. Quel Ppe, non è un mistero, che ha investito su Monti e lo ha sospinto nell’agone politico. Lì, certo, possono riconoscersi dignitosamente i cattolici di destra. Che non è una parolaccia. Ma è manifestamente cosa diversa dai cattolici democratici e sociali di chiaro orientamento riformatore. Quelli che prendono sul serio le encicliche sociali. Per parafrasare un Prodi d’antan: competition is competition. Oppure Moro: chi ha più filo tesserà. Senza pretese primogeniture.

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