GOVERNO RENZI E RIFORME. CON UN APPELLO DI ASOR ROSA

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L’articolo di Luca Ricolfi su La Stampa del 16 marzo, “L’impresa rischiosa del premier”, in cui rileva i punti in cui Renzi “ha stra-ragione” e però anche i limiti che dimostra, per cui si può dubitare che riesca, è interessante; ma come fa Ricolfi a sostenere che “le false pensioni di invalidità assorbono circa 10 miliardi l’anno”? Vorrebbe dire che abbiamo almeno un milione di falsi invalidi? E’ verosimile? Alessandro Barbano, in un editoriale de Il Mattino (“Riforme, il premier non sbagli dove Berlusconi ha fallito”), sostiene che Renzi non deve solo cercare di amministrare in modo più efficiente ma anche “rifondare la sinistra, riscriverne i valori e adeguarli ai cambiamenti che si sono prodotti nella società”, a cominciare da lavoro e welfare; e spiega come. Due commenti sul Jobs Act: Maurizio Ferrera sul Corsera (“Tre ostacoli in una giungla”), che individua pregi e limiti dei provvedimenti, e Tito Boeri su Repubblica (“Quei tre anni di contratti a tempo”), che avanza una critica simile a quella di Barbano. Sergio Fabbrini, sul Sole 24Ore, analizza “La prigionia del paradosso riformista”, cioè la difficoltà di riformare le istituzioni da parte di coloro che ne subiranno un danno personale, e indica la strada per riformare il Senato. Sull’ipotesi di riforma avanzata dal governo Massimo Luciani sull’Unità esprime un parere in linea di massima positivo (“Senato, riforma da migliorare”). Sulla riforma elettorale ritorna Walter Tocci sull’Unità (“Legge elettorale, l’errore delle soglie troppo alte”). Dal canto suo, Alberto Asor Rosa sul Manifesto lancia un appello: “Bisogna fermare Renzi prima che sia troppo tardi” e “rivoltare la legge elettorale come un calzino” (“Non c’è più molto tempo”).

 

 

 

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  1. Vorrei tentare di proporre un ragionamento prendendo spunto da uno dei provvedimenti più significativi dell’agenda del governo Renzi. La decisione, se tale sarà, di immettere “soldi freschi” in busta paga (i famosi 80 euro per gli stipendi sotto i 1500 euro) ha senza dubbio un valore importante perchè stabilisce, concretamente e simbolicamente, la necessità di sostenere i redditi più bassi, che poi sono quelli maggiormente toccati dalla crisi. L’obiettivo è quello di rilanciare i consumi, sperando che buona parte di essi riguardi la produzione interna.
    Ora, questo obiettivo – che risponde a un meccanismo “classico” dell’economia – può aver senso nel breve periodo ma lascia aperta una grande domanda intorno alla quale si è sviluppata negli ultimi una riflessione che ha coinvolto sempre più persone: di quali consumi stiamo parlando e di quale modello di produzione? Non è proprio la società dei consumi così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 30-40 anni ad aver mostrato tutta la sua debolezza e la sua insostenibilità (da vari punti di vista, compreso quello delle risorse energetiche necessarie a tenerla in piedi)? E’ comprensibile e, mi sento di dire, condivisibile che nell’immediato si faccia ancora leva su questo meccanismo per dare un po’ di respiro a un mercato stagnante e per dare un po’ di sollievo a un commercio che, insieme all’industria, soffre di una grave crisi (con ciò che ne consegue sul piano sociale: chiusura di negozi che sono anche un punto di servizio e aggregazione; chiusura di attività commerciali dietro alle quali si sostenevano intere famiglie “allargate” e dipendenti, ecc.). Ma nel medio e lungo periodo, pensiamo che sia questa la soluzione, quando tutti gli indicatori ci segnalano che il modello finora seguito, se applicato a un mondo di 10 miliardi persone, non può reggere e comporta squilibri e disuguaglianze enormi, con ciò che ne consegue non solo sul piano dell’etica e della giustizia ma anche in termini di conflitti e costi sociali? Del consumo e del libero commercio non possiamo certo fare a meno: da sempre, peraltro, dove si commercia c’è pace. E i regimi che hanno cercato di farne a meno, finora, sono miseramente falliti. Dal canto loro, diversi economisti ci spiegano le dinamiche antropologiche che stanno dietro alla produzione e allo scambio, che non possono essere interpretate solo come rispondenti a una logica di arricchimento egoistico (anche se questa dimensione può esserci e in taluni casi prevalere) ma rispondono a domande più profonde e più complesse. Il problema però è se questo tipo di società dei consumi deve essere favorita e reiterata, sapendo che ciò, dopo magari una prima fase positiva, provocherà presto o tardi nuove e forse peggiori crisi; o se in qualche modo i consumi (e dunque la produzione che ne sta alle spalle) debbano essere reindirizzati – ovviamente non in modo autoritario! – a prodotti diversi da quelli che ci siamo abituati (in occidente) a consumare a piene mani. E’ chiaro che un processo del genere andrebbe accompagnato, per evitare – un esempio, giusto per intenderci – che mille industrie di giocattoli inutili chiudano dall’oggi al domani lasciando a casa migliaia di persone. Ma questo potrebbe essere il momento per cominciare ad applicare, attraverso scelte politiche, quelle idee – non irenistiche o idealistiche, ma al contrario, realistiche – coltivate in tanti ambienti sociali, intellettuali, ecclesiali anche grazie alle analisi di tanti economisti. Qualcosa di buono è già stato fatto, ad esempio con gli incentivi per il fotovoltaico e il solare. Non è necessario accapigliarsi sulla “decrescita” (termine che alla fine, al di là delle buone intenzioni, rischia di creare incomprensioni). Ma ragionare invece su “quale crescita” è ormai ineludibile.

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