Cosa pensare cosa fare di fronte alle migrazioni dai Paesi africani?

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Siamo scandalizzati quando Giorgia Meloni parla di “blocco navale” (ora, sembra, non più), o quando il ministro Piantedosi rende dura la vita alle Ong. Ma cosa pensiamo veramente che si debba e possa fare? Porre un argine alle migrazioni, accompagnato da una impegno complessivo di tutta la comunità nazionale per aprirci a un’accoglienza seria e di reciproco vantaggio e ad una cooperazione stabile, senza interventi predatori o complici di classi dirigenti locali corrotte, è un obiettivo ineludibile. (Nella foto una pietra ricorda il massacro di 1.500 cristiani copti compiuto dall’esercito italian0 nel maggio 1937 in Etiopia) 

 

 

 

Critichiamo i decreti sicurezza, quelli di Minniti prima, poi di Salvini, oggi di Piantedosi, ed è giusto. Questo ultimo, con la sua dichiarata ostilità alle Ong che operano i salvataggi in mare, appare davvero irricevibile. Però stentiamo ad assumere un punto di vista complessivo su questo grande e drammatico problema.

Mi sembra che, mano mano che passa il tempo, ci si accorge che una risposta  che sia in qualche misura adeguata, o comunque ragionata e responsabile, è davvero difficile. Di qui parto per qualche considerazione personale.

Sappiamo che ciò che spinge tante persone, dall’Africa sub-sahariana, come dal Nord Africa e dal Medio Oriente, è un insieme enorme di problemi. Da un lato, in alcuni casi, conflitti armati gravi oppure oppressione insostenibile da parte di governi dittatoriali (un esempio l’Eritrea); dall’altro lato, la perdurante povertà, lo sconvolgimento di intere regioni provocato dai cambiamenti climatici, la mancanza di speranza di una vita migliore in Paesi che sembrano condannati ad avere classi dirigenti per lo più incapaci o corrotte (talvolta anche per colpa di imprese multinazionali se non anche di governi occidentali).

Questa distinzione . certo spesso difficile a farsi – tra profughi e cosiddetti migranti economici penso che non possa essere elusa. Innanzitutto perché ci mette di fronte a un preciso dovere, quello di dare asilo ai profughi, secondo le sacrosante norme del diritto internazionale. Su questo punto si dovrebbe essere assai più chiari, a livello di consapevolezza, di normative ad hoc e di organizzazione per un’accoglienza intelligente e davvero solidale. L’asilo politico è una cosa seria e va fatta con altrettanta serietà

Per quanto riguarda coloro che chiamiamo “migranti economici” la questione è diversa. Non solo non ci sono obblighi di diritto internazionale all’accoglienza, ma c’è un gigantesco problema di numeri. Quanti? Quanti sono? Quanti potranno essere? E c’è un altrettanto grande problema di tenuta sociale da parte delle comunità civili europee, e quella italiana già in affanno, chiamate ad affrontare le difficoltà dell’accoglienza, dell’integrazione, della convivenza (certo non ci sono solo le difficoltà, ci sono anche esperienze e prospettive di arricchimento umano, e non solo…).

Dicevo che, a fronte dei migranti economici, non ci sono norme di diritto internazionale (ci sono però certo quelle che impongono di salvarli in mare!). E però ci rendiamo conto che il desiderio di dare una chance alla propria vita e a quella dei propri figli è forte, è umanissimo, e non può essere ignorato. A questo desiderio corrisponde un’istanza fondamentale di libertà: gli uomini sono liberi di cercare una vita diversa e migliore, di tentare di farlo; e i confini tra le nazioni non debbono essere muri invalicabili.

Questo desiderio e questa libertà spingono molti – generalmente non i più poveri, ma quelli con qualche minima risorsa – a tentare ogni strada possibile. E qui veniamo alla questione dei cosiddetti trafficanti e degli scafisti. Una questione scabrosa. Mi stupisco che non si rifletta sul fatto che, certamente, queste persone che fanno traffici per consentire ai migranti di attraversa migliaia di chilometri e poi il mare per giungere in Europa sono per lo più gente immorale, che sfrutta, che a volte tortura, gente talvolta disumana, ma sono anche l’unico e indispensabile mezzo che hanno i migranti per fare il loro viaggio. Sono, diciamo le cose come stanno, necessari per chi vuole affrontare un’impresa così difficile. Impresa che non si potrebbe certo tentare di fare ricorrendo alle norme in vigore (passaporti, visti d’ingresso, biglietti aerei etc.). Avere, quindi, come obiettivo politico la lotta ai trafficanti e agli scafisti significa poco, e ha la sua parte di ipocrisia.

Io credo che, in ogni caso, qualsiasi misura si riuscirà a prendere per affrontare, in modo che sia almeno serio e coraggioso, il problema, questo tentativo illegale di migrare proseguirà nel tempo. E, per quanti scappano per salvare la vita, è una “fortuna” che possano trovare un trafficante che consenta loro di mettersi in salvo. Però, la responsabilità nostra di provare ad affrontare il problema in modo, appunto, serio resta.

Mi sono sempre venuti i brividi quando sento parlare certi esponenti della destra di come affrontare  questo problema. Fino all’altro giorno si sentiva parlare di blocchi navali. Ma a sinistra, mi sembra, si dice poco. E anche in Europa si dice poco di convincente. La parola “blocco” è dura, semplifica; e poi, fatto in mare dalle navi, il blocco è impresa è impensabile e rovinosa. Ma, se andiamo al cuore del problema, l’idea che si debba porre un argine a questa migrazione disperata è valida. Ma è un argine che va costruito con infinita cura e pazienza nei luoghi più vicini ai Paesi di migrazione, e soprattutto nella consapevolezza delle popolazioni locali e delle loro istituzioni. Va posto con una presenza – costosa, impegnativa –  di uomini e mezzi, non solo in funzione di polizia e di repressione, ma soprattutto di dialogo, di informazione e anche di capacità di portare sollievo nei casi personali più delicati.

Questo argine deve andare insieme, strettamente e contestualmente, a una presa di coscienza, nel nostro Paese, nella nostra società, nell’opinione pubblica, del fatto che abbiamo sia il bisogno sia la possibilità di accogliere e integrare ogni anno decine di migliaia di migranti stranieri nella nostra comunità. Bisogno, perché sappiamo bene quanti lavori cosiddetti umili non trovino più i nostri cittadini disponibili a svolgerli; bisogno, perché abbiamo una bassa natalità e stanno venendo a mancare le nuove leve di lavoratori, in tutti i campi, necessari tra l’altro per portare in equilibrio il sistema pensionistico. E, per questa accoglienza, abbiamo le possibilità. Siamo un Paese sufficientemente ricco e benestante, con comunità territoriali in grado di far posto ai nuovi venuti. Vi sono molteplici esperienze positive in questo senso. Certo, vi sono anche quelle negative. Ma per questo parlo di una “presa di coscienza” collettiva, necessaria per affrontare con serietà questo grande problema, questa realtà non eludibile. Certo, ci vuole una classe politica più coraggiosa, che promuova questa presa di coscienza, che ne faccia un suo obiettivo imprescindibile.

Il modo per consentire che migliaia di migranti, provenienti dai paesi africani, possano venire in Italia è quello dell’incremento dei numeri di accessi legali. Una misura, questa, che va studiata insieme al mondo produttivo, alle istituzioni locali e al terzo settore, e che va accompagnata da concrete iniziative che consentano inserimenti dignitosi nei vari territori, tempi e luoghi di formazione e di prima integrazione.

Infine, l’argine di cui ho detto, e che a mio avviso va posto, ha un altro grande fondamento, altrettanto indispensabile: quello della costruzione di una nuova stagione delle politiche di cooperazione e di dialogo con i Paesi africani e del Vicino Oriente. Ora Giorgia Meloni parla di “piano Mattei”, nel senso di una cooperazione industriale paritaria e non vessatoria. Posizione sensata, che tocca un aspetto importante. Ma la questione è più complessa. Cooperare con buona parte dei Paesi dell’Africa, sia a nord che a sud del Sahara, è estremamente difficile perché le loro classi dirigenti sono scarsamente affidabili. Certo non si può aggirarle andando a stabilire rapporti diretti con le comunità locali (è difficile anche per le Ong di cooperazione allo sviluppo); ma si possono stabilire dialoghi con le classi dirigenti locali (franchi e senza sconti), porre condizioni, offrire stimoli e opportunità di formazione ai vari livelli.

E bisogna molto investire in questa direzione, con la consapevolezza che molto del nostro futuro avrà a che vedere con questa capacità di porsi con coraggio e intelligenza in dialogo con il mondo a sud del Mediterraneo, e che saperlo fare darà all’Italia un ruolo di rilievo nell’Unione europea. E ci farà crescere in umanità. Ci farà anche perdonare, almeno un po’, quella stagione imperialistica che ci ha portati, a fine ‘800 e nella prima metà del ‘900, a compiere misfatti e crimini in tante parti del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia) e in Libia. Certo, non abbiamo compiuto solo crimini; abbiamo anche fatto alcune cose buone (che sono state ricordate a lungo dalle popolazioni locali); ma poi, una volta venuti via, ci siamo per lo più dimenticati di quella storia, di quei legami, di quelle responsabilità, ed oggi assistiamo a, anche proprio in quei Paesi, a un totale disfacimento politico e civile, e a continue tragedie. Dovremmo tornare, in modo nuovo, sui nostri passi.

 

Giampiero Forcesi

 

 

One Comment

  1. La riflessione di Giampiero Forcesi rende giustizia alla complessità del tema, anzi dei temi che si intrecciano in un quadro difficile da analizzare se non per sezioni, a danno però del “punto di vista complessivo” che -come lo stesso autore rileva- stentiamo costantemente ad assumere.
    Come spesso accade di fronte a questioni che -per la loro drammaticità- sollecitano una risposta concreta ed urgente, penso sia necessario rinunciare ad un approccio che aspiri ad armonizzare tutte le variabili in gioco e le esigenze di tutti i giocatori. E’ uno di quei casi in cui occorre previamente decidere il punto di vista dal quale vogliamo valutare e affrontare il problema, ben consapevoli che un diverso punto di vista porterebbe ad altre letture, priorità e tentativi di soluzione.
    Provo ad essere più chiaro: dobbiamo decidere se intendiamo dare prioritariamente risposta al disagio di chi è costretto a migrare oppure al disagio che quel migrare possa genera ad altri. Sul piano dell’analisi si tratta -ovviamente- di due aspetti complementari, ma sul piano delle scelte operative si tratta di due priorità opposte tra le quali occorre decidersi se non si vuole restare impantanati nella palude del “ma anche” e soprattutto nella conseguente inazione.
    Se decidiamo di farci carico (prioritariamente) del disagio di chi -dopo mesi di carcere e torture in Libia- viene salvato in mare aperto da una nave umanitaria, la risposta del ministro Piantedosi (cento ore di navigazione supplementare per raggiungere il porto più lontano possibile con il divieto di effettuare altri salvataggi durante il percorso!) è assurda e inaccettabile; se -al contrario- decidiamo di farci carico (prioritariamente) del disagio che quella migrazione può o potrebbe generare ad altri, allora la risposta del ministro ha senso, anzi appare come un’abile stratagemma per evitare il rifiuto esplicito (alla Salvini), ma rendere il salvataggio talmente difficile, costoso e rischioso da scoraggiarlo, ridurre il numero dei viaggi e -alla fine dei conti- delle persone salvate e salvabili.
    E’ dunque la premessa (oserei dire “ideologica” se non fosse ormai un termine ormai scaduto) che definisce e orienta i passi successivi: il problema di quale soggetto vogliamo affrontare prioritariamente? cosa vogliamo ottenere? impedire che arrivino? rendere impossibile il loro viaggio? impedire che partano dalla Libia? impedire che partano dai paesi di origine? inibire ogni via legale di migrazione per costringere chi migra alla illegalità? Va da sé che qualunque proposta (dai blocchi navali alla chiusura dei centri di accoglienza, dalla ipocrita lotta agli scafisti agli accordi con i paesi del Maghreb perché li “fermino” prima che arrivino in Libia) sarà buona o cattiva a seconda della premessa.
    Correttamente Giampiero giudica valida l’idea di porre tuttavia un argine a questa immigrazione disperata. L’esigenza dell’argine va comunque definita in base ai numeri reali e accompagnata -dice Giampiero- dalla “presa di coscienza, nel nostro Paese, nella nostra società, nell’opinione pubblica, del fatto che abbiamo sia il bisogno sia la possibilità di accogliere e integrare ogni anno decine di migliaia di migranti stranieri nella nostra comunità”. Questa presa di coscienza purtroppo non c’è ancora, né quella relativa al “bisogno”, malgrado la richiesta insistente di ampi settori dell’agricoltura e dei servizi alla persona; né quella relativa alla “possibilità” (basti pensare a come è stato improvvisamente possibile -dalla sera alla mattina- accogliere centomila ucraini nelle settimane successive all’inizio della guerra).
    Abbiamo -insomma- molto lavoro ancora da fare perché questa “presa di coscienza” cresca e la razionalità e il buon senso prevalgano sulla propaganda e i pregiudizi della pancia. Oltre a renderci più attenti e meno superficiali nei confronti del fenomeno, con il quale dovremo comunque abituarci a convivere in futuro, non c’è dubbio che questo percorso “ci farà crescere in umanità”.

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