Perché la mancata chiusura della transizione resta un problema (che si aggrava)

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Mi sembra che il testo di Guido Formigoni pubblicato da c3dem (Nella crisi del Pd la crisi di un modello di democrazia) non tenga presente un dato centrale: per funzionare in modo decente una grande democrazia deve disporre di almeno uno di questi due fattori: un sistema forte dei partiti (pochi partiti, disciplinati e ben coalizzabili) e/o incentivi istituzionali forti.

L’Italia disponeva sino al 1989 del primo dei due fattori, in modo per alcuni aspetti analogo a quello della Germania, anche se da noi l’alternanza non era ancora possibile. Il sistema trovava un suo equilibrio nella rotazione interna alla coalizione di maggioranza: prima soprattutto tra le correnti della Dc, finché essa raccoglieva il 40% dei voti, e poi anche con gli altri partiti. La Francia, che invece non disponeva di un partito perno di forza analoga e che aveva necessità di prendere decisioni forti a causa del suo maggiore ruolo internazionale, aveva surrogato la debolezza dei partiti con le nuove istituzioni forti del 1958-1962, un doppio meccanismo maggioritario in grado di strutturare il sistema.

Dopo le ultime elezioni politiche con la proporzionale e con partiti indeboliti (1992, le prime dopo la caduta del Muro) in cui in una volta sola entrarono due nuovi partiti, Lega e Rete, e il Pci si disarticolò in Pds e Rc, l’Italia si scoprì debole in entrambi i fattori e, grazie alla spinta dal basso del movimento referendario, iniziò una transizione. La iniziò e la chiuse subito per i Comuni con un meccanismo potente, anche quello ereditato dal dibattito francese del 1956-1958, dove si erano appunto confrontate una soluzione presidenziale (quella poi prevalsa) e una neoparlamentare, rimasta lì sulla carta. Il modello di forma di governo comunale, basata sul simul stabunt simul cadent tra vertice dell’esecutivo e assemblea è preso alla lettera dall’elaborazione della sinistra democratica francese (Duverger, Club Jean Moulin). Ad esso si abbinava un sistema a maggioranza garantita (tranne qualche piccola eccezione) col 60% dei seggi garantiti al sindaco vincente, cosa che significa attribuire il potere di crisi solo a chi abbia il 10% nella maggioranza vincente. Un sistema ritenuto ottimo, per quanto possano essere ottime le soluzioni adottate in questo mondo, e per questo trasposto anche a livello regionale nel doppio passaggio 1995 (riforma elettorale) e 1999 (riforma costituzionale).

A livello nazionale si poté intervenire solo con una riforma elettorale, senza poter razionalizzare la forma di governo, neanche con soluzioni più soft, ed anche le formule elettorali portavano normalmente a maggioranze più ristrette, dando quindi il potere di crisi anche a minoranze minime di pochi seggi. Le diverse regole istituzionali non spiegheranno tutto, anche perché i problemi a livello nazionale sono di rilievo maggiore, ma certo spiegano molto: le medesime coalizioni che di norma hanno retto sul piano comunale e regionale sono invece implose sul piano nazionale. Ora, cosa accade con un sistema dei partiti debole e regole deboli, se si rompono i Governi (sia quelli legittimati direttamente dagli elettori, sia gli altri)? Non è che compaiono idilliache leadership plurali, nobili convergenze programmatiche, stabili intese capaci di innovazione. Semplicemente ci si sposta dal pilastro parlamentare della forma di governo per farla invece poggiare su quello presidenziale, come chiaramente accaduto con le Presidenze Scalfaro e Napolitano. Questo slittamento frena o accelera l’ascesa di forze critiche del sistema, spesso incapaci di esprimere una vera cultura di Governo, oltre ai fattori di varia natura che già tendono a favorirle? A me pare evidente che accelera: non a caso il M5S esplode sotto il (pur necessario e positivo) Governo Monti, quando all’ombra di un Governo tecnico di derivazione presidenziale si sperimenta la prima grande coalizione di fatto, che poi si ripete col Governo Letta. Da questo punto di vista il combinato disposto Italicum-riforma costituzionale rappresentava l’ultimo tentativo di manutenzione costituzionale straordinaria per far funzionare il sistema parlamentare con un sistema dei partiti molto problematico.

Il suo fallimento e i problemi che esso comporta per l’unico partito strutturato esistente a vocazione maggioritaria, il Pd, la cui leadership è unificata con la premiership per evitare la cronica instabilità di un centrosinistra acefalo sperimentata prima con l’Ulivo e poi ben più tragicamente con l’Unione, a cosa possono preludere? Con tutta probabilità ad un ricorso più forte e permanente alla stampella presidenziale. Ma a quel punto, come già accaduto con le fasi più interventiste delle presidenze Scalfaro e Napolitano, per evitare le difficoltà di governo, riemergerà con più forza e consenso la domanda di completare la transizione riconciliando poteri effettivi e legittimità, ossia di procedere in senso compiutamente semi-presidenziale. Con una singolare eterogenesi dei fini, quindi, coloro che si sono schierati per il NO perché preoccupati per una riforma che poteva apparire loro troppo forte e che hanno vinto per l’impopolarità dell’esecutivo, e che sperano oggi in improbabili utopie di nuovi equilibri assembleari, potrebbero aver provocato una spinta a un cambiamento ben più incisivo e ben più discontinuo.  Nel frattempo meglio stringersi bene le cinture e puntellare l’unico perno di razionalità di sistema, per quanto indebolito e costretto a operare controvento, il Pd a vocazione maggioritaria visto al Lingotto.

Stefano Ceccanti

 

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