L’accordo sui profughi tra Ue e Turchia: una strada sbagliata

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I quotidiani dei giorni scorsi riferiscono di una lettera (ignota nel testo) del duo Renzi/Alfano  indirizzata alla Commissione europea in cui si chiederebbe di estendere ad altri paesi, primo fra tutti la Libia, soluzioni come quelle adottate con l’accordo Ue-Turchia.

E un brivido corre lungo la schiena. Come è possibile che un accordo di quel genere  non susciti l’esigenza di fermarsi un attimo e di riflettere collettivamente – meglio ancora se in Parlamento – sulla sua effettiva portata?

In realtà le critiche all’accordo – che sono di ordine giuridico, politico e umanitario – sono rimaste chiuse in ambiti molto circoscritti, ma meritano invece di diventare oggetto di conoscenza e discussione in ogni possibile sede.

Vediamone solo quattro, in estrema sintesi.

1.

L’accordo prevede che tutti i migranti che hanno compiuto la traversata Turchia/Grecia dopo il 20.3.2016 vengano rimpatriati in Turchia “nel rispetto del diritto dell’Unione”: dunque, sembrerebbe, con l’eccezione di coloro che proporranno domanda di asilo. Ma, ammesso che sia cosi come potrà la Grecia, che è stata piu volte condannata dalla Corte di Strasburgo per le sue violazioni del diritto di protezione umanitaria, garantire un esame individuale di tutte le domande di asilo con una istruttoria e una decisione adeguate? Allo stato, è certamente impossibile, come confermano i resoconti dalla Grecia. Non solo: la Grecia sarebbe obbligata dal diritto comunitario a garantire ospitalità al richiedente anche nel tempo necessario per un eventuale ricorso in Tribunale. Ebbene, in attesa della ipotetica riforma del Regolamento Dublino – che in futuro dovrebbe consentire una miglior distribuzione dei richiedenti tra i vari paesi  -, i richiedenti resterebbero inchiodati per anni in Grecia, cioè nel paese con il peggior sistema di accoglienza di tutta Europa. E’ davvero accettabile e realistico tutto ciò?

2.

Secondo l’accordo, per ogni siriano che verrà rimpatriato dalla Grecia alla Turchia, l’UE accetterà il trasferimento nell’Unione di un siriano rifugiato in Turchia.  A parte la diversità di trattamento che viene cosi a crearsi tra siriani e altre nazionalità (in violazione dell’art. 3 della Convenzione di Ginevra), questa riduzione del diritto alla protezione ad una contabilità nella circolazione di persone fatte merce fa inorridire chiunque abbia a cuore la dignità della persona: il diritto alla collocazione in altri paesi va garantito tenendo conto delle condizioni individuali e in modo imparziale, non come premio al ritiro di un pacco dalla Grecia. Il meccanismo, oltretutto, non funzionerà perché limitato a un numero massimo di 72.000 unità “riallocabili”, e comunque perché soggetto alla disponibilità volontaria del singolo paese europeo, che potrà benissimo non arrivare mai.

3.

Ma come è possibile ipotizzare che un siriano, che certamente proviene da un paese in guerra, possa essere respinto verso la Turchia? Lo consentirebbe l’art. 33 della direttiva 2013/32 che consente di dichiarare inammissibile la domanda di protezione di un richiedente che proviene da un “paese terzo sicuro”. Ora, a parte il fatto che tutti i richiedenti considerati dall’accordo provengono dalla Turchia e dunque non è chiaro come si possa ipotizzare che alcune domande vengano dichiarate inammissibili (con conseguente espulsione verso la Turchia) e altre esaminate, il punto è che per essere qualificato come “paese terzo sicuro” occorre quantomeno che lo Stato di provenienza abbia ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati (così l’art. 38 della direttiva). Ebbene, la Turchia non ha ratificato la convenzione, ma si è limitata ad impegnarsi ad applicarla solo nei confronti dei cittadini UE. Tanto basterebbe a dimostrare che l’accordo non sta in piedi. Ma non solo: la serie di gravissimi attentati, il conflitto curdo, le continue violazioni delle libertà individuali sarebbero anche da soli sufficienti ad escludere che la Turchia possa essere qualificato come “paese terzo sicuro”, verso il quale poter espellere richiedenti asilo, o anche immigrati “semplici”.

4.

Vi è infine il penoso (per il futuro dell’Europa) sotterfugio in base al quale l’accordo viene qualificato come “dichiarazione” (statement). Ma se di statement si tratta, allora è mera dichiarazione di intenti, non vincolante per le parti. Se invece  – come  sembra – è un atto vincolante, allora non poteva essere concluso senza il coinvolgimento del parlamento europeo ai sensi dell’art. 218 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione. Ma nulla di tutto ciò è avvenuto, né il parlamento europeo, cosi clamorosamente bistrattato da una procedura del tutto informale, ha fatto sentire la sua voce.

Il panico da invasione stravolge dunque ogni regola e talvolta anche ogni razionalità. Ma prima o poi tutto ciò rischia di rivoltarsi contro la già traballante Europa.

 

Alberto Guariso

 

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