La geografia sentimentale di un singolare emigrante italiano

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Il libro di Salvatore Vento è molte cose insieme. Certo un’autobiografia. Ma anche, e soprattutto, un affresco della storia italiana, e si potrebbe persino dire dell’Occidente, lungo un secolo, dai primi del ‘900 ad oggi. Una storia vista ed evocata attraverso il filo della sua vicenda umana, dei suoi incontri, dei suoi spostamenti, dei suoi molteplici interessi. Ricca di passione politica e di poesia

 

 

Strano libro, bel libro, quello di Salvatore Vento. Succede che, arrivati a una certa età, sui settant’anni, ci si guardi indietro e si senta il desiderio di guardare al cammino che si è compiuto, e vedere in che modo quel cammino ha attraversato la storia entro la quale si è vissuti. E anche, forse soprattutto, si vorrebbe restituire voce alle persone care che ci hanno aperto alla vita e che abbiamo incontrato lungo la strada. Ma, naturalmente, poi non lo si fa. Perché ci vuole dimestichezza con lo scrivere, e poi curiosità, passione, stimoli forti. Salvatore Vento, che avendo fatto il sindacalista e il ricercatore sociale, e anche il giornalista, scritto ha scritto molto, e passione, nella vita, ne ha messa tanta, ha avuto – credo – anche gli stimoli giusti per potersi accingere a quest’opera: i muri che hanno cominciato a rialzarsi in questi anni, nella nostra Europa e in America, mostrando un volto delle nostre società che ci fa male vedere. Specie se abbiamo lottato, nella vita, a favore delle cause dei più deboli. Specie se, come nel caso di Salvatore, siamo stati emigranti noi stessi.

Salvatore Vento è stato emigrante due volte, in due diversi flussi. Nato a Siculiana, in provincia di Agrigento, è emigrato con la madre e un fratello in Venezuela, all’età di 10 anni, nel ’57, per raggiungere il padre che vi era già andato da alcuni anni. Poi, nel ’63, è tornato in Italia, ma non nella natia Sicilia ma a Ventimiglia, dove già dagli anni Venti un suo zio era emigrato. E’ a Ventimiglia che ha finito le scuole (un Istituto tecnico commerciale perché il latino e il greco in Venezuela non aveva potuto studiarli); e poi a Trento, dove era andato militare, si era iscritto a Sociologia, la prima cattedra in Italia, nel 1968. Da lì Milano, nei primi anni Settanta, perché la tesi era stata sulla classe operaia lombarda. Poi, nonostante i legami, sindacali e culturali stabiliti in quella città, l’asma che gli impediva di respirare lo ha costretto a tornare in Liguria, a Genova (“a volte il nostro corpo è il nostro destino”, scrive); ma Genova, con una classe operaia vitalissima e un clima culturale anch’esso molto ricco, lo ha accolto bene, nutrendo le sue molteplici passioni: quella sindacale, nella Cisl, quella politica, quella letteraria.

Geografia sentimentale di un emigrante italiano. Sicilia, Venezuela, Stati Uniti, Liguria, questo il titolo del libro scritto da Salvatore e pubblicato a Genova, nel marzo di quest’anno, dalla casa editrice Erga, primo di una nuova collana (“Un italiano, molti mondi”), con una densa prefazione di Luca Borzani e una intelligente e partecipe introduzione di Simone Farello (le pagine sono 280, il costo è di 15 euro)..

Dicevo un libro strano, e bello. Strano (e bello), perché non è un’autobiografia, anche se tante parti della vita dell’autore emergono nelle pagine del libro; è come se Salvatore Vento, dilatando il suo percorso e, insieme e prima, quello di alcuni membri della sua famiglia e di un mitico zio Filippo, abbia voluto raccontare un intero secolo, dai primi del 900 ad oggi. Gli Stati Uniti non sono stati una tappa della sua vita, ma sono stati la meta dell’emigrazione di tanti suoi compaesani agrigentini, raccolti, condensati nella figura (letteraria) dello zio Filippo, e le tante immagini di quel Paese che il libro ci riporta, ci fa rivivere e quasi vedere – da Sacco e Vanzetti negli anni Venti, alla crisi dei primi anni Trenta e ai libri di Steinbeck sull’esodo dei contadini, al New deal di Roosevelt, all’esilio americano di Salvemini, di Toscanini e di don Sturzo, allo sbarco in Sicilia, al piano Marshall, a Rosa Parks, a Bob e John Kennedy… Nella figura dello zio Filippo, abile muratore, anarchico, gran lettore di libri, che sposa una donna polacca, di madre cattolica e di padre ebreo,  che porta con sé altre suggestioni e altre immagini del caleidoscopio americano (tracce di Tolstoj, di Dorothy Day, di Emily Dikinson), Salvatore Vento, oltre a scolpire tanti tratti della vita americana e dei legami tra Stati Uniti e Italia, racconta in fondo anche di sé, delle sue convinzioni, del suo spirito, delle sue passioni.

“Per me – scrive Vento – il privato ha senso solo se è storicamente contestualizzato, se trova interconnessioni, se riesce a riprendere il filo dei rapporti passato-presente, se riscopre i tanti territori, spesso smarriti, della memoria”. Ed è proprio questo che fa nel suo libro. Cerca le interconnessioni. A cominciare dal giorno della sua nascita, di cui racconta a metà del libro: “Nacqui in casa, in via Cognata numero 64, alle sei del mattino, il 29 gennaio 1947. Lo stesso giorno a Roma si riuniva la Commissione dell’Assemblea Costituente che discuteva della Costituzione da dare all’Italia”. Ci sono, dentro il libro, i suoi familiari, ma in chi, come lui, “crede più nei legami culturali acquisiti che non nei legami di luogo e di sangue”, le relazioni significative si moltiplicano, inseguendo i propri ideali, oltre che intrecciandosi con le persone incontrate. A volte si tratta appena di citazioni. Tante. Tantissime. Ma spesso luminose. “Il bisogno delle citazioni risulta incontenibile”, scrive. E le prime pagine del libro, soprattutto, lo rivelano in modo straordinario. Parla della sua Sicilia, e dunque compaiono Leonardo Sciascia, agrigentino come lui, e Luigi Pirandello, e Goethe del Viaggio in Sicilia e il Guy De Maupassant di analogo viaggio. E Pindaro e il presocratico Empedocle, nato a pochi chilometri dal suo paese, Siculiana. Ma molte altre pagine del libro si aprono ad assonanze letterarie, soprattutto poetiche, talvolta filosofiche. “Io – scrive – nei miei ricordi mi lascio sospingere non ‘verso casa’, ma verso le diverse case della mia memoria, dove ci sono anche libri, luoghi, incontri, ansia della lettura”.

L’ansia della lettura, e la serietà dello studio, colpiscono in Salvatore Vento. E sono un filo conduttore (uno dei tanti possibili) che attraversa il libro e ne rivela, a mio avviso, uno degli elementi portanti. Una chiave di lettura. Da qualche parte racconta che, da bambino, lo zio Nino la sera leggeva a lui e a suo fratello I miserabili di Victor Hugo. Quando, molti anni dopo, nel 1995 la Feltrinelli pubblica il catalogo di 40 anni di pubblicazioni, ricorda “le quotidiane frequentazioni” nella libreria Feltrinelli di Genova, e annota: “Nel catalogo trovavo i titoli noti, sfogliati in libreria, toccati con mano, accarezzati in attesa di poterli comprare”. Nel 1963 torna a Ventimiglia dopo gli anni venezuelani. Di sé scrive: “Ero un ragazzo in ricerca, assetato di vita e di verità”. Proprio verità dice. E aggiunge: “Erano anni famelici di curiosità e di esperienze”. In edicola comincia a comprare “Il mondo” di Panunzio, attratto dal fatto che sfogliandolo in un’edicola vi trova un articolo di Enzo Siciliano in cui si parla della Sicilia e di Siculiana.

Pochi anni dopo è a Trento; è il 1968: “Avevamo vent’anni. Amavamo la storia – scrive -. Ci sentivamo gli eredi di nobili rivoluzionari”. Però poi osserva: “Provavo continue sensazioni di coinvolgimento e di distacco, ma un preciso fastidio di fronte agli atteggiamenti, presuntuosi e arroganti, di quei leader del movimento che declamavano citazioni dogmatiche e giudicavano il mondo in maniera manichea”. “Si comportavano da padroni. Erano disinibiti. Io ero timido”. Salvatore non approvava gli esami di gruppo. Organizza dei gruppi di studio dove, scrive, “vigevano regole severe: si doveva studiare, si dovevano leggere e criticare i libri, si redigevano puntigliose relazioni (…)”. (E cita Anna Maria Ortese: “Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. E’ tornare a casa”). All’università si manteneva con il presalario, e perciò doveva essere in regola con gli esami, e con lavori saltuari estivi. Detestava “coloro che propagandavano il rifiuto dello ‘studio borghese’ e interrompevano le lezioni coi loro proclami”. Si iscrisse allo PSIUP e leggeva “Problemi del socialismo”, “Quaderni rossi”, “Classe”. Leggeva Marx, ma lo faceva “tenendo presente la lezione di Emmanuel Mounier e del personalismo cristiano”. Amava Rosa Luxembourg. Era alla ricerca di “una terza via che andasse contro i vari ‘socialismi reali’, contro la concezione comunista del partito-verità, e oltre le socialdemocrazie esistenti”. D’altronde, aveva – scrive – “profonde affinità elettive” con il Partito d’azione.

La tesi la prepara a Milano. Il relatore è Gian Primo Cella, che sarà poi un grande leader della Cisl. Alloggia, come allora in molti si usava, in una “comune” di studenti, spinto dalla necessità di pagare poco, più che per scelta ideologica. Erano studenti anarchici, e lui comunque gli anarchici li amava: lo zio Filippo era stato un anarchico doc, nel primo dopoguerra. Però facevano uso di spinelli e lui era contrario. Dai compagni della “comune” era stimato perché veniva dall’università di Trento, avanguardia della contestazione; ed era considerato – scrive “un militante serio: mi vedevano uscire regolarmente coi libri, non facevo rumore, mantenevo pulita la stanza, continuavo a studiare nonostante il frastuono circostante”. Finita la tesi, poi pubblicata in un volume insieme a saggi di altri due autori, e con prefazione dell’amato (e affine, per indole) Vittorio Foa, costretto dall’asma a tornare a Genova, inizia a lavorare nella Cisl, dove resterà per 15 anni. Era il periodo entusiasmante dell’unità sindacale, delle grandi riforme sociali, delle 150 ore per lo studio degli operai pagate dalle aziende, la seconda metà degli anni ’80. “Non ho mai – scrive – mancato a nessuna manifestazione”. C’è un po’ in lui anche l’etica del lavoro ereditata dalla sua famiglia. Scrive su “Classe”.  Poi lavorerà come sociologo e ricercatore alla Fondazione Ansaldo. Studierà l’immigrazione in Liguria, soprattutto dall’America Latina. Intervisterà operai e dirigenti per ricostruirne le vite.

Tornerà in Venezuela di tanto in tanto, e annota – ma l’annotazione riguarda questi ultimi anni – come quel Paese da terra che accoglieva migranti sia ora diventata una terra da cui fuggire in massa. Ma non è la sola delusione. Altre ne maturano. Siamo negli anni Novanta: “Eminenti teorici della rivoluzione permanente, come ne avevo incontrati tanti a Trento – scrive – ricoprivano incarichi di grande spessore (gerarchico e retributivo) nella società dello spettacolo”. Erano sempre gli stessi: sicuri e determinati, sempre con la verità in tasca”. Commenta: “sia nelle assemblee studentesche sia nella scalata ai centri di potere spavalderia e arroganza aiutano la formazione/selezione del leader”. Ed è grande il problema, dice Vento, di come realizzare “una società aperta”, per la quale servirebbero leader con ben altri requisiti: “dedizione alla causa, competenza e serietà, anzitutto”. E’ che c’è stato davvero un “mutamento antropologico”, scrive. “Il mondo in cui ero vissuto è ormai un passato da studiare”.

Ma Salvatore Vento sa trovare le ragioni di fiducia. Quando torna nella sua terra, nell’agrigentino, vede giovani che rimettono in piedi i vecchi paesi semi-abbandonati per l’emigrazione e ne fanno luoghi di nuova attrazione, rivalutando la cultura locale, facendo proteggere le zone paesaggistiche, realizzando riassetti urbanisti  come a Favara. E quando va a trovare gli amici a Ventimiglia ricorda l’impegno straordinario di un prete e dei suoi parrocchiani nel dare accoglienza ai migranti respinti al confine dalle guardie francesi. Cita papa Francesco e la sua omelia a Lampedusa. Dice: “A viso scoperto, di fronte alla complessità del mondo, dobbiamo discutere e scegliere in quale società vogliamo vivere”.

I familiari di Salvatore Vento, sono sepolti nel cimitero di Ventimiglia, “a sigillo della vita di emigranti, proprio davanti al luogo dove giacciono, nella speranza di scappare, i rifugiati arrivati con i gommoni da terre africane”, lungo le rive del fiume Reja. Forse è questa la sua spina più grande. Per questo le ultime righe del suo bel libro dicono così: “L’atteggiamento verso le migrazioni e l’incrocio o il conflitto tra identità è oggi, e lo sarà a lungo, il confine di cui discuteranno le culture politiche del nostro tempo”.

Dimenticavo. Il libro è corredato di molte fotografie e di numerosi testi, poetici e non, che costituiscono un vero arricchimento, senza appesantire. E, infine, ci sono qua e là dei Qr code che, inquadrati con lo smartphone, mostrano dei video su alcuni aspetti delle cose narrate nel libro (il recensore non vi può dire quanto interessanti, perché è rimasto tecnologicamente un po’ indietro…).

 

Giampiero Forcesi

 

2 Comments

  1. Grazie a c3dem per la recensione di Forcesi sul libro di Salvatore Vento. Andrò subito
    a comprarlo. Grazie per la commozione provata. Quante persone di valore ci sono nel nostro paese! Penso anch’io che per molti anni ci si debba confrontare sul problema dell’immigrazione, ma spero in un futuro di cittadinanza aperta.

  2. Un grazie sentito a Salvatore Vento, perchè ci sono storie personali, come la sua (peraltro non comune e interessantissima), che esprimono questioni universali e che ci riguardano tutti. E’ bello poi che ci siano persone come lui che hanno la volontà, la vocazione e la capacità di “usare la penna” ( o la tastiera…) come si deve e senza mai stancarsi di farlo. Ma un grazie va anche a Giampiero che con passione ci ha dato uno spaccato intrigante di questo libro. Un abbraccio a entrambi!

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