Il vicolo cieco della sinistra

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Siamo in una fase curiosa della vicenda politica: si avverte un movimento sotterraneo di opzioni e di scelte che possono anche far cambiare molte cose nelle forme del sistema politico (tutto in stretto rapporto alla vicenda della legge elettorale): partiti, scissioni, alleanze, liste, convergenze e divergenze. Ma è proporzionalmente molto modesto un dibattito altrettanto aperto e franco sulle prospettive di cultura politica che possono reggere le eventuali novità, più o meno marcate, che si delineano. Tale confronto invece appare decisivo, se si vuole costruire su terreno solido.

Per quanto riguarda questo portale e la nostra piccola impresa, credo che la domanda cruciale sia ancora quella attorno alle prospettive di una sinistra credibile per il futuro (in questo orizzonte generale, infatti, la collocazione e la funzione del cattolicesimo democratico come cultura – o forse meglio dei cattolici democratici, singoli o associati – si potrebbe precisare ulteriormente). Se è possibile provare ad affrontare il tema, almeno con qualche iniziale spunto di riflessione, a me pare che non faremo molti passi avanti se non usciremo da un dilemma che continua a chiudere il nostro orizzonte. Da una parte, c’è lo spettro invecchiato di una sinistra che non ha capito il nuovo, che si è adagiata sull’illusione della continuità di vecchi schemi mentali e di parole d’ordine irrealistiche, quasi imbalsamando mentalmente un modello di società fordista che non esiste più. Dall’altra, si raccoglie la sensazione che sia al capolinea – a livello europeo e anche mondiale – il percorso di una sinistra che ha sposato enfaticamente il nuovo, aprendosi alle novità della stagione della globalizzazione, ma che da esso è stata sostanzialmente travolta, senza riuscire a gestirlo e nemmeno a condizionarlo modestamente. I primi sono quasi scomparsi, i secondi sono stati abbandonati ampiamente dai gruppi sociali e culturali di riferimento. Rimangono però i simulacri dei due fronti contrapposti che combattendosi sembrano disposti a perdere: tanto peggio, tanto meglio.

Si può finalmente uscire da questo vicolo cieco, da questo dilemma angoscioso ma falso, che sta chiudendo davanti a noi il futuro? Per farlo, credo occorra ragionare in modo spassionato del «nuovo» economico, sociale, culturale, che abbiamo di fronte a noi. Di come il mondo sia cambiato e di quali esigenze ponga a chi vuole mantenere fissa la stella polare dell’eguaglianza (nella libertà), tipica della sinistra. Di quanto per gestire il nuovo si possano utilmente riscoprire modelli tradizionali e di quanto e dove invece occorra radicalmente innovare.

La svolta degli ultimi quarant’anni ha infatti consolidato ormai un modello più o meno simile in tutti i paesi coinvolti dai processi positivi e arricchenti, oltre che da quelli ambigui e drammatici, della globalizzazione. Un modello in cui la finanziarizzazione del capitalismo e la riduzione del peso quantitativo e politico del lavoro hanno accentuato le diseguaglianze e frammentato la società, spiazzando tutte le forme di integrazione, di regolazione e di mediazione sociale. Se nei paesi emergenti le condizioni si sono diversificate (con spazi di uscita dalla povertà almeno pari alle situazioni di stagnazione e marginalizzazione), nei paesi avanzati, non c’è dubbio che la polarizzazione creatasi abbia impoverito proporzionalmente il ceto medio e favorito un’élite finanziarizzata ristretta. La sinistra non ha raccolto la protesta e l’inquietudine di coloro che si sono sentiti spiazzati, che invece si indirizza verso movimenti populisti e nazionalisti più o meno radicalizzati a destra.

Vero è che alcune dimensioni di questi cambiamenti non possono essere affrontati soltanto dalla politica. O si affermerà dal basso un movimento capace di riaffermare il ruolo dei legami sociali e gli investimenti comunitari, oppure la società non ritroverà coesione. O l’economia troverà un equilibrio tra regole del profitto immediato e dinamiche costruttive di valore legate ai cicli della sostenibilità, oppure non avremo grande futuro, e non riusciremo ad affrontare le perturbazioni tipiche della speculazione. O l’umanità riuscirà a inventare forme di revisione e di adattamento dei cicli storici affidati alle leggi del mercato, o si rischieranno conflitti e instabilità alla lunga insostenibili.

Ma altri problemi possono e devono essere posti di fronte alla politica. Personalmente, credo che ci manchino molte cose, sul piano progettuale e propositivo. Come ci ha detto anche Romano Prodi nell’ultimo incontro di C3dem, la situazione andrebbe sbloccata con un’azione culturale e intellettuale complessa. Ma non ci si può bloccare per questo: anzi, per continuare a lavorare uno snodo decisivo è collocabile a livello propriamente ideologico: so che la parola è controversa e ambigua, ma non credo ne esistano di migliori. Intendo con ideologia qualcosa di più mobile e flessibile rispetto all’immaginario novecentesco. Non certo elaborati sistemi di pensiero sorvegliati da burocrazie auto-legittimate. Intendo però qualcosa che si collega alla funzione che le ideologie hanno sempre avuto: la capacità di costruire una narrazione convincente di come le cose stanno andando e di come si possa cambiarle, funzionale a raccogliere consensi e a mobilitare energie. La destra mostra spiccata capacità in questo campo: dalle riflessioni neoliberiste reaganiane e thatcheriane contro lo Stato keynesiano, fino al populismo che ha reso credibile la fittizia contrapposizione tra il popolo e l’establishment (leggasi il discorso di insediamento di Trump). Cosa sono state, se non ideologie?

La sinistra sembra invece aver smarrito il modello per costruire narrazioni. Alterna discorsi utopistici e deresponsabilizzanti a rappresentazioni pseudo-realiste, imperniate sulla colpevolizzazione del proprio elettorato e sulla retorica dei sacrifici. Occorre invece una lettura del mondo che sia sufficientemente rassicurante e non solo penalizzante. Una lettura che aiuti simbolicamente a costruire identità comunitarie non chiuse e paurosamente ripiegate, ma aperte e dinamiche, rafforzando la speranza contro la rassegnazione o il pessimismo. Che indichi un percorso su cui raccogliere energie, anche se non c’è ancora luce su tutto il cammino. E che quindi torni a tenere assieme diritti personali e coesione sociale, contrapponendosi a una deriva individualistica tipica di una certa sinistra che scambia il progressismo per l’inseguimento libertario delle nuove frontiere delle diversità, trascurando la dimensione sociale. Vogliamo trovare, con quel tanto di buona demagogia necessaria, un orizzonte convincente in questa direzione? Qualcosa di simile alla forza convincente dello «Yes we can!» obamiano, che è stato appunto molto di più di uno slogan, ma un discorso sintetico su come mobilitare energie per il cambiamento?

Per costruire questa lettura, gli strumenti programmatici possono anche essere diversi e sperimentali, almeno finché non avremo ricette convincenti e onnicomprensive. Accenno solo a due orizzonti cruciali, in fondo non divergenti.

Il primo. Io penso ad esempio che occorra rilanciare l’utilizzazione degli apparati pubblici e della leva fiscale per creare quel lavoro che il capitalismo non ricrea più a sufficienza, allargando l’impiego nei servizi alla persona di un Welfare moderno, nei progetti di innovazione a contenuto ecologicamente sostenibile e socialmente costruttivo, nell’integrazione sociale e culturale degli immigrati (oltre il dibattito su accoglienza/respingimento), nel sistema cruciale della ricerca e dell’istruzione, nelle iniziative che mobilitano le comunità concrete nel miglioramento delle loro condizioni di vita… Questo orizzonte di ragionamento mi convince molto di più che non il costoso e forse deresponsabilizzante «reddito di cittadinanza». Esiste uno studio di alcuni economisti che parte dalla constatazione che in Italia abbiamo ridotto il pubblico impiego percentualmente molto di più che in altri paesi paragonabili, mentre investire selettivamente in questa direzione sarebbe obiettivo cruciale per affrontare la crisi, con un costo fiscale che, ben presentato, diverrebbe motivabile e comprensibile (http://www.propostaneokeynesiana.it/).

Il secondo. Continuo poi a credere che si debba coraggiosamente porre un problema di regolazione del sistema, almeno su alcuni pochi punti cruciali, dopo che si è ormai esplorata tutta la flessibilità possibile. Occorre cioè rafforzare il mercato con regole mirate alla sua stabilità, ma al contempo circoscrivendolo con chiarezza e difendendo giuridicamente spazi di vita affidati a logiche diverse dal mercato. Su questo terreno, porre la questione del controllo della rendita finanziaria è decisivo. La sinistra liberale, socialdemocratica e laburista di inizio ‘900 – quando la parola democrazia voleva dire allargare la cittadinanza ai «molti» non privilegiati – si è costruita sul senso innovatore della tassa di successione (ad esempio in Gran Bretagna su tale questione si è giocato il ridimensionamento del potere della Camera dei Lord). Una qualche battaglia analoga oggi si deve immaginare soprattutto rispetto alla finanza.

Insomma, cose vecchie e cose nuove, come quelle che il buon scriba del racconto evangelico tira fuori dalla propria bisaccia. Una politica non onnipotente ma nemmeno dimissionaria. Un recupero di statualità che naturalmente sarebbe rafforzato dall’assunzione di una dimensione europea (capitolo aperto, quanto dolente). Tutte cose a servizio di un racconto credibile, incarnato da un impegno collettivo di persone credibili. Non dovrebbe essere impossibile.

 

Guido Formigoni

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  1. “Il vicolo cieco della sinistra” di Guido Formigoni pubblicato in “30 righe, sollecita la riflessione attorno alla domanda sulle prospettive di una sinistra credibile per il futuro, quale orizzonte generale in cui trova collocazione e funzione il cattolicesimo democratico, e ci invita ad affrontare questo dilemma: da una parte, c’è lo spettro invecchiato di una sinistra che non ha capito il nuovo, che si è adagiata sull’illusione della continuità di vecchi schemi mentali e di parole d’ordine irrealistiche, quasi imbalsamando mentalmente un modello di società fordista che non esiste più; dall’altra, si raccoglie la sensazione che sia al capolinea – a livello europeo e anche mondiale – il percorso di una sinistra che ha sposato enfaticamente il nuovo, aprendosi alle novità della stagione della globalizzazione, ma che da esso è stata sostanzialmente travolta, senza riuscire a gestirlo e nemmeno a condizionarlo modestamente. I primi sono quasi scomparsi, i secondi sono stati abbandonati ampiamente dai gruppi sociali e culturali di riferimento.
    Se non fosse perché è stata pubblicata qualche giorno prima, il 31 gennaio, l’intervista di Massimo Cacciari su La Stampa potrebbe essere letta come la risposta a Giudo e la scelta della seconda ipotesi del dilemma proposto.
    Non come condivisione di quanto Cacciari dice, ma semplicemente perché la sua riflessione pone una serie di domande che interrogano sul passato e sul presente come condizione per capire quale potrà essere il futuro e come si potrà anticiparlo e governarlo, credo opportuno visto che è riportata in “c3dem” proporre l’intervista a Cacciari.

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    Cacciari: “Basta con il mondo di ieri, nessuna sinistra oggi può vincere in Europa”

    Pubblicato il 31/01/2017
    francesca paci
    roma

    La crisi della sinistra è venuta a noia a Massimo Cacciari, che pure l’ha indagata a fondo come pochi. Ma, nella difficoltà di afferrare il nuovo ordine (o disordine) globale, il Novecento si prende la rivincita sulla Storia e ci riporta sempre al punto di partenza, tornando a proporre le logiche politiche di ieri.

    Cosa possiamo dedurre dal trionfo di Hamon, la sinistra della sinistra francese?
    «Ma di quale trionfo parliamo? Di quale vittoria parliamo? Il problema, in Francia e nel resto d’Europa, non è quale sinistra o cosiddetta sinistra vinca le elezioni interne ma se la sinistra ce la fa poi alle elezioni che contano. E la risposta è no. È già capitato che alle primarie del centro-sinistra, anche alle primarie locali, prevalesse la sinistra sinistra. Come Hamon a Parigi, a Venezia a suo tempo passò Casson. Ma poi si perde regolarmente. Nessuna sinistra, socialdemocratica o meno, può vincere oggi in Europa».

    Allora rovesciamo la domanda: perché la sinistra non vince più?
    «Ecco la domanda giusta. E la risposta è che ci sono ragioni storiche e strutturali, ragioni obiettive. Da una parte è venuta meno la classe operaia, il suo blocco sociale di riferimento, dall’altra la sinistra non ha capito la crisi fiscale dello Stato. Non c’è più spazio per la sinistra tradizionale, che si ricicli o meno. Certamente non c’è più spazio per i D’Alema e i Bersani. Ma in realtà non ce ne sarebbe neppure per i grandi leader socialdemocratici del passato come Willy Brandt, e non solo perché sono morti ma perché il mondo è cambiato e la sinistra tradizionale appartiene al mondo di ieri. Esattamente come la destra».

    La destra, no. Altrimenti come spieghiamo l’elezione di Trump?
    «Trump non viene dalla destra tradizionale, tanto che i repubblicani non lo volevano. La destra tradizionale non c’è più, non vengono da quella esperienza né i Grillo, né i Salvini e neppure i pro Brexit del Regno Unito, dove i Tory erano piuttosto europeisti come Churchill. L’unica forza politica un po’ riconducibile al passato è Fratelli d’Italia, che però, non a caso, conta il 2%. Allo stesso modo Renzi non viene dalla sinistra tradizionale. Tutto questo è il mondo di ieri. Basta pensare che la prima clamorosa mossa di Trump è stata riavvicinarsi a Putin e che nel frattempo Putin si è ancor più clamorosamente avvicinato alla Turchia per intuire la portata del cambiamento rispetto al quale i concetti di destra e sinistra non spiegano più niente. O capiamo che i parametri del passato sono finiti, e non per incultura ma per motivi strutturali, o andremo incontro alla catastrofe».

    I nuovi populismi intercettano il cambiamento in corso: saranno anche in grado di governarlo?
    «La parola populismi dice poco o nulla. Sono forze a volte più di destra, a volte più di sinistra e di sicuro non si oppongono al cambiamento in corso e non sono in grado di interpretarlo. Ma almeno rappresentano la testimonianza della fine delle politiche tradizionali e dei mutamenti radicali di questi anni. Oggi diciamo “populismi” come le antiche carte geografiche dicevano “hic sunt leones” per indicare le zone inesplorate: ci sembra che il problema siano loro ma il problema è capire dove andiamo smettendola di ragionare con gli schemi del passato».

    Gli schemi del passato comprendono le probabilmente obsolete categorie destra e sinistra ma comprendo anche il rapporto tra capitale e lavoro, che invece sembra ancora piuttosto attuale. O no?
    «Anche il capitale e il lavoro non sono più gli stessi. Il capitalismo si è deterritorializzato, lo Stato nazionale non ha più la sovranità politica sui flussi di capitale, il lavoro dipendente è ormai polverizzato e non si organizza più come faceva nell’800 e nel ’900 nei grandi opifici. In realtà sarebbe bastato leggere Marx con attenzione per capire come sarebbe andata a finire, ma ormai ci siamo. Le diseguaglianze globali crescono a dismisura e in modo intollerabile. Questo è un colossale problema che prima o poi potrebbe far scoppiare tutto anche perché le grandi potenze politiche non sono per loro natura capaci di affrontarlo».

    Cosa potrebbe fare la politica se, come suggerisce, decidesse di togliersi gli occhiali del passato?
    «Dovrebbe provare a capire e soprattutto dire la verità. Oggi il massimo che un politico può fare è essere onesto. Bisogna smetterla con le chiacchiere e invece elencare le poche cose che si possono fare illustrando come potrebbero funzionare meglio coordinandosi con altri. È assurdo continuare a sbandierare la sovranità illimitata che i politici non hanno più. Sono personalmente molto felice di questo intermezzo di Gentiloni in Italia, perché non dice un gran ché ma almeno non promette nulla».

    Per quanto sia ancora una volta il mondo di ieri: ha ragione il filosofo sloveno Slavoj Žižek, quando sostiene che la destra cresce cavalcando i temi che un tempo appartenevano alla sinistra?
    «In qualche modo sì. Bisogna guardare ai problemi con modestia. Il lavoro non è più “massa” come quello del passato e i politici non l’hanno capito. I sindacati, per esempio, dovrebbero iniziare a occuparsi del lavoro dipendente disperso, della galassia del lavoro giovanile, del precariato a 500 euro al mese, dei cosiddetti voucher».

    A onor del vero qualcuno in Europa ci prova. Il francese Hamon ne parla e anche Martin Schulz si è candidato contro la Cancelliera Merkel per recuperare terreno con le classi operaie migrate dalla socialdemocrazia alla nuova destra. Non è così?
    «Sinceramente mi auguro che in Germania vinca la Merkel, speriamo che prevalga alle elezioni e diventi leader: all’orizzonte la Cancelliera tedesca è l’unica che possa farlo. Lo ripeto: nessun partito socialdemocratico può oggi vincere in Europa. È passato il tempo. Vent’anni fa Tony e Blair e Clinton interpretarono la svolta epocale accodandosi al flusso egemonico della globalizzazione vincente senza alcuna critica. Da allora è andata sempre peggio, le sinistre hanno fatto tutti gli errori possibili, dal seguire l’America nelle sue scellerate guerre alla risposta, quella risposta, alle primavere arabe. E poi ancora, la Grecia, la Brexit, una sequenza di scelte sbagliate. Accodarsi come fecero Blair e Clinton non è una scelta politica ma sub-politica».

    C’è ancora spazio per l’ambizione dei giovani ad avere un sogno?
    «Poco. Ma è pessimo che i politici facciano finta di niente promettendo loro la sovranità illimitata che non hanno, come avvenuto in Italia negli ultimi tempi. Bisogna spiegare ai giovani come stanno le cose invece di elargire elemosina, come nel caso degli 80 o i 500 euro».

    Il reddito di cittadinanza è un buon punto di partenza?
    «Quella è la strada giusta. Se ci illudiamo che ci sarà di nuovo uno sviluppo capace di produrre più lavoro sbagliamo. È ancora il mondo di ieri, quello in cui si credeva che la rivoluzione tecnologica avrebbe aperto nuovi settori. È un fatto: sebbene in occidente la ricchezza continui a crescere si riducono le chance per il lavoro. Ma non per questo bisogna lasciare la gente senza le risorse minime. È una delle poche cose serie e vere dette dal Movimento 5 Stelle: bisogna sganciare le aspettative di vita dal fatto che si lavori, non è impossibile da fare né disastroso. Il reddito di cittadinanza o come altro viene chiamato passa per un’utopia mentre è un approccio pragmatico, solidale e può ricostruire una comunità».

    Solidale, comunità: non sono parole del mondo di ieri?
    «Da Aristotele a oggi non esiste comunità che possa esistere funzionando solo come un condominio. È razionale, logico. In un condominio, ammesso che sia vero, puoi startene chiuso in casa ma in un Paese, a livello nazionale, è difficile. L’America non funziona come un condominio e neppure la Russia e la Cina: o l’Europa lo capisce e smette di comportarsi come fosse un condominio dove si fanno solo i conti comuni o ci faranno il mazzo. Dobbiamo ragionare per provare a evitare il disastro oppure siamo finiti. Parlo dell’Europa ma anche dell’Italia. Ci sono già delle avvisaglie per noi, abbiamo votato no per salvare la Costituzione e adesso sarà tutto più difficile, ci chiederanno una manovrina, vedremo. Dovremmo ricordarci della Grecia, ho letto che in tre anni di Troika la ricchezza è diminuita del 35%. E voi credete che qui potremmo reggere misure di austerità del genere imposte ad Atene? Pensate che in Italia passerebbero senza sparare? I greci hanno retto ma le condizioni sono diverse, e non parlo solo di dimensione: se cadi dal primo piano puoi sperare di salvarti ma se cadi dal terzo piano crepi».

  2. Mentre leggo l’intervista del Prof Cacciari, allegata al commento di Rodolfo Vialba, mi risuona nella testa la definizione, che ho trovato attribuita a Edgar Morin:
    “La cultura è un sistema che fa comunicare [dialettizza] un’esperienza esistenziale con un sapere costituito”.

    Cacciari, Morin e tanti altri esponenti del “sapere costituito”, li ascolto e li leggo ogni giorno.

    Io sono uno dei tanti portatori di “esperienza esistenziale”.

    Mi domando se …
    “un sistema che fa comunicare”
    si possa considerare come
    “un processo”
    …. ad esempio ….
    “di adeguamento degli strumenti, non solo tecnologici, necessari a rendere fattibile ciò che l’esperienza esistenziale può immaginare si possa fare”.
    Per me il Web è nato da quel tipo di processo.

    [Questa è un “abbozzo” di contributo per l’avviamento di un dialogo; se esistesse un “Wikintent”, questo potrebbe essere uno “stub” che invita a revisionare, cambiare, ampliare ciò che ho scritto per definire un processo “da avviare”, destinato alla creazione e alla gestione di un “ambiente di sistema”]

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