Il ritorno (vero) di un nuovo fascismo e la ricerca di una sinistra non (più) socialista

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Elezioni regionali tedesche. I socialisti perdono ovunque, rischiando di arrivare vicini alla soglia di sopravvivenza del 5%. I democristiani sono in forte calo. Avanzano i verdi (nel Baden) e l’estrema destra: sia all’ovest (Baden, Palatinato) sia soprattutto nella regione della Sassonia-Anhalt (Magdeburgo), un Land povero della fu Germania comunista.

In Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia, Austria, Slovenia, Croazia – nelle terre un tempo asburgiche, e, salvo l’Austria, comuniste per quarant’anni – dominano partiti o politiche di estrema destra, davvero ai limiti del ritorno di un nuovo fascismo.

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Usando categorie marxiste, il fascismo classico aveva come base sociale la media e piccola borghesia, impoverita o impaurita dal timore di impoverirsi, ed il “sottoproletariato”, manovalanza politica e militare pronta a tutto; aveva come collante ideologico il culto di un capo, la ricerca di una identità etnico-nazionale con riferimenti “ideologici” anche al cristianesimo (Maurras e Petain in Francia, mons. Tyso nella Slovacchia pro-nazista), l’odio verso il diverso (gli ebrei).

Oggi ritroviamo in molti movimenti di destra, estrema e meno estrema, le medesime caratteristiche: la crisi economica cominciata nel 2007 come “levatrice”, l’impoverimento delle classi medie, la scomparsa dei grandi partiti e delle grandi narrazioni che davano (anche) certezze ed una casa politica a molti cittadini, la fine della guerra fredda, il fallimento (per ora) nella costruzione di una vera “casa comune europea”, e la paura, se non l’odio, verso gli immigrati e verso i musulmani in particolare (odio ovviamente, e purtroppo, ricambiato con gli interessi da molte frange estremiste di matrice islamica). La retorica sulle “radici cristiane” diventa in realtà spesso una “clava” per combattere il diverso da sé; capi e capetti, con alterne fortune, spuntano in tutti i Paesi dell’Unione, dando vita a movimenti politici tutt’altro che effimeri (da LePen a Podemos, da Farange a Heider, dalla Lega ai 5stelle, ai vari movimenti di estrema destra, spesso xenofobi, presenti in Olanda, Danimarca, Svezia, sino ai Paesi dell’Europa centrale e orientale prima nominati).

 

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Di fronte a questo vero, reale, non passeggero pericolo, le sinistre europee rispondono da un lato con la retorica della impresentabilità pubblica di posizioni obiettivamente razziste – ma il fenomeno Trump fa capire che poi la gente vota in altro modo; e dall’altro continuando però nelle polemiche politiche tradizionali, sia dentro i partiti moderati di centro destra, sia anche, se non di più (e questo è paradossale), all’interno delle galassie di centrosinistra. In Italia specialmente…. ma ricordiamo che nel 2002 le divisioni fra diversi candidati della gauche fecero sì che al secondo turno delle presidenziali si sfidassero Le Pen e Chirac.

La retorica dell’antifascismo si limita a celebrare le varie ricorrenze partigiane e repubblicane, a combattere i pochissimi cosiddetti “neofascisti” (tipo casaPound), ma a chiudere gli occhi sui “nuovi fascisti”.

Se veniamo alla polemiche antirenziane delle sinistre italiche, si può vedere il rischio concreto di non capire chi sia oggi il vero nemico, in Italia come in Europa.

Chi scrive questi appunti si considera ed è considerato un “renziano della prima ora”, ma è persona che ragiona sempre con la propria testa e non nasconde il fastidio per atteggiamenti ed espressioni, ed anche per talune scelte, che personalmente non condivide; ma renziano rimane – anche per le ragioni che sto dicendo.

L’alternativa in Italia all’attuale Partito Democratico  – l’alternativa di governo, intendo dire – non è il ritorno all’Ulivo (affossato nel 1998 da Bertinotti e D’Alema: qualcuno lo ricorda?), o al PD bersaniano (che non ha vinto le elezioni del 2013): è il governo del Paese affidato a Salvini o a Grillo – ossia alle due formulazioni nostrane di quel “nuovo fascismo” che avanza in tutta Europa, e che se in Italia formasse un solo movimento potrebbe avere quasi il 60% dei consensi.

Quando leggo che a Torino Airaudo punterebbe a fare un po’  meglio del 5% ottenuto dalla “lista Tsipras” alle ultime europee, ossia – concretamente – a fare arrivare Fassino al ballottaggio per poi farlo perdere (contro la Destra o contro 5stelle, non importa), quando una persona che ha governato Napoli e la Campania per vent’anni, anziché lavorare per la nascita di una classe dirigente davvero nuova, sfida alle primarie una donna che ha circa la metà dei suoi anni, contesta il voto uscito dalle primarie (certamente poco limpido, ma andate a rivedere le cronache delle primarie napoletane dell’era Bersani/Bassolino: 2011, 2012, 2013….), quando a Milano si contestano le primarie perché il vincitore non è abbastanza di sinistra (avendo peraltro presentato due candidati alternativi a sala anziché uno solo), e lo stesso si fa a Roma (dove Giachetti ha preso il doppio dei voti di Morassut: hanno votato in pochi, si dice, ma andando avanti così voteranno sempre di meno a sinistra e sempre di più per le due destre), vuol dire non aver capito che il problema non è far perdere Renzi per riprendere dopo il controllo del partito; il problema è che se il PD renziano sparisce dalla circolazione rimarrebbe in campo solo una piccola forza di sinistra di matrice socialista destinata ad essere perennemente in minoranza, anche a costituzione vigente.

Infatti l’assurda foga anti-riforma costituzionale ed anti-legge elettorale la si spiega solo nella prospettiva di chi sa che non potrà mai vincere le elezioni, e dunque ha bisogno di un sistema che impedisca o che qualcuno vinca, o che chi vinca riesca a governare.

 

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Ecco perché, nell’immediato, pericoloso passaggio, con i barbari ossia con i  “nuovi fascismi” davvero alle porte (parlo di Salvini e Grillo in Italia), occorre nell’immediato salvaguardare “a qualunque costo” la tenuta anche elettorale del PD renziano, e lavorare per una nuova sinistra, che conservando le parole d’ordine dello sviluppo delle libertà e della lotta alle ineguaglianze abbandoni le vecchie ricette socialiste (più Stato, più pubblico, alte tasse in cambio di servizi universali: ossia aumento delle burocrazie e delle inefficienze) e abbandoni pure le nuove ricette antimoderne (l’ambientalismo di chi non vuole le ferrovie, l’idea che l’agricoltura biologica a km zero possa sfamare sette miliardi di persone, l’idea della crescita zero, che in molti Paesi del mondo vuol dire crescita sottozero), per inventarsi una nuova idea di sinistra più leggera, meno statalista e più “sociale” (corpi intermedi), essendo più attenta all’economia reale e industriale rispetto alla grande finanza, più attenta ai lavori e ai lavoratori di vario tipo, che al “lavoro dipendente di fabbrica sindacalmente protetto” e astrattamente inteso (se i partiti sono in crisi non è che i sindacati stiano meglio).

Abbiamo discusso per tre mesi della legge sul lavoro renziana, accusata di esser di destra e amica dei “padroni”: a distanza di oltre un anno, cominciamo a guardare i risultati? L’albero si vede dai frutti, la ricetta si giudica dalla torta… se aumentano gli occupati e diminuiscono i disoccupati, se aumenta il lavoro stabile e diminuisce quello precario… qualche cosa di buono la riforma del marcato del lavoro sta producendo…

Hanno contestato una legge sulla scuola che – pur tra mille dubbi – rimette al centro lo studente e non la “casta” dei docenti intoccabili anche quando fanno finta di insegnare, rimette al centro la progettazione delle scuole nel loro territorio, ridà fiato a quel principio di autonomia scolastica rimasto per 15 anni solo un flatus vocis….

Hanno contestato (meno) le riforme Brunetta e Madia perché le immagini dei vigili in mutande che timbrano il cartellino e poi non vanno a lavorare sono troppo chiare per parlare di complotti…

Occorre invece prendere atto, a quasi trent’anni dalla fine del comunismo e del socialismo reale, che quel tipo di sinistra, quello di Vendola o di D’Alema, appartiene oramai ai libri di storia, e continuare a voltarsi nostalgicamente indietro farà crescere qua e là tante statue di sale… Con i “nuovi fascismi” alle porte forse è il caso, invece, di andare avanti, e possibilmente spediti.

 

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Nella costruzione di una sinistra nuova, non socialista, ma – appunto – democratica e autenticamente popolare il cattolicesimo democratico può nuovamente trovare una sua strada. Diversa da quella che si è incarnata in alcune esperienze della cosiddetta “sinistra DC” e nella più recente esperienza ulivista-prodiana. Anche per ragioni numeriche ed elettorali, il ciclone-Renzi ha tolto alla tradizione di sinistra-ex-comunista il pallino del comando che ha sempre avuto (anche quando ha ceduto a Prodi o Rutelli la leadership formale) nelle varie formazioni-alleanze dal 1994 al 2013. Ora comandano altri, alcuni dei quali, compreso lo stesso Renzi, possono vantare una (seppur marginale) formazione nell’associazionismo cattolico. Ma soprattutto per ragioni culturali: l’idea socialista o socialdemocratica, secondo cui la giustizia sociale la si attua con il binomio tasse sui “ricchi” per servizi ai “poveri”, non regge più nel tempo della società complessa, dei lavori che cambiano, dell’immigrazione epocale, della crisi dei pratiti e di tutte le antiche agenzie intermedie di collocamento (del consenso e delle persone).

Occorre appunto lavorare – culturalmente e politicamente – a costruire una nuova agenda per una sinistra nuova, ed il cattolicesimo democratico, nell’era di papa Francesco, può avere carte da giocare – se anche noi smettiamo di guardare solo ai nostri padri/madri fondatori (De Gasperi e Dossetti, Moro e Zaccagnini, Prodi e Bindi), e ascoltiamo con maggiore attenzione le proposte e le sfide che vengono dai (non tanti) giovani e un po’ meno giovani che continuano a credere e a crescere nelle nostre associazioni e nei nostri oratori.

 

 

Guido Campanini

(Parma, 12 marzo 2016)

3 Comments

  1. Non ho nulla da aggiungere. Sono totalmente d’accordo. Da qui bisognerebbe partire per costruire poi una cultura e una politica di sinistra non marxista (salvando del pensiero di Marx ciò che è salvabile). Ma è la tradizione comunista e socialdemocratica che è finita. Questo è il punto da cui ripartire. Dunque lasciar perdere anche questa pseudo-sinistra dem, perché rappresenta solo una perdita di tempo. Purtroppo certamente non riguarda solo i capi, ma un largo numero di persone formate in quel modo. Ma l’eredità se guardiamo alla base, localmente, è ben modesta. Senza il partito le persone si sono sperse e i risultati sono tutt’altro che positivi. Ricostruire, ricostruire, ricostruire.

  2. L’articolo parte molto bene, in particolare quando evidenzia il pericolo di cadere in mano ai partiti populisti nostrani. Poi, però, leggendo certe frasi come “se aumenta il lavoro stabile e diminuisce quello precario” (con il jobs act, nei fatti, non esiste più il lavoro a tempo indeterminato) o “rimette al centro lo studente” (anche qui, oltre a poche e vuote ununciazioni, nella sostanza la buona scuola si disinteressa dello studente) si capisce che è la solita sviolinata acritica pro Renzi

  3. So di fare una provocazione (ma non lo è più di tanto): come si può iniziare a lavorare per una nuova sinistra, non socialista e in cui il cattolicesimo democratico (e soprattutto le “scosse” che provocano i messaggi, i gesti, le parole di Papa Francesco) ha ancora un ruolo, se il PD è ormai inserito nel Partito Socialista Europeo? Se non si crea un contenitore nuovo, veramente nuovo e svincolato dai vecchi scatoloni, e dalle vecchie culture politiche (senza dimenticarle o calpestarle), costruito riavvicinando posizioni oggi ancora distanti tra loro tra i riformismi e le sinistre democratiche e popolari è difficile convogliare l’interesse, la progettualità e poi anche il consenso. Come far saltare l’alternativa pro Renzi – anti Renzi e scompaginare questi due campi per ricomporli in una posizione per il cambiamento radicale dell’economia, della finanza, ecc? Forse l’occasione dovrebbe essere la questione riforme, soprattutto quella costituzionale. Ma anche qui ormai è tardi: quando scattano i referendum la frittata è già servita, non si discute più molto sul merito e lo scontro diventa inevitabilmente politico; e chi ritiene la riforma costituzionale una risposta positiva alla necessità di cambiamento, anche se di sinistra, non giocherà per riaggregare la nuova sinistra che l’articolo propone.

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