Il pessimismo di tanti cattolici

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Riceviamo e ben volentieri pubblichiamo un intervento di un insigne storico dell’economia (insegna alla Luiss e alla Duke University in North Carolina, scrive sul Sole 24 ore, è autore di molti libri), in tempi lontani presidente fucino, amico di c3dem (di recente ha scritto per noi un interessante articolo: “Dobbiamo temere un ritorno dell’inflazione?“), ma anche critico nei riguardi di quella che considera una cultura troppo ideologizzata cui rimarrebbero ancorati molti cattolici schierati a sinistra. Un’occasione per confrontarci con il nostro bagaglio culturale, con schiettezza.

 

1.

Negli anni Sessanta molti di noi furono colpiti dalla novità della Pacem in Terris di Giovanni XXIII, della costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II, della Populorum progressio di Paolo VI. Novità della quale ciascuno sottolineò questo o quell’aspetto, secondo le proprie preferenze e sensibilità. Quello che a me parve più importante era il tono d’ inedita apertura agli aspetti positivi della società, dell’economia, della tecnologia dell’epoca, accanto alla condanna di quelli giudicati molto negativi. Mi parve una sorta di riconciliazione, per quanto critica e parziale, della Chiesa con il mondo moderno, con la sua storia. Dopo essere stata, per quasi due millenni, uno dei pilastri portanti del mondo feudale e aristocratico fondato sulla rendita terriera, la cattolicità si era chiusa in un rifiuto totale della società nata dalle rivoluzioni gemelle, quella francese e quella industriale. Si era chiusa in una condanna tanto sterile quanto miope della democrazia liberale e del cosiddetto sviluppo economico moderno. I documenti degli anni Sessanta innovavano rispetto a una visione del “bene comune” che sino ad allora la dottrina sociale della Chiesa individuava, semplifico al massimo, in una società solidale, certo, ma sostanzialmente statica, agricola, fatta di piccole imprese possibilmente cooperative. Soprattutto una società “ordinata”, priva delle tensioni che inevitabilmente portano con sé i grandi cambiamenti della storia come l’irrompere della democrazia e la rapidità della crescita economica. Quando Paolo VI disse che il nome della pace era lo sviluppo, da giovanissimo economista non potei che provare un entusiasmo, probabilmente ingenuo ma autentico. Gli aspetti positivi della società e dell’economia venivano finalmente valorizzati come potenziali strumenti di miglioramento della condizione dell’uomo sulla terra. Ai cristiani era affidato il compito di contribuire al progresso tecnico, alla scienza, allo sviluppo come realtà piene di valori, non certo quelli ultimi ma da perfezionare per il raggiungimento di questi.

2.

Perché questi ricordi d’antan, di un mondo che ci pare tanto lontano? Perché, senza entrare nel magistero, per tanti aspetti nuovo e straordinario, di papa Francesco, mi pare che la cultura diffusa in segmenti importanti del mondo cattolico italiano sia sottilmente tornata a una visone molto negativa del mondo contemporaneo. Se, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la critica dei cattolici al mondo moderno era ispirata a una conservazione “di destra”, oggi essa è talvolta altrettanto conservatrice, ma “di sinistra”. Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di preferenze culturali e politiche non solo legittime ma entrambe comprensibili perché riflettono, per fortuna solo parzialmente, lo spirito dei rispettivi tempi. Quello che preoccupa è che erano e sono entrambe sterili. Mi pare che chi, in ogni epoca storica, voglia lavorare per il progresso umano possa solo farlo sulla base di due pilastri: l’individuazione  di quanto di negativo ci consegna la realtà storica accanto alla ricerca dei suoi aspetti positivi, che sempre ci sono, sui quali basare la costruzione di un mondo migliore. Mi pare necessaria una visione della realtà aperta anche, oserei dire soprattutto, alla scoperta di quanto di positivo ci consegna ogni epoca storica, anche quella nella quale ci è dato di vivere. Sono da compiangere le persone che non hanno una propria utopia, ma sono inefficaci quelle che pensano che solo la sua piena realizzazione giustifichi il pensiero e l’azione nella costruzione di un “bene comune”, comunque definito.

3.

Perché molti cattolici italiani (l’aggettivo non è di poco conto) vedono il mondo contemporaneo con occhiali molto scuri? Non ho una risposta chiara ma credo sarebbe bene parlarne. Mi pare che si parta spesso da assiomi, che come tali non hanno bisogno di dimostrazione. Per esempio: lo sviluppo economico dell’ultimo quarto di secolo ha avuto solo connotati negativi, la finanza genericamente intesa é la causa di quasi tutti i mali, il problema principale del nostro mondo é la sempre crescente disuguaglianza. Pare invece a me che ciascuno di questi temi abbia in sé luci e ombre che vanno attentamente valutati e scoperti. Penso, per fare un esempio, al ruolo certo ambiguo ma largamente positivo del progresso tecnico. Quale straordinario risultato della mente e dell’organizzazione umane è stato quello di darci in pochi mesi vaccini efficaci contro la pandemia. Un tale successo in tempi tanto brevi non si era mai visto prima e avrebbe forse meritato un minuto di ammirato stupore da parte di chi, con alcune buone ragioni, ha subito criticato Big Pharma. Per fare un altro esempio: gli effetti della cosiddetta “globalizzazione” sono solo negativi? Personalmente sono convinto che quelli positivi superino di molto quelli negativi (sono preferibili l’autarchia di Mussolini e l’America First di Trump?) e che su di essi sia necessario basarsi per costruire un mondo migliore. Sarebbe credo utile e costruttivo che se ne potesse parlare tra noi senza partire da assiomi. Non sono uno psicologo ma mi chiedo perché persone di grande impegno nel coinvolgimento sociale, nella vita comunitaria, nella dedizione ai poveri e agli immigranti si sentano rassicurate in questo impegno dalla convinzione incontrovertibile che tutti i mali del mondo dipendano da un’unica causa: un non meglio specificato “modello di sviluppo” irrimediabilmente negativo. Questo assioma tinge di grigio scuro la visione del mondo contemporaneo, non lascia respirare le tante cose positive, i tanti – direi colossali – progressi dell’umanità negli ultimi 200, 50, perfino 10 anni. Così non pochi cattolici, soprattutto italiani, sono tornati a una visione negativa e pessimista della storia, proprio quella che Paolo VI, da taluni erroneamente ritenuto papa triste, aveva cercato di rimuovere.

 

Gianni Toniolo

 

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  1. Hai ragione, Gianni, quando poni forti accenti di perplessità su un generico e reiterato spirito critico di molti (non tutti) i cattolici sulle sorti “magnifiche e progressive” dello sviluppo odierno del mondo post-capitalistico. Forse bisognerebbe essere più sereni e con uno sguardo aperto e ampio. Ma le critiche sono più che comprensibili. E, secondo me, si basano su almeno due aspetti di fondo. Da una parte le critiche principalmente concentrate sull’ideologia dominante che fa del mito della crescita l’unico (se non dominante), fondativo del miglioramento complessivo della condizione di vita della popolazione mondiale. Tu mi insegni, ad esempio, quanto sia precario e infondato il mito presunto vincente del cosiddetto “effetto trickle-down, o teoria della goccia”, in voga soprattutto negli Stati Uniti, che presume un’idea di sviluppo economico complessivo che parte dai vantaggi verso i ceti abbienti (alleggerimento dell’imposizione fiscale) che necessariamente, e di conseguenza, favorirebbero di per sé l’intera società, comprese le fasce di popolazione marginali e disagiate. E invece le condizioni di disuguaglianza sono aumentate a dismisura: (da 1 a 20 il rapporto retribuzione lavoratori dirigenti nel 1965 a 1 a 312 oggi). Per questo si storce il naso quando si tratta di valutare gli effetti dell’attuale “modello di sviluppo” e si trascurano gli “effetti positivi” che pure ci sono. Ma se a beneficiarne sono sempre gli stessi, in gran parte, come si fa…?
    Secondo: il futuro del pianeta. Per costituzione i cattolici che guardano al mondo pensano anche alle future generazioni, che ricevono il pianeta, non in eredità, ma (come dice un noto apologo) in restituzione dagli avi a cui “lo avevano dato in prestito”. Il pianeta, senza un intervento radicale sui sistemi di estrazione delle risorse, produzione e gestione dei beni e infine trattamento dei rifiuti, avrà vita difficile. E il credente, alla fine, qualche dubbio – seppure esagerato e pessimista come scrivi – se lo pone a ragion veduta.
    Vero, però, che non bisogna dimenticare i benefici prodotti dalla globalizzazione. Su questo bisogna senza dubbio avviare un dibattito. Schietto e senza finzioni. E per questo, credo, le ultime Encicliche di papa Francesco, possono costituire un faro importante. Il punto è alimentare e sostenere le sedi e i percorsi adatti, per questo confronto. Questo tempo che viviamo, purtroppo, non li favorisce. Non bisogna scoraggiarsi, ma per evitare di essere pessimisti bisogna non sentirsi soli, e qui il cammino si fa più difficile…

  2. Ringrazio il dott. Toniolo per la sua riflessione profonda e stimolante. Un reazione a caldo, scusandomi del
    disordine. Concordo su una cosa: spesso, anche nei nostri ambienti, è molto più facile sentire parlare di quello che non va che non di quello che invece funziona o che si dovrebbe o potrebbe fare per migliorare, non solo con proposte di alto profilo ma anche con alcune scelte quotidiane, a partire ad esempio da dove, come e con quali finalità si investono i propri risparmi.
    In generale, credo che un certo spirito critico e il moroteo “principio di non appagamento” facciano parte della nostra identità e missione, in quanto antidoto all’assolutizzazione di qualsiasi realtà penultima (siano lo stato, il mercato, la ricchezza, il potere, la tecnologia, il progresso, l’ideologia, ecc.). Nello stesso tempo, mai dovrebbe mancare la fiducia nel genere umano (se ce l’ha Dio nei nostri confronti, nonostante tutti i nostri errori, come possiamo essere da meno…?), la speranza, l’accoglienza e la valorizzazione dei semi del Verbo, che ci sono, sempre. E, più laicamente, dovremmo ricordarci che il ritornello “prima le cose andavano meglio” , “ai miei tempi certe cose non succedevano”, “i giovani non sono più come una volta” è sempre esistito e sempre esisterà ma non ha impedito di andare avanti. Occorre esserne consapevoli e, senza negare o tacere ingiustizie, distorsioni e anche cadute gravissime (la storia non è una linea continua verso l’alto con qualche gobbetta, ci sono anche i precipizi assoluti come le guerre, i genocidi e tutte le altre tragedie anche recenti che conosciamo) e sapere che bene e male sono sempre presenti; occorre perciò scegliere e promuovere il bene e guardare avanti, dedicando il tempo che abbiamo a costruire un mondo migliore, piuttosto che a lamentarci, Oltretutto, anche resistere alla lamentazione – senza ingenuità, superficialità, ottimismi di maniera e restando in ascolto partecipe di chi soffre ed è a disagio – e saper dire parole di speranza e di incoraggiamento è anche questo un modo di testimoniare il Vangelo, oggi. In merito al cosiddetto “modello di sviluppo” messo sul “banco degli imputati”, a mio parere è un bene che lo si metta in discussione ma non come ricerca di un “colpevole” – di cui peraltro saremmo complici, visto che ce ne avvaliamo ogni giorno, almeno nei Paesi più ricchi – ma come sana riflessione critica non fine a sè stessa ma finalizzata alla ricerca di nuove vie. E’ vero però che se si parla di “un nuovo modello di sviluppo” non va dimenticato che nulla nasce dal nulla. Ad esempio,se possiamo praticare l’uso di energie rinnovabili è perchè la tecnologia a cui siamo pervenuti ci consente di avere gli strumenti per farlo. Se possiamo pretendere che tutti in tutto il mondo siano vaccinati, è perchè ci sono centinaia di ricercatori e strutture che possono trovare il vaccino e industrie che lo possono produrre. E molti altri sarebbero gli esempi. In sintesi, cedo sia giusto provare a costruire qualcosa di nuovo e di diverso, soprattutto considerata la crisi climatica senza precedenti, lasciando indietro ciò che non serve o è più dannoso e valorizzando tutto quello che ci può aiutare in questa impresa.. Credo che si debba provare a percorrere nuove strade senza rinnegare ingenuamente ciò che di buono l’umanità ha saputo realizzare, pur tra squilibri e contraddizioni e che in molti casi rappresenta la base da cui partire. Giusto per scherzarci un po’ su, con un po’ più di senso della storia è possibile evitare di fermarsi alla falsa alternativa tra il bartaliano “l’è tutto sbagliato, tutto da rifare” e il vascorossiano “va bene così”.

  3. Figurarsi, Vittorio, se le critiche all’attuale organizzazione economica e sociale non sono comprensibili. Sono doverose. Il mio punto è che dovremmo accompagnarle a una considerazione anche dei moltissimi aspetti positivi della storia nella quale viviamo (soprattutto se guardiamo al mondo, non alla povera Italia ridotta davvero male solo per colpa sua). Per non avere, noi cattolioci, questo sguardo sempre nero e un po’ opprimente del mondo. Che non fa bene a noi ed è deleterio per i giovani con con i quali, io anche per mestiere, abbiamo rapporti quotidiani. L’ “auri sacra fames” non è un problema di oggi, né del capitalismo.. Si tratta, a mio parere, soprattutto di convertire i nostri cuori (cambiando quelli di pietra con quelli nuovi di carne) per diventare lievito. Ma è un discorso lungo…
    Dimani discuto in un webinar con Benjamin Friedman il suo libro “Religion and the rise of capitalism”.. Friedman è un eccellente econmista dell’ MIT che scrive libri di grande spessore culturale e afflato etico. Anni fa ho fatto tradurre in italiano il suo “Il valore etico della crescita. Sviluppo economico e progresso civile” (Bocconi Press). Forse sarebbe utile fare un dibattito sereno su questo tema, magari partendo proprio da questo libro.
    Avrei molto da dire, ma un commento al commento non è il luogo opportuno. Forse, finita la pandemia, un seminario. Forse anche un piccolo dibattito qui tra noi. Oppure, meglio niente perchè su queste cose ci sono troppe “pre-comprensioni” (anche mie, probabilmente)…
    Un caro saluto, Gianni

    • Concordo e metto in programma: finita la pandemia organizziamo un grande confronto sui temi (e, perché no, sul libro) che proponi. Non vedo l’ora… (per ovvie ragioni). Grazie

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