Roberto D’Alimonte e i suoi calcoli matematici sulla legge elettorale

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Se ne parla dopo il referendum costituzionale. Il prudente rinvio della Consulta, la machiavellica proposta del M5s per il ritorno alla proporzionale, le caute aperture di Renzi sul premio alla coalizione, le varie proposte sul tappeto, le mozioni bocciate del dibattito parlamentare, mi hanno suggerito di ripercorrere la strada che ha battuto nell’ultimo anno Roberto D’Alimonte, politologo ed editorialista de Il sole 24 Ore. L’ideatore dell’Italicum.

Lasciando perdere la sciocchezza dell’“uomo solo al comando”, rimane certo che la governabilità e la stabilità così tanto da lui difese, non vanno prese sottogamba. Sono cose molto serie che solo Grillo non vuole tra i piedi per proseguire nel suo perenne spettacolo, oggi trasferito sulla scena della politica. Benché importanti e centrali, governabilità e stabilità, ballottaggio e rappresentatività, bipolarismo e partito premiato vanno però collocati sullo sfondo della sociologia spicciola e dell’antropologia. Più che della ingegneria politica e dall’empirismo sui dati statistici. Abbiamo invece potuto osservare che il dibattito è rimasto sempre imbrigliato sul metodo e sulle tecniche, sulla matematica degli equilibri partitici, addirittura sulle convenienze, più che sul merito e sui contenuti. Se l’Italicum è destinato ad andare avanti così come l’ha pensato D’Alimonte, non è allora male essere consapevoli dei suoi effetti sulla qualità della nostra democrazia politica.

In quanto sua creatura, la tutela dell’Italicum da parte di D’Alimonte, è stata in questi ultimi mesi senza tentennamenti. Essendo uno studioso serio, paziente e lungimirante, non si deve tuttavia offendere se uno che ha letto i suoi frequenti articoli sul Sole 24 Ore, si è convinto che abbia scambiato la “Dèmos-kratia” con la “Mathematikòs-kratia”.

Come è noto le tecniche, i dati statistici e storici, le procedure, e l’istituzionalismo comparato, aiutano e spiegano solo una parte della democrazia di un paese. E neanche la più importante. La difesa di D’Alimonte è sempre partita dal categorico e ovvio rifiuto dei sistemi proporzionali con la sottintesa sottovalutazione del Parlamento. Per arrivare ai risicati e secondo lui insignificanti 25 deputati in più, che grazie al premio di maggioranza dell’Italicum la lista vincente si ritrova, ma che per stemperare le paure li valuta come probabili suicidi: ”…sono pochissimi, 25 su 340, meno del 10%, e possono togliere la fiducia! Questa è una garanzia!”. Passa per la totale delegittimazione dei collegi uninominali che creano solo “…enormi problemi …in quanto  il loro tempo è passato…” giustificando questa scelta col contesto di “…uno scenario tripolare o multipolare ” che – ma solo in questo caso, però –“sottorappresenterebbe alcuni partiti”. Transita dalla – chissà perché – insana voglia italiana di “…temere i governi stabili che prendono decisioni”. Si aggrappa a temerarie generalizzazioni sui flussi elettorali prendendo spunto dalle elezioni del sindaco di alcune grandi città non solo italiane. E infine approda alla razionalità, tendenzialmente irrazionale, con cui trasferisce il pragmatismo anglosassone nell’Italia delle forti identità locali, e con cui giustifica il ballottaggio: “… al primo turno si vota per il partito che piace, al secondo per il partito che si vuole fare governare”, anche se è alternativo a quello che piace. Non si vuole dare un giudizio sul ballottaggio, ma in Italia questo ragionamento significa che, se vado al mercato per comprare pere perché mi piacciono e poi mi ritrovo a dover per forza comprare broccoli, non fa niente. Basta che compri. Sempre nel caso in cui decidessi di comprare. Questa è la filosofia del “secondo voto” e delle seconde preferenze! Se qualcuno è in grado di spiegare la differenza che passa nell’Italia stracittadina dei tifosi e dei campanili, del mezzogiorno e delle lobby, dei poteri forti e delle povertà, ma anche dei valori personali in cui uno crede e delle persuasioni mediatiche, tra il partito che piace e il partito che si vuole al governo, è pregato di spiegarmela.

Per dirla con Michael Walzer, D’Alimonte auspica insomma che la difesa della governabilità e della stabilità faccia al secondo turno sgonfiare la passione e subentrare la ragione agli elettori, dimenticando la grande lezione di Martha Nussbaum sul ruolo che giocano i sentimenti e le emozioni nelle nostre valutazioni. A guardar bene è un auspicio che maschera il pensiero unico e l’omologazione attraverso il partito unico pigliatutto a vocazione maggioritaria, e che elimina la sempre utile dialettica fra giustizia, eguaglianza e libertà. Con in più la disattenzione verso i rischi che corre la rappresentatività tra cittadini e istituzioni dietro cui si nasconde in fondo in fondo l’essenza della democrazia politica. E’ consigliabile leggere a tale proposito la parte finale dell’articolo di Michele Salvati su La deresponsabilizzazione delle èlite pubblicato sulle News de Il Mulino. D’Alimonte con un elogio al futurismo di Boccioni ha sempre sostenuto, in buona compagnia, che il ballottaggio è condizione necessaria per sapere velocemente chi vince e governa, anche se poi non è una condizione sufficiente per misurare la qualità di una democrazia. Se però uno crede che tra classe politica e cittadini, tra rappresentanza e società, tra cittadini e istituzioni, tra partiti e istituzioni, ci debba essere un rapporto stretto, il numero dei votanti del primo e secondo turno rispetto agli aventi diritto, non è irrilevante. Succede però che sul fenomeno dell’assenteismo ha in ogni occasione sempre sorvolato, limitandosi a osservare che al ballottaggio è sufficiente che una lista prenda il 50% dei voti per vincere, senza mai dire a quanti votanti è riferito quel 50%. Ha sempre supposto che il tasso d’astensione nei due turni si mantenga entro limiti fisiologici. Me lo auguro molto. Ma sennò? E sennò, sembra dire, pazienza … si governa con gli elettori che sono andati a votare! Non vedete come si governa bene in Usa e UK?

E qui subentra l’altro acritico innamoramento degli studiosi italiani verso la politica comparata. Dimenticando sempre il basso “senso civico” italiano, e che i contadini calabresi o siciliani quando vanno a votare, se vanno, sono altra ma altra cosa dei contadini americani o inglesi: consiglio a tale proposito di leggere un recente articolo di Giuseppe Galasso su La Lettura del Corriere: Perché il Sud non è diventato l’Inghilterra.

E’ vero che al ballottaggio si potrà vincere per un voto, ma viene sempre taciuto rispetto a quanti votanti quel voto viene conteggiato. Non vorrei allora che il convincimento sottinteso fosse: “… basta con la democrazia partecipata, e basta con la patologica presenza alle urne!”. Un convincimento che guarda più alla governabilità che alla rappresentatività, più a contare e fare i calcoli sui votanti che sul grosso partito dei cittadini non votanti rimasti a casa.

Un convincimento che va a braccetto con alcuni studiosi del primo Novecento che ponevano una sfiducia aristocratica sul popolo e sul suffragio universale, e scommettevano sulla indispensabilità delle èlite, oggi nella nostra società della comunicazione integrale trasformata allegramente in indispensabilità del leader. Tenendo allora presente che il retro pensiero dei difensori dell’Italicum è che la colpa di una eventuale bassa affluenza al ballottaggio e della conseguente crisi della rappresentatività è solo di chi non va a votare, trattandosi di un fattore di natura culturale e antropologica dentro cui la matematica c’entra poco, i motivi veri di una diserzione dal voto non vengono mai spiegati.

Concludo. Se la rappresentatività è stata depositata tra i ferri vecchi del Novecento assieme ai partiti di massa, se i partiti sono diventati mere associazioni del tempo libero dove un giorno si gioca a tressette perché piace e il giorno dopo a bocce perché non ci sono le carte, è bene saperlo. Ma bisognerebbe convincere un lettore sprovveduto come me che il partito che ha vinto al ballottaggio con uno 0,1% in più non avrà per questo un premio spropositato. Altrimenti, e per rimanere nell’ambito della matematica, si è spinti a divagare sul passaggio al limite inferiore di questa probabile verità: se al primo turno vanno a votare, mettiamo, solo 1000 cittadini dei 50 milioni di aventi diritto e al secondo 600, la “matematicocrazia” afferma che il Paese deve essere governato, grazie al premio di maggioranza, dalla lista che è stata votata da 301 elettori!

Diciamo la verità: questa è la democrazia astratta dei numeri! Ma non è la democrazia partecipativa che vogliamo. E, prescindendo dalla valutazione sull’Italicum e naturalmente sulle competenze di D’Alimonte, ci deve essere qualcosa di serio che sfugge se la presenza alle urne è diventata una variabile insignificante.

 

Nino Labate

 

 

 

 

 

 

 

 

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