Un umanesimo sociale integrale, a prova di virus

| 0 comments

La ricca ed articolata suggestione lanciata da Sandro Antoniazzi dal titolo Appunto per tracciare lo scenario di una cultura politica nuova messo a disposizione dalla rete C3Dem costituisce uno snodo interessante di questioni dell’attualità in un quadro di discussione avanzato ormai da anni, ossia quello sul senso dell’impegno pubblico di chi riconosce in una matrice cattolico democratica o cristiano sociale.

Il riferimento al tema cardine del lavoro offre, in particolare, una cartina di tornasole estremamente valida per declinare su un terreno di prassi alcuni punti che, diversamente, avrebbero una sminuente prospettiva esteriore. Accolgo con particolare interesse la prospettiva per cui «il problema reale di oggi consiste dunque nel costruire una nuova prospettiva, un nuovo equilibrio, che deve tenere insieme democrazia, economia e sociale; e nel contempo avere una dimensione mondiale e possedere un robusto fondamento etico-culturale, trattandosi di impresa durevole».

Perché, dunque, il lavoro? Proverò ad articolare l’intervento in tre parti: primariamente, vorrei recuperare alcune sfumature di senso a partire dal dibattito in Costituente sul ruolo del lavoro; in secondo luogo, troverei utile approfondire il senso del ragionare di una crisi sistemica e dell’utilità di uno sguardo cristiano in essa; infine, proverei a snocciolare metodi, senso dei tempi e contenuti di un’azione pubblica.

 

Una storia costituzionale che ha ancora molto da dire

Più che la centralità formale in Costituzione, è il metodo con cui si è arrivati a definirlo tale e le ragioni addotte ad essere estremamente attuali per la discussione. Indicazioni storiche e radici filosofiche di tale percorso si ritrovano in Pombeni (1) ma soprattutto in un bel saggio di Nadia Urbinati edito da Carocci (2) nell’ambito di una collana curata da Pietro Costa e Mariuccia Salvati in occasione del 70° compleanno della nostra Magna Charta. Possiamo quindi rinviare a tali testi, provando a raccogliere le ispirazioni principali utili ad approfondire gli Appunti a partire da alcuni significativi passaggi storici.

Il 16 ottobre 1946 la prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue il confronto sui principî dei rapporti sociali ed economici. Giorgio La Pira annuncia una possibile formulazione per uno snodo centrale della definizione democratica della Costituzione, nei termini per cui «il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione, adeguata negli organismi economici, sociali e politici, è condizione del nuovo carattere democratico». Il tema era già stato sollecitato nei confronti, in termini ideali talvolta conflittuali, tra Palmiro Togliatti, Giuseppe Dossetti e il socialista Giovanni Lombardi. Il 18 ottobre La Pira specifica che era stato

animato da un principio che deve stare alla base della nuova costituzione, cioè che in uno Stato di lavoratori [..] il lavoro, sia manuale che spirituale, è il fondamento della struttura sociale. Tutti gli istituti elaborati nella presente Costituzione si riconnettono appunto a questo principio, da cui trae la sua legittimità la prima parte dell’articolo. Con la seconda parte, ha voluto esprimere due concetti: il primo, che il lavoro è il fondamento degli organismi economici sociali e politici; il secondo, che il lavoratore è compartecipe consapevole di tutto il congegno economico sociale e politico, e quindi che la concezione che anima i suddetti organismi deve essere ispirata ai principî democratici.

Il capo dei comunisti e Dossetti, attraverso i loro interventi, contribuiscono a produrre una prima stesura dell’articolo primo, poi proposto al plenum della Costituente, che recita «L’Italia è Repubblica democratica. Essa ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi». La relazione di accompagnamento del 6 febbraio 1947 della Commissione per la Costituzione spiega in tal modo la formulazione:

Bisogna poi essere ciechi per non vedere che è oggi in corso un processo storico secondo il quale, per lo stesso sviluppo della sovranità popolare, il lavoro si pone quale forza propulsiva e dirigente in una società che tende ad essere di liberi ed eguali. Molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l’Italia «repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Si è quindi affermato, che l’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica ha per fondamento essenziale — con la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori — il lavoro: il lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana.

I comunisti provano, senza successo, a far passare il lemma «repubblica di lavoratori», che tuttavia si infrange contro un voto maggioritario dell’Assemblea, motivato da parole come quelle di Aldo Moro del 13 marzo, che rimarca come «vi era da parte nostra [democristiana, ndr], in sede politica, una considerazione da fare: che quella espressione, sia pure chiarita così nettamente dell’onorevole Togliatti, avrebbe assunto fatalmente un significato classista». Togliatti stesso, nel ricordare le ragioni dell’emendamento comunista, rammenta il 15 marzo:

Non si tratta di un’affermazione di principî, quanto di una constatazione storica. Il nostro Paese se risorgerà, come vogliamo che risorga, come, nonostante tutto, sta risorgendo, se troverà, e la deve trovare, certezza di vita e di prosperità, sarà un Paese di lavoratori. La fatica della ricostruzione sarà gigantesca. Diranno i credenti che richiederà un aiuto divino. Certo ci vorranno sforzi e fatiche, che il lavoro potrà compiere soltanto se avrà la certezza di non servire interessi egoistici, ma di giovare a tutti, alla collettività. Devono i lavoratori avere questa certezza e la sensazione che la Repubblica è cosa e casa loro.

Il 22 marzo, per 239 voti a 227, l’emendamento è respinto, mentre subito dopo l’Aula approva la versione attuale del primo articolo della Carta.

Quale insegnamento, sempre antico e sempre nuovo, è possibile trarre da questa vicenda?

In cosa essa è ancora capace di comunicarci un atto vivo? Per provare a fornire una risposta personale a tale domanda, farò un ultimo riferimento ad una biografia politica dell’epoca. Tra gli interlocutori del dibattito abbiamo il giovane Moro: il futuro statista pugliese, che già all’inizio della Guerra aveva assunto incarichi universitari ed era attivo nella FUCI e tra i Laureati di Azione Cattolica, con la collaborazione presso l’ufficio stampa degli Alleati aveva avviato esperienze editoriali come La Rassegna, contribuiva a Pensiero e Vita e alla rivista Studium, della quale sarebbe stato direttore fino al 1948. Proprio qui che emerge una riflessione organica sul futuro del Paese a partire da una lettura di fede del lavoro (3). Ancorato al tomismo per il tramite della lettura di Humanisme intégral di Jacques Maritain (4), Moro unisce alla consapevolezza del magistero pontificio circa la morale sociale la prospettiva della Ricostruzione del Paese, cui il messaggio cristiano doveva portare un contributo decisivo. La possibilità di creare, attraverso il lavoro, mezzi concreti per la liberazione dell’uomo e la rigenerazione della persona nel suo complesso di bisogni materiali e spirituali, costituiva la base per il senso della giustizia sociale. Era pertanto compito della politica avvicinare l’umanità alla dimensione dell’eternità, al di là della mera applicazione notarile del principio paolino del «chi non lavora, neppure mangi» (5): la qualità cristiana dell’umanesimo, come autentico «apostolato di verità», era una risposta alla crisi di un’Europa funestata dalla guerra, un invito a cercare la Verità non in una societas christiana perfettamente ordinata alla dottrina, ma in un ambiente di libertà e dignità in cui l’essere umano poteva crescere, soddisfare le proprie esigenze, costruire assieme ai propri simili le relazioni funzionali all’edificazione del sé e della comunità. Inviti perfino più alti di quelli della dirigenza democristiana, che non dimenticherà la presa di posizione articolata e lucida dell’avvocato e docente pugliese in rapporto ai proto-populisti dell’Uomo Qualunque:

Ci sono degli italiani i quali hanno vissuto per più di un anno la iniziale e grezza e faticosa esperienza democratica di un Paese che è stato per venti anni sotto la dittatura ed esce, stremato nelle risorse economiche e spirituali, dalla guerra. Ci sono degli Italiani che hanno cercato un indirizzo unitario nella comune libertà ed hanno sperimentato che cosa terribilmente difficile sia questa. In conclusione c’è in essi una sfiducia che si risolve in prudenza e qualche volta in stanchezza. Questo è il tono dominante della esperienza meridionale (6).

Lo stralcio è estremamente interessante, poiché pone la consapevolezza dei problemi del tempo e dello spazio – si pensi al cenno significativo alla questione meridionale – al di là della mera condanna del non-partito ultra-conservatore del demagogo Giannini.

Tale prospettiva ci suggerisce dunque di (1°) evitare prese di posizione a-temporali, superficiali e tossiche, (2°) assumere il punto della dignità sociale della persona umana come fondamento per la costruzione di un messaggio rinnovato dei credenti in politica nel nostro tempo, (3°) unire il tema del lavoro a quello della salvaguardia della democrazia, (4°) identificare le dinamiche globali che aggrediscono il nostro spazio di riferimento, la casa europea e mediterranea in cui è saldamente ancorato il nostro Paese, (5°) esprimere un punto di vista su future progettualità a partire da azioni concrete, capaci di trasformare in meglio la vita delle persone.

 

Crisi come momento ri-costituente?

Lo snodo centrale non è quello del coronavirus in sé, ma della pandemia in quanto spazio ricostituente nel luogo teologico della storia. Un luogo che abbiamo vissuto, nel tempo trascorso almeno dal 1989 all’inizio della grande crisi economica del 2008 e a prescindere dalla generazione di riferimento, come la scomparsa delle «ideologie familiari al XX secolo»:

L’idea di un’altra società è diventata quasi impossibile da pensare e d’altronde nel mondo d’oggi [1995, ndr] nessuno avanza la minima traccia d’un nuovo concetto sul tema. Ormai siamo condannati a vivere nel mondo in cui viviamo. È una condizione troppo austera e contraria allo spirito delle società moderne per poter durare. La democrazia con la sua sola esistenza fabbrica il bisogno d’un mondo che venga dopo la borghesia e il capitale, in cui per la sua sola esistenza potrebbe sbocciare una vera comunità umana (7).

Concetto che ritorna nella forma di una supremazia psichica, più che egemonia politica e culturale, in Mark Fisher, che a sua volta riprende Frederic Jameson e Slavoj Zizek, con la frase è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo:

È uno slogan che raccoglie alla perfezione quello che intendo per realismo capitalista: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginare un’alternativa coerente. […] Ultra-autoritarismo e Capitale non sono in alcun modo incompatibili: i campi d’internamento e le caffetterie in franchise coesistono in tutta tranquillità (8).

Una durissima requisitoria che punta il dito sui neoliberali che hanno cantato la fine dello spazio pubblico nel nome delle libertà di scelta dell’individuo – solitario, atomizzato, disperso – salvo poi presentargli le nuove vesti di uno Stato liberale nelle forme e poliziesco nelle prassi: anticipo di un Viktor Orban? Se vediamo con attenzione, è la critica al capitalismo e al liberismo non appartiene al solo mondo post-marxista, il singolo «gaudente senza cuore» è oggetto di una dura analisi da parte della vita politica cristiana nella «globalizzazione della modernità»: nella storia economica contemporanea, l’incontro e lo scontro tra saeculum e aeternum ha contribuito alla nascita dello Stato sociale, ha intersecato il conflitto ideologico del Secolo Breve, ha messo in relazione il benessere dei molti con la ricchezza dei pochi. Non solo con la gradualità della dottrina sociale, ma con l’impegno di corpi collettivi ed intellettuali. Il liberismo ha tuttavia approfittato della relazione col Sacro per sradicare la cultura religiosa, per impostare una lettura consumistica dei bisogni, per legittimare le precarietà spingendole nel cono d’ombra del senso di colpa individualizzato. L’alleanza puramente tattica tra capitalismo e cristianesimo (9), talvolta incoraggiato dall’autorità ecclesiale, ha mostrato elementi di incrinamento con le critiche al consumismo negli anni Sessanta e, ancora di più, con la traduzione in sé del desiderio. Come hanno scritto Giaccardi e Magatti riprendendo Walter Benjamin, infatti,

Il capitalismo contemporaneo è finalmente capace di tradurre in organizzazione socio-economica le trasformazioni culturali degli ultimi secoli, tutte centrate sull’Io, e la sua realizzazione mondana. In particolare, lavorando su un potenziamento che non guarda più il cielo, ma resta incollato alla terra – il singolo individuo alla ricerca della propria realizzazione e la specie umana che ambisce alla ottimizzazione (non a caso termine di origine matematico-informatica) – il capitalismo getta le premesse per quella crescita tumultuosa e incessante che lo ha caratterizzato negli ultimi decenni (10).

Processi standardizzati a livello globale, sempre più possesso del digitale, consentono quindi una integrazione ritenuta «sistemica» e non più «sociale»: nel nome delle libertà totali, si riduce alla sfera privata – e quindi all’inconsistenza – la possibilità di intervento sulla globalizzazione. Divenuto maturo e rampante, potenziale «pensiero unico» uscito vincente dal Secolo Breve, dal 1989 il capitalismo liberista può disfarsi delle ultime vestigia che lo legavano alla tradizione cristiana, proclamando un’umanità unita, cosmopolita, autosufficiente. Ma anche frammentata, isolata, controllabile, addomesticabile, ridotta in modo mortificante a materia relativa. In cosa consisterebbe dunque la validità di uno sguardo cristiano sulla politica nell’età dell’Antropocene globalizzato e piegato dall’epidemia?

Lo sguardo cristiano aiuta a capire che non si tratta di negare la capacità umana di modificare la realtà, ma di riconoscere la costitutiva relazionalità in cui tale facoltà si pone, che nella Genesi viene espressa dal binomio inscindibile coltivare/custodire [..]. Il tema della sostenibilità – che non è riducibile alla dimensione ambientale, ma coinvolge quella umana, sociale, economica – è un’occasione straordinaria per tornare a un pensiero e a una prassi della concretezza (11).

Quale potrebbe essere la prassi della concretezza di cui si parla? Come si potrebbe sviluppare la radice ri-costituente dello sguardo cristiano nel tempo di una crisi prolungata?

 

Metodo, tempi e contenuti di uno sguardo cristiano nell’Antropocene: appunti. 

A livello di metodo, la nostra riflessione potrebbe tenere in conto due chiavi di lettura per decifrare una visione del mondo e gli interlocutori di riferimento, esprimibili in due parole: conflitto e partecipazione. In relazione al primo, basti rammentare la lezione della redazione della Costituzione, «forma della più alta sintesi del consenso politico espresso da una società, con una connessa ineliminabile capacità progettuale», fondata su un «incontro solido tra le componenti più decisive della democrazia italiana» (12). Crinale su cui, peraltro, si collocava il valido ma perdente tentativo del Dossetti politico tra 1948 e 1951, a fronte del centrismo degasperiano. In relazione alla seconda, intendo la disponibilità a prendere parte a campi di rappresentanza sociale e politica, laici rispetto al proprio esserci nel mondo ma disponibili ad assumere un profilo etico. Una partecipazione consapevole, come ha manifestato il dibattito su Avvenire in occasione del centenario dell’appello sturziano ai «Liberi e Forti», delle potenziali vie alternative dei progetti di riferimento: mai come in questa fase è vivo lo spazio di azione per i credenti che si affidano al conservatorismo e ai neo-nazionalismi – che sarebbe più corretto definire liberismi autoritari. Proprio per questo, la partecipazione a progettualità del campo vasto delle progressiste e dei progressisti non potrà assumere il dato dell’unitarietà, che è bene sia oggetto dell’azione pubblica e del discernimento collettivo di quelle camere unitarie di relazione e confronto interne alla dimensione ecclesiale, come l’Azione Cattolica Italiana.

A livello di tempi, la riflessione non può far riferimento a generiche considerazioni temporali o ad a-storiche prese in carico di periodizzazioni: la proposta di analisi si permette di suggerire il combinato disposto di una crisi che sul piano geopolitico si può far risalire all’11 settembre 2001 e sul piano della materialità è ancora figlia degli squilibri socio-economici della Grande Recessione, iniziata nell’agosto 2007 sul piano finanziario statunitense e proseguita dal 2008 nell’economia reale sino almeno al 2013 (13). Pur superata su un piano economico, la crisi ha lasciato una tendenza che Zygmunt Bauman ha definito retropia (14), un «futuro alla gogna». Percezione di insicurezza nell’opinione pubblica, tendenza variegata verso politiche di impostazione liberista anche dopo le imposizioni dell’austerità, senso di esclusione sistematica dall’ascensore sociale: è a partire da tali rilievi, persistenti in società come quella italiana (15), che si è sviluppata una duplice critica della globalizzazione (da destra e da sinistra) ed hanno ricevuto vento nelle vele i movimenti cosiddetti populisti. Parola che lasciamo ancora una volta ad un saggio di Nadia Urbinati (16): ci basterà rimarcare come sia piuttosto un linguaggio populista ad essersi diffuso trasversalmente, più di una vera e propria ideologia ascrivibile a tale versante, anche in forza della frammentazione del pubblico in bolle autoreferenziali (17).

Perché la scelta di usare persistentemente un lemma come crisi? Poiché, più della pandemia, è la chiave di lettura per comprendere l’importanza degli snodi periodizzanti. Esse sono

un momento di rottura nel funzionamento di un sistema, un mutamento qualitativo in senso positivo o in senso negativo, una svolta improvvisa e talora anche violenta e non prevista nel modulo normale secondo il quale si sviluppano le interazioni all’interno del sistema in esame. Le crisi sono solitamente caratterizzate da tre elementi. Anzitutto dal carattere di subitaneità e spesso di imprevedibilità; in secondo luogo dalla loro durata che è spesso limitata; e, infine, dalla loro incidenza sul funzionamento del sistema (18).

Un’opinione pubblica che vede eluse le responsabilità produce una difesa di se stessi in solitaria: per questo che la crisi presente potrebbe riordinare la società nel senso di prospettive ancora più identitarie, potenziali prede della demagogia delle insicurezze (sanitarie e non) poiché amputata dei necessari corpi intermedi dalle politiche liberiste e dalla condanna della politica sancita dagli anni Novanta, ben prima delle piazze grilline dei “vaffa”.

In ultima analisi, proverei a rilanciare alcuni stimoli: punti caratterizzanti per un umanesimo qualitativamente integrale sul piano sociale, capace di raccogliere, problematizzare e semantizzare senza alcuna paura e senza superficiali sguardi parole d’ordine anche urticanti emerse nei dibattiti degli ultimi anni, talvolta figli di elaborazioni sviluppatesi come laboriosi fiumi carsici nei meandri rocciosi delle nostre esperienze associative. Alcuni di questi dibattiti: l’idea di una restituzione universale dei beni proposta da Papa Francesco nella sua lettera ai Movimenti Popolari del 12 aprile; il senso di una sostenibilità ecologica della produzione nel contesto di un cambiamento del sistema socio-economico e non come maquillage in salsa catto-verde di un immutato neoliberismo; qualità del buon vivere civile a partire dalla promozione delle esperienze delle economie sociali e solidali; dibattito sul salario minimo e sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di reddito; la ricostruzione di simmetrie in un contesto del lavoro in Italia ove la precarietà non è dato nuovo o incidentale ma consustanziale alla storia repubblicana (19).

Giova ordinare cinque possibili parole chiave per decriptare uno sguardo nuovo e nel segno dei tempi: Pubblico, Donna, Mutualismo, Ecologia, Automazione & Digitale. Una sesta parola percorre trasversalmente questi cinque concetti e chiama in causa l’oggetto proprio del negoziato tra prestatori e datori d’opera, il senso dell’azione rivendicativa: il potere. Non è un caso che proprio sulle formule di controllo dei tempi e dei corpi si spendano sempre più interventi nell’ambito delle contrattazioni.

Pubblico. È la sfida del nostro tempo: parola maledetta, inficiata dai liberali autoritari come dai sinceri democratici delle austerità, prende in carico quella sfera di relazione democratica in cui è possibile che la persona esprima in toto e senza sfruttamenti la propria essenza. Pubblico implica una riflessione sul ruolo delle pianificazioni e degli interventi in economia reale, nel segno di un’idea di società analizzata da Mariana Mazzucato (20), Tony Atkinson (21) e Joseph Stiglitz (22).

Donna. Due sono le contingenze che aggiungono nuovi elementi ad una questione sviluppata con energia dalle militanti di Ni Una Menos a livello globale: la notizia dell’aumento delle dimissioni volontarie in Italia rilevato dall’Ispettorato del Lavoro per il 2019, con un incremento (e una permanente percentuale alta, il 73%) per le donne; il divario di genere mondiale nelle retribuzioni, fermo al 16%, con le donne che sono pagate fino al 35% in meno rispetto agli uomini in alcuni Paesi. Ancora alcuni dati (23): 740 milioni di donne a livello globale lavorano nell’economia informale, mentre le donne dai 25 ai 34 anni hanno il 25% di possibilità in più di vivere in estrema povertà. La situazione è peggiore nelle economie in via di sviluppo in cui la stragrande maggioranza dell’occupazione femminile – il 70% – lavora nell’economia informale con poche protezioni contro il licenziamento, senza congedi per malattia retribuiti e un accesso limitato alla protezione sociale. Il Covid-19 ha messo in risalto anche un altro elemento: la maggior parte di coloro che sono in prima linea nella lotta alla pandemia sono donne, perché le donne rappresentano il 70% di tutto il personale sanitario e dei servizi sociali a livello globale. Un personale sanitario ricco di personale non strutturato e costretto ad anni di sopravvivenza indegna nelle precarietà, come afferma la campagna sociale Chi si cura di te?, e che è tirato in ballo solo per il ricordo – ormai distante – degli eroismi in tempo di pandemia.

Mutualismo. È il senso della costellazione di cooperative, organizzazioni solidaristiche, imprese sociali che producono servizi senza cercare il profitto, ma con il reinvestimento degli utili sancito da un approccio intrinsecamente democratico alla gestione dello spazio. In una recente intervista a Pandora Rivista24, l’economista Jean Fabre ha rammentato l’esordio di tali esperienze nella storia economica contemporanea nell’Inghilterra ottocentesca: la Rochdale Society of Equitable Pioneers (1844), consorzio sociale di operai tessili che vivevano le difficili condizioni della British working class del XIX secolo, tutelava minime garanzie sociali per i lavoratori ben prima della nascita del Welfare State, attraverso la messa in comune di alimenti essenziali. Fabre rintraccia un medesimo senso nella nascita degli istituti di credito cooperativo rurali francesi, la Migros svizzera, le forme di economia popular latino-americane da cui hanno preso le mosse i movimenti popolari il cui Encuentro mundial è organizzato dal Pontificio Consiglio Iustitia et Pax (ora Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale) dal 2014. Pluralità di origini, simile matrice: un percorso che, pertanto, va colto con cura e attenzione. In Italia, ad esempio, sarebbe sbagliato sovrapporlo del tutto al Terzo Settore (specie dopo la riforma di alcuni anni fa) poiché non si prenderebbero in carico le esperienze collettive di rappresentanza, attivazione e sostegno solidale nate nelle pieghe delle più forti marginalità – è il caso di piattaforme come Riders Union, vicende come l’associazione Nonna Roma. Tutto ciò per chiarire la inevitabile pluralità che è ricchezza di questo mondo e per rammentare che i mutualismi e le migliori esperienze solidali nascono per puntare il dito, in modo critico e proattivo, verso una mancanza problematica e reale del Pubblico e del Privato in relazione ad un mondo. Sarebbe sbagliato raccontarsi l’immutabile necessità di spazi di mutualismo fini a loro stessi, poiché proprio tale principio ridurrebbe la costruzione dell’offerta di lavoro a mera promozione individualistiche di esperienze che, in tali condizioni, sarebbero ridotte a start up con vaghissime tinte etico-sociali e senza il profilo politico-sociale indispensabile per narrare il bisogno di altre politiche: mutualismo è chiave di lettura differente verso il mondo, offerta di una piega diversa nello spazio dell’attivazione sociale, chiamata pro-attiva che rompe i veli di indifferenza egoistica dell’individualismo:

L’ESS [Economia Sociale e Solidale, ndr] vuole proporsi come un’economia della cura reciproca, dove la persona si trova certamente all’interno di un paradigma di mercato che però vede evolvere le proprie leggi in funzione delle necessità, desideri e benessere delle persone. Per dirla in maniera estremamente sintetica: la differenza tra l’economia di mercato tradizionale e l’ESS è che la prima fonda se stessa sulla logica esclusiva della riproduzione ed accumulazione del capitale, mentre la seconda prospera mettendo al centro la persona, in tutta la sua complessità, sia in quanto singolo che come parte di una collettività. [..] L’ESS ti riporta alla necessità della cura reciproca. Dunque non è solo il cerotto su una piaga. È un certo modo di “fare società” e “non fare giungla”. È una proposta politica di per sé, ma politica non nel senso partitico. Corrisponde alla volontà di vivere diversamente, con una rinnovata consapevolezza che muove dal prendere atto della nostra interdipendenza, e dunque della nostra necessità di prenderci cura gli uni degli altri (25).

Ecologia. Nell’inferno planetario del tardo capitalismo, la voce dei giovani delle piazze dei Fridays for Future è forse stata soffocata nell’opinione pubblica dalla crisi epidemica e dall’insorgenza doverosa delle mobilitazioni antirazziste statunitensi, ma mantiene la sua centralità politica e sociale. La cura della casa comune è messa seriamente in questione non solo dalle tardive e spesso spurie declinazioni dei Green New Deal(s), ma anche da una possibile concatenazione tra crisi sanitaria e crisi ecologica oggetto di recenti studi scientifici (26). Se l’idea di una rivisitazione degli obiettivi e degli strumenti delle produzioni era stata oggetto di una campagna già nel 2011, attraverso l’impegno pubblico del sociologo Luciano Gallino, essa è tornata all’attenzione pubblica transnazionale attraverso il magistero di Papa Francesco (Laudato Si’) che ha smosso la serie di iniziative dal titolo The Economy of Francesco e la proposta legislativa fatta alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti dalla democratica Alexandria Ocasio-Cortez. Il dibattito italiano, come ha dimostrato la redazione della legge di stabilità nel dicembre 2019, sconta ancora la difficoltà di contrarre con forza i 19 miliardi di sussidi alle imprese che producono emissioni nocive e di impegnare anche il fisco in una seria politica di sostegno all’ecosostenibilità, attraverso una plastic tax. Sia Legambiente che il Forum Diversità e Disuguaglianze non hanno fatto mancare la propria voce nel dibattito (27), ma è chiaro ed evidente che sarà decisivo e non scontato il ruolo della fiscalità nazionale ed europea come leva (28) per costruire programmi concreti nel campo della tutela dell’ecosistema. I vertici mondiali previsti per quest’anno (summit ONU sulla biodiversità e COP 26) già fatti slittare al 2021, non garantiranno spazi transnazionali di dibattito. In termini strategici, tuttavia, un ambito di intervento potrebbe trovarsi nel confronto sulle condizionalità interne dei nuovi possibili fondi di origine comunitaria relativi all’emergenza, come giustamente sollecitato da Aggiornamenti Sociali:

La chiave è accelerare, non ritardare la transizione, facendo in modo che i benefici sociali e ambientali vadano di pari passo. Le misure di sostegno alla ripresa economica devono perciò procedere in parallelo con quelle per l’emergenza climatica. In particolare il nuovo debito, finalizzato al finanziamento dei piani di rilancio, deve essere condizionato alla coerenza degli obiettivi climatici. Se invece finisse per aumentare il lock-in degli investimenti, risulterebbe insostenibile per un sistema economico che dovrà ripagare il debito per l’emergenza COVID-19 e contestualmente sostenere gli investimenti per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico. Altrimenti, rischiamo di rimanere intrappolati nell’economia del passato e di porre lavoratori e imprese in una situazione di crisi permanente e di lunghissima durata (29).

Assieme al confronto sull’efficientamento energetico delle infrastrutture produttive e la risoluzione delle antiche e mai sciolte questioni di relazione tra Capitale e ambiente, come nel caso dello stabilimento siderurgico ex ILVA di Taranto, la forza dell’intervento pubblico dovrà sciogliere anni di stallo colpevole. Il sostegno ai consumi energetici con le rinnovabili, la Carbon Tax e i meccanismi di incentivo fiscale per la riduzione del tempo di ammortamento degli investimenti eco-sostenibili, oltre alle misure bonus sancite nella recente decretazione per il rilancio economico del Paese, sono al centro della proposta pubblica della rivista, che ha raccolto le ispirazioni di soggetti come WWF per immaginare le proposte più opportune per una transizione eco-sostenibile dell’Italia nell’Antropocene segnato dalla pandemia.

Automazione & Digitale. Il senso costante dell’online si trasforma in un totalizzante onlife, specie nel campo dell’economia della promessa individuale e dei gigs. Ma il digitale come forma disincarnata e non mediata di relazione passa anche dalla crescente automazione dei sistemi produttivi che, pur non sostituendo tutto il lavoro poiché soggetto alla variabile del profitto da parte datoriale, modifica il senso della presenza dell’operatore nella catena produttrice. Un operatore che quasi “assiste” al dialogo tra dispositivi: un quadro che modifica già in senso antropologico la relazione col lavoro. Le distanze, con automazione e digitali, finiscono per contrarsi al massimo ma anche per allontanarsi al massimo, poiché il più prossimo interlocutore umano appare in una videochiamata – come avvenuto contemporaneamente per oltre 3000 operatori di Uber in Francia, che hanno ricevuto la contemporanea notizia del licenziamento con una call Zoom della durata di ben tre minuti. Operazioni più celeri conducono per necessità alla sacrificabilità dell’essere umano? In tal caso, non è questo il tempo e il caso di negoziare il diritto alla disconnessione, la proprietà sociale dei dispositivi di relazione telematica, la riduzione dell’orario di lavoro e delle forme di controllo (che avvengono con strumenti come videocamere o GPS)? Non è questo il tempo di negoziare la qualitativa differenza tra persona e macchina, evitando che il limite inevitabile della natura umana non sia annullato dal peana modernista sul bisogno di “aggiornare le best practices? Infine: il patrimonio dei big data messo assieme dalle piattaforme private attraverso le attività lavorative in forma telematica, come le reti di relazione usate sui social network per le attività disincarnate di pubblicità, a chi dovrebbero appartenere? Dove finisce lo spazio del pubblico privatizzato e dove inizia quello del privato che determina liberamente le condizioni della sua relazionalità sociale?

Non sappiamo se la lotta contro il virus ci abbia davvero migliorato. Sappiamo che la consistenza delle sfide è ampia e che uno sguardo cristiano sull’Antropocene, a partire dal tema del lavoro, non può muoversi in modo superficiale o astratto. Immaginare politiche di intervento immediate e strategie di medio-lungo periodo dovrebbe essere cifra distintiva di una presa di parola pubblica. Una parola che, ancora una volta, prova a intestarsi non solo l’emancipazione materiale, ma anche la liberazione delle persone, per consentire il dispiegamento completo delle proprie alte dignità.

 

Ettore Bucci

 

NOTE

1 P. Pombeni, La questione costituzionale in Italia, Bologna, Il Mulino, 2016.

2 N. Urbinati, Costituzione Italiana: Articolo 1, Roma, Carocci, 2017.

3 Cfr. A. Moro, «Concezione cristiana del lavoro», in Studium, gennaio-febbraio 1945.

4 Cfr. P. Acanfora, G. Formigoni, Un nuovo umanesimo cristiano. Aldo Moro e «Studium» (1945-1948), Roma, Studium, 2011. Più in generale, si invita alla lettura di G. Formigoni, Aldo Moro. L’intelligenza applicata alla mediazione politica, Milano, Centro Ambrosiano, 1997 e F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, De Luca (a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, Firenze, Le Lettere, 2011.

5 San Paolo, 2 Tessalonicesi, 3, 6-15: «Vi ordiniamo pertanto, fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi. Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello».

6 Cfr. A. Moro, «Vento del Nord, Vento del Sud», Studium, maggio 1945, anticipato in A. Moro, «Vento del Nord, clima del Sud», La Rassegna, febbraio 1945.

7 Cfr. F. Furet, Il passato di un’Illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1995.

8 Cfr. M. Fisher, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2018.

9 Cfr. C. Giaccardi, M. Magatti, La scommessa cattolica. C’è ancora un nesso tra il destino delle nostre società e le vicende del cristianesimo?, Bologna, Il Mulino, 2019.

10 Ibidem, p. 37.

11 Ibidem, p. 181.

12 Cfr. G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia del 900, Trento, Il Margine, 2008.

13               Cfr.          L.         Spaventa,         «La         grande         crisi          del         nuovo         secolo»,        Treccani <http://www.treccani.it/enciclopedia/la-grande-crisi-del-nuovo-secolo_(XXI-Secolo)/>.

14 Cfr. Z. Bauman, Retropia, Bari, Laterza, 2017.

15           Cfr.       Sintesi       del       53°        rapporto       CENSIS        sulla       situazione       sociale       del       Paese <https://www.censis.it/rapporto-annuale/sintesi-del-53%C2%B0-rapporto-censis>.

16 Cfr. N. Urbinati, Me, the People. How Populism transforms Democracy, Harvard, HUP, 2019.

17 Cfr. D. Palano, Bubble Democracy: la fine del Pubblico e la nuova polarizzazione, Brescia, Scholé-Morcelliana, 2020.

18 G. Pasquino, «Crisi», in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Il Dizionario di Politica, Torino, UTET, 2004, pp.219-222.

19 E. Betti, Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana, Roma, Carocci, 2019.

20 M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, Bari, Laterza, 2014.

21 A.B. Atkinson, Inequality: What can be done?, Harvard, HUP, 2014.

22 J. Stiglitz, People, Power and Profits: Progressive Capitalism for an Age of Discontent, Allen Lane, 2019.

23<https://www.unwomen.org/en/digital-library/publications/2020/04/policy-brief-the-impact-of-covid

– 19-on-women>.

24 A.Baldazzini, D. Vico, «Economia sociale e solidale. Intervista a Jean Fabre», Pandora Rivista, 2 luglio 2020 <https://www.pandorarivista.it/articoli/economia-sociale-e-solidale-intervista-a-jean-fabre/

25 Ibidem, p. 2.

26       Cfr.     F.     Cappelli,    «Crisi sanitaria e crisi ecologica», Jacobin Italia, 11 maggio 2020 <https://jacobinitalia.it/crisi-sanitaria-e-crisi-ecologica/>.

27 <https://www.legambiente.it/e-ora-il-tempo-del-green-new-deal/>.

28 Cfr. Gaël Giraud SJ, « Quale finanza per la lotta ai cambiamenti climatici?», Aggiornamenti Sociali, 18 giugno 2020.

29 Cfr. M. Midulla, «Ambiente e clima: accelerare la transizione», Aggiornamenti Sociali, 23 giugno 2020.

Lascia un commento

Required fields are marked *.