Slogan mediatici e benessere reale

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L’articolo è uscito oggi sull’inserto Via Po / Economia di “Conquiste del lavoro”, quotidiano della Cisl

 

L ’economista e sociologo statunitense Mancur Olson (1932-1998) nel suo studio sull’ascesa e crisi delle nazioni apparso agli inizi degli anni ’80 sosteneva  che le nazioni si avviano al declino quando la lotta tra i gruppi d’interesse è rivolta essenzialmente alla distribuzione della ricchezza e non più al suo accrescimento. L’attuale dibattito  che emerge dai media e dai talk show televisivi, alimentato dalle scelte governative in materia di migrazioni, reddito di cittadinanza, flat tax e pensioni, è proprio incentrato sulla distribuzione delle risorse e non su come far crescere la qualità dell’economia e della società. Sono discussioni dove non emergono mai punti fermi, analisi oggettive, ma soltanto umori, impressioni, come se un paese vivesse soltanto di rappresentazioni e di narrazioni. Mai come in questi tempi la “società dello spettacolo” ha raggiunto livelli così preoccupanti. A differenza però delle affermazioni di Olson, oggi non siamo in presenza di gruppi sociali esplicitamente in lotta tra loro attraverso proprie associazioni rappresentative. Negli anni ’70 le mobilitazioni sociali, attraverso i sindacati, furono trainate dalla componente centrale dei lavoratori (la classe operaia delle grandi fabbriche) e raggiunsero positivi risultati in termine di distribuzione dei redditi e maggiore uguaglianza (dallo statuto dei lavoratori alle 150 ore di diritto allo studio alla riforma sanitaria).

Nella fase attuale sono i movimenti politici che conquistano i consensi elettorali per la loro capacità di  esprimere ansie, bisogni e paure diffusi in diversi strati sociali, superando qualsiasi coinvolgimento dei corpi intermedi. Questo fenomeno, che si manifesta ovunque (dall’Europa agli Stati Uniti)  e, con intensità mai viste nel passato, anche in Italia, viene definito “populismo”;  esso, per aver successo, ha la necessità sia di  individuare precisi nemici ai quali addossare tutte le colpe (di volta in volta i migranti o le istituzioni europee), sia di adottare un linguaggio semplificato e sloganistico (fino a degenerare a livello di turpiloquio). In tale contesto non esistono più distinzioni, tutto viene messo nello stesso calderone. La narrazione urlata stravolge i dati della realtà e influisce sulla formazione del senso comune, come avviene in maniera fin troppo esplicita nel valutare la presenza degli immigrati (siamo invasi dagli stranieri). La questione dei rifugiati viene presentata come la questione dei migranti in quanto tali, diventa il simbolo prevalente, senza tener conto che  già in Italia abbiamo cinque milioni di stranieri residenti, la cui stragrande maggioranza vive pacificamente nelle città. L’abbandono della legge sullo “Ius soli” – cioè il conferimento della cittadinanza italiana ai giovani nati o cresciuti in Italia  che studiano e conoscono il nostro paese, come qualsiasi cittadino italiano – costituisce l’esempio evidente della deformazione della realtà. L’altro esempio è quello del “reddito di cittadinanza” che nel suo significato originario esprime un valore universalistico e perciò viene concesso a tutti i cittadini; invece nel linguaggio politico di matrice “5 Stelle” viene usato al posto del “reddito di inclusione sociale” (Reis, concesso sulla base di una selezione basata sui livelli di povertà e della disponibilità a lavorare). In forme diverse quest’ultimo (patrocinato dall’Alleanza contro la povertà, di cui fanno parte, tra gli altri le Acli e la Caritas)  è entrato in vigore dal gennaio del 2018. Si cambia il nome per definire lo stesso oggetto, sul quale ovviamente si possono avere opinioni diverse, ma bisogna comunque sempre partire da una verifica dei risultati delle leggi già esistenti.

A livello più generale non mancano analisi puntuali della società di oggi. Cominciamo con un autore dimenticato, Ulrich Beck (1944-2015), che nella definizione di  “società del rischio e dell’incertezza” caratteristica della “seconda modernità” chiarisce come i rischi sono causati dallo sviluppo stesso e costituiscono l’altra faccia del progresso: l’inquinamento provocato dalle industrie e dalla eccessiva circolazione di auto, la disoccupazione dai miglioramenti tecnologici e organizzativi, la crisi dei sistemi previdenziali dall’aumento delle speranze di vita, l’aumento della produzione agricola dall’uso di fertilizzanti chimici. In poche parole, le contraddizioni della nostra contemporaneità non derivano dalle sue sconfitte, ma dai suoi successi.  Altri concetti con i quali, anche inconsapevolmente, facciamo i conti nella nostra quotidianità  sono quelli di “società liquida” di Zygmunt Bauman, della “società di rete” di Manuel Castells, dei “soggetti umani” di  Alain Touraine. Concetti però che non sono diventati punti di riferimento per l’elaborazione politica, in grado di dotarsi di un comun denominatore culturale, senza il quale il pensiero  non esiste ed è sostituito da continui slogan privi di contenuti e di verifiche. Fenomeni analoghi si diffondono in Europa, a partire dai paesi del gruppo Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) che pure hanno ricevuto sostanziosi aiuti dall’UE. Negli Stati Uniti sono usciti diversi volumi che denunciano il progressivo aumento delle disuguaglianze (tra i quali il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz); in Italia, tra gli altri, citerei gli studi di Stefano Zamagni, Lorenzo Caselli e Luigino Bruni. A tutti questi studi aggiungerei quelli di Papa Francesco Evangelii gaudium e Laudato sì  (sulla cura della casa comune) che costituiscono pietre miliari del pensiero sociale contemporaneo da offrire al dialogo con tutti coloro che riflettono, in Europa e nel mondo, come organizzare la vita delle nostre comunità e quale tipo di società vogliamo.

 

I dati principali della situazione socio-economica italiana

Vediamo ora di analizzare le componenti strutturali della situazione socio-economica italiana a partire dai dati della Banca d’Italia e dall’Istat. In Italia su una popolazione di 60 milioni 483 mila abitanti, gli occupati sono 23 milioni e 382 mila: 18 milioni e 38 mila dipendenti (di cui oltre 3 milioni a termine) e 5 milioni 344 mila indipendenti. Se distribuiamo gli occupati per settori, abbiamo: 860 mila lavorano nel settore agricolo, 4 milioni 160 mila nelle attività manifatturiere, 1 milione 400 mila nell’edilizia, oltre 16 milioni sono addetti nei diversi comparti dei servizi e della pubblica amministrazione. All’interno delle professioni, negli ultimi dieci anni post crisi, notiamo una marcata polarizzazione della struttura occupazionale (aumentano le distanze tra le minoranze collocate in ruoli cosmopoliti e una massa di giovani precari), in particolare: ulteriore diminuzione degli operai, artigiani e delle qualifiche intermedie, incremento sostanziale delle qualifiche più elevate, notevole incremento del personale non qualificato (quasi più del 21%), che troviamo in settori quali alberghi, ristorazione, piccolo commercio, consegna della merce (raider), lavori domestici  e familiari; questi ultimi hanno superato i 760 mila addetti, una cifra superiore a quella dei lavoratori metalmeccanici delle grandi fabbriche (quelle a partire dai 250 addetti) che sono 483.972 (fonte Eurostat). Sul versante giovanile (15-29 anni) i Neet (Not in education, employment or training), cioè che non lavorano né studiano, hanno superato i due milioni di unità pari al 24% dei giovani della stessa fascia d’età, mentre tra i giovani diplomati e laureati, secondo il Censis, 1,5 milioni sono sottopagati. Tutti questi giovani in condizioni di sofferenza sociale fanno parte di famiglie di ceti popolari; per conoscerli tocca andare a cercarli per strada, uno a uno, ed è un lavoro immane, come ha fatto in un’inchiesta la giornalista Brunella Giovara (Ragazzi ai margini. La generazione smarrita, in “la Repubblica” 22.6.2018). Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Istat il tasso d’occupazione per la classe d’età 15-64 in Europa è del 67,6%, in Italia del 58%, una differenza ascrivibile soprattutto alla componente femminile (l’occupazione maschile è nella media europea). Il titolo di studio, nonostante le note criticità, incide sulla maggiore possibilità di trovare lavoro: tra i laureati supera il 78%, tra i diplomati il 64% e tra i possessori di licenza media il 43,5%.  I pensionati sono 16 milioni e 100 mila, il 56.7% sono donne e il 43,30% uomini. Le donne casalinghe superano i 7 milioni, hanno un’età media di 60 anni e per il 75% con un titolo di studio di scuola media inferiore. Il 63% delle pensioni erogate non arrivano ai 750 euro mensili. Gli studenti (dalle elementari alle medie superiori) sono 8 milioni 800 mila, gli universitari 1.654.680. Da notare che pensionati e casalinghe sono le categorie che trascorrono maggior tempo davanti alla televisione, i cui messaggi influenzano in maniera significativa la loro visione della società.

L’indagine sui bilanci delle famiglie italiane rileva una crescita consistente della disuguaglianza e delle persone con reddito equivalente inferiore al 60% di quello mediano, la soglia usata per individuare il rischio di povertà (che nel 2016 corrispondeva a entrate per circa 830 euro mensili). Stranieri, giovani, persone meno istruite e loro famiglie sono maggiormente a rischio. Gli ultimi dati evidenziano che la “povertà assoluta” colpisce cinque milioni di individui pari a un milione e 778 mila famiglie, mentre versano in una condizione di “povertà relativa” oltre nove milioni di individui corrispondenti a tre milioni di famiglie. Tra il 2006 e il 2016 il reddito equivalente reale si è ridotto di quasi il 30% per le persone che vivono in nuclei familiari con capo famiglia con meno di 40 anni, è aumentato dell’1,6% quello di famiglie anziani con capo famiglia di 65 anni e oltre. Le disuguaglianze si riscontrano anche nella ricchezza, non solo nei  redditi: la ricchezza media delle famiglie corrisponde a circa 206.000 euro, ma il valore mediano è di gran lunga inferiore, 126.000, per via della grande asimmetria nella distribuzione. Il 30% più povero delle famiglie detiene appena l’1% della ricchezza nazionale; tre quarti di queste famiglie sono anche a rischio povertà. Mentre il 30% delle famiglie più ricche detiene circa il 75% del patrimonio netto degli italiani, con una ricchezza netta media pari a 510.000 euro. Peraltro oltre il 40% di questa quota è detenuta dal 5% più ricco, che ha un patrimonio netto di 1,3 milioni di euro. Gli immobili di proprietà hanno sempre un valore centrale nel considerare la ricchezza degli italiani (è proprietario della casa in cui vive il 70% delle famiglie). Il loro valore in media è diminuito del 7% rispetto al 2014 e del 23% rispetto al 2006. Sale invece la quota delle famiglie che detengono attività finanziarie: anche qui, con un forte squilibrio nella distribuzione. Permane costante la quota delle famiglie indebitate con un mutuo per la casa (il 28%), mentre si riduce il debito al consumo solo nelle famiglie con capofamiglia di oltre 45 anni. L’11% delle famiglie indebitate è vulnerabile, deve pagare cioè una rata superiore al 30% del proprio reddito.  Secondo l’Ocse per un bambino nato in una famiglia a basso reddito, sono necessarie ben 5 generazioni prima che un suo discendente possa raggiungere il livello di reddito medio. Lo stesso fenomeno si riscontra negli Stati Uniti, Regno Unito, Svizzera e Austria, e con grande sorpresa, in Francia e Germania starebbero addirittura peggio. Solo i Paesi scandinavi, il Belgio e la Grecia hanno risultati migliori. Un tale blocco della mobilità sociale dipende soprattutto da due fattori: istruzione e  precarietà. Solo il 6% dei figli di genitori con la sola istruzione dell’obbligo arriva a conseguire una laurea.

 

Dal neoliberismo globale al populismo nazionale

Esiste ormai un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che la crescita del populismo e il nazionalismo sovranista aggressivo dipendano in larga misura dall’aumento delle disuguaglianze e che il neoliberismo globale sta producendo la reazione del populismo nazionale. Infine, per quanto riguarda l’Italia nell’analizzare questo imponente processo di trasformazione non dobbiamo dimenticare i nostri punti di forza. La ricchezza privata netta delle famiglie italiane è cinque volte il Pil e il valore del patrimonio immobiliare è il triplo del debito pubblico (nel 2017 pari 2.289.6 miliardi). L’industria metalmeccanica italiana occupa un milione e 600 mila persone, contribuisce al 46,6% del valore aggiunto dell’industria complessiva ed è la seconda manifatturiera d’Europa, dopo la Germania. Il “made in Italy”  (moda, artigianato artistico, comparto agro alimentare e vinicolo) è sempre più apprezzato in tutto il mondo. Le esportazioni (448 miliardi di euro) superano le importazioni (400 miliardi di euro) e costituiscono un importante fattore di crescita. A chi continua a fomentare sentimenti antieuropei bisogna ricordare che oltre il 55% delle nostre esportazioni si svolgono all’interno dell’Unione Europea e i partner più importanti degli scambi commerciali sono la Germania e la Francia. L’associazione “I borghi più belli d’Italia” ha stilato un elenco di oltre 270 piccoli comuni, mentre il patrimonio storico dei beni culturali e naturali selezionato dall’Unesco (World heritage list) vede l’Italia al primo posto con ben 54 siti. Al secondo posto si colloca l’immensa Cina con 53 siti, mentre Francia e Germania ne hanno 44 ciascuna. Tutto ciò costituisce, e potrà costituire sempre di più nel futuro, una fonte privilegiata di ricchezza, la base fondamentale dei flussi turistici di qualità. Se riflettiamo su questi dati, ci rendiamo conto che la discussione politica e gli umori dell’opinione pubblica vanno in tutt’altra direzione.

 

Salvatore Vento

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