Salvate il soldato Dio

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Pubblichiamo la registrazione della relazione che l’autore ha tenuto a Gioia del Colle lo scorso 12 febbraio nel corso di un incontro. Nel testo si fa riferimento ad alcuni interventi che hanno preceduto la relazione stessa.

 

Grazie per la ricchezza di questo dibattito. Da quello che è stato detto, risulta chiaramente che c’è una grande consapevolezza del tempo che stiamo vivendo. Credo che siamo all’inizio di un’epoca, o almeno si può dire che questo pontificato stia cercando di dare una svolta non solamente alla storia della Chiesa ma alla storia del mondo. Nell’intervento di Paolo Cantore abbiamo sentito la citazione di questa espressione di papa Francesco nella bolla con cui è stato indetto il giubileo, “Misericordiae Vultus“: “gli anni a venire siano intrisi di misericordia“. “Gli anni a venire”, quindi non quest’anno corrente deve essere l’anno della misericordia, ma gli anni a venire; d’ora in poi il mondo dovrà scoprire e vivere la misericordia. Perché noi, che siamo consapevoli delle sofferenze del mondo in cui viviamo e siamo consapevoli del senso della fine che sta gravando sulla terra, che cosa ce ne facciamo di un anno solo di misericordia? Che cosa ce ne facciamo di un anno di misericordia se poi finito quest’anno, tutto ricomincia come prima: le guerre, le violenze, le esclusioni, i naufragi?

Il punto è che incominci una storia nuova, e questa mi pare la grande provocazione di questo papa. Non dico che ci riuscirà, non dico che riusciremo veramente ad aprire quest’epoca nuova, però questa è l’istanza che viene posta. Certamente questa istanza non viene posta solamente ai cattolici, non solamente ai credenti, ma viene posta all’umanità tutta intera. Noi eravamo già abituati a documenti pontifici che non si rivolgevano solo ai vescovi, ai presbiteri, al popolo cattolico ma “a tutti gli uomini di buona volontà” come aveva fatto Giovanni XXIII nella “Pacem in Terris“. Ma rivolgersi a tutti gli uomini di buona volontà può voler dire lasciare ancora un’ombra di discriminazione, perché ci potrebbero essere degli uomini e delle donne che si possono considerare non di buona volontà,  quindi non destinatari del messaggio  della Chiesa. Invece la “Laudato Si’“, dove non a caso si parla del destino della terra, di questa nostra casa comune, e se ne paventa la crisi, la possibile fine, è indirizzata ad ogni persona che abita su questa terra. E qui nasce una nuova figura di diritto. Il diritto non è il diritto dell’uomo, il diritto del cittadino, è il diritto di chi abita sulla terra. Tutti gli abitanti della terra, e vorrei dire, ricordando il nome che papa Francesco ha assunto, il nome di Francesco d’Assisi, che questo diritto è di tutti quelli che stanno sulla terra, non è solamente il diritto degli uomini e delle donne ma è anche il diritto degli animali. Tutto il creato ha diritto di vivere, ha diritto di continuare; e nei confronti di chi rivendica questo diritto? Nei confronti di coloro da cui può dipendere che questo diritto sia invece negato e stroncato. Di conseguenza, è l’umanità tutta intera che diventa il nuovo soggetto di diritto e che dovrebbe diventare il nuovo soggetto politico della liberazione del mondo.

 

L’incontro col patriarca Kirill

 

Noi siamo in realtà dentro ad una prospettiva di grande cambiamento. E allora chiediamoci che cosa sta accadendo in questo momento, proprio nel momento in cui noi parliamo. Sta succedendo che il Papa è in volo verso Cuba, poi andrà in Messico, ma per andare a fare che cosa? Va a fare la stessa cosa che fa sempre: “annunciare la misericordia”. Papa Francesco prima di partire ha pronunciato un brevissimo messaggio ai messicani, spiegando: “Forse vi state domandando che cosa vuole il Papa con questo viaggio? La risposta è immediata e semplice: desidero venire come missionario della misericordia e della pace“. Basta. È questo che vuol fare. Ma la misericordia e la pace, rispetto al mondo come va, sono un’alternativa radicale, sono una rivoluzione, sono un altro modo di vivere, sono un altro modo di pensare il mondo, sono un altro modo di stare al mondo. È  così semplice, che cosa deve fare un papa se non annunciare la misericordia? Ma non sempre è stato così. Dobbiamo andare a vedere la storia della Chiesa, la storia del papato, che ha cercato di proporsi come unico sovrano su tutti i regni e su tutti i poteri. Bisogna pensare a che cosa è stata questa storia per capire come oggi annunciare la misericordia come il criterio e l’espressione di tutta intera la missione della Chiesa diventi una cosa così innovativa, così rivoluzionaria.

Però nel viaggio verso il Messico il papa si ferma, fra poche ore come sappiamo, all’aeroporto internazionale di Cuba. Perché? Per incontrare il patriarca Kirill, il patriarca di tutte le Russie. Qui ci sono alcune cose straordinarie che vanno dette. Quella più sottolineata, più rilevata da tutti i giornali, è che questo incontro tra il Papa e il capo della Chiesa Ortodossa russa avviene a Cuba. Cuba fino a ieri era il simbolo del Maligno, era il primo degli “Stati canaglia”, secondo il vocabolario di Bush, era il simbolo dell’antitesi all’Occidente, era la propaggine nell’Occidente del mondo ateo, del comunismo. Cuba faceva parte dell’immaginario negativo, ha rischiato di far fallire il Concilio Vaticano II, perché quando stava per cominciare il Concilio, Cuba ha schierato i missili contro l’America: stavamo rischiando la guerra nucleare, Papa Giovanni ha dovuto fare quell’intervento straordinario per evitare la guerra, per ristabilire la pace. E ora improvvisamente questo Paese diventa il luogo dove unicamente si può fare questo incontro. Perché in Europa non si poteva fare? Perché in Europa si sono troppo dilaniate queste Chiese, si sono troppo combattute, per poter fare in qualsiasi punto dell’Europa un incontro tra la grande Chiesa della Russia e la grande Chiesa d’Occidente. Perciò si fa a Cuba.

Questo è  il primo elemento da sottolineare, ma non è il più importante. Più importanti sono altri elementi. Certo, prima c’erano già stati altri incontri tra la Chiesa romana e la Chiesa ortodossa, quello di Paolo VI con il patriarca Atenagora, poi di Francesco con Bartolomeo; ma questo incontro di oggi ha un altro significato, è il primo tra la Chiesa romana e la Chiesa ortodossa più grande di tutte.

E’ chiaro che nel momento in cui la grande Chiesa di Occidente si incontra con la grande Chiesa russa, in qualche modo si ricuce la grande scissione che c’è stata fra la Chiesa d’oriente e la Chiesa d’Occidente mille anni fa, precisamente nel 1054, quando i legati di Papa Leone andarono a Costantinopoli e sull’altare di Santa Sofia posero il libello di scomunica contro il patriarca Michele Cerulario, patriarca della Chiesa d’oriente. Fu una rottura clamorosa che è stata pagata duramente perché i mille anni che sono passati da allora, sono stati anni di tormento per le Chiese e per la Chiesa cattolica in particolare. Noi siamo arrivati a una crisi di fede così profonda come quella in cui stiamo vivendo, anche perché la Chiesa a partire da quella scissione del 1054 ha perduto in qualche modo l’orientamento, ha perduto il carisma per esprimere in tutto il suo spessore il Vangelo di Gesù.

Si è detto – e l’ho detto anch’io nella copertina del libro “Chi sono io, Francesco?” –  che con questo pontificato si vedono delle cose mai viste prima. Non si era mai visto un papa che si definisse semplicemente come vescovo di Roma, non si era mai visto un papa che prendesse il nome di Francesco, non si era mai visto un papa gesuita. E da mille anni non si vedeva la Chiesa di Roma che si abbracciasse con la Chiesa d’oriente. Sono passati mille anni, in cui anche i tanti tentativi che sono stati fatti per la riconciliazione, il concilio di Firenze ecc., sono falliti. Ed ecco che ora si vede un principio di ricomposizione. E come questo è diventato possibile?

 

 

 

La causa della divisione

 

È possibile perché le due Chiese hanno riconosciuto qual è stata la causa della loro divisione. Non solo le controversie teologiche; quelle ci sono, e i teologi discutono, e diceva il patriarca Atenagora “bisognerebbe mettere i teologi su un’isola a discutere tra di loro ma intanto le Chiese devono andare avanti nella comunione”. Ma non è per quello che si sono divise, con conseguenze gravi perché nella divisione tra le due Chiese si è consumata anche la frattura tra l’Oriente e l’Occidente. Il mondo si è spaccato, questo mondo dilaniato in cui siamo oggi nasce già lì, nasce da questa fondamentale e prima spaccatura che è quella del 1054 tra le due Chiese. Perché si sono divise? L’hanno detto sia il patriarca Bartolomeo sia Francesco, quando si sono incontrati nel novembre 2014 a Costantinopoli.

Il Papa l’ha detto nel viaggio di ritorno in aereo da Istanbul: le Chiese si sono divise perché invece di guardare a Gesù, invece di guardare a Cristo, hanno guardato se stesse, hanno messo avanti se stesse, mentre non sono loro da guardare, ma Cristo. Ha detto il papa: “La Chiesa ha il difetto, l’abitudine peccatrice di guardare troppo se stessa, come se credesse di avere luce propria. Ma guarda: la Chiesa non ha luce propria. Deve guardare Gesù Cristo. La Chiesa i primi Padri la chiamavano “mysterium lunae”, il mistero della luna. Perché? Perché dà luce, ma non propria, è quella che viene dal sole. E quando la Chiesa guarda troppo se stessa vengono le divisioni”.  La Chiesa è la luna, la luna riflette la luce ma non la promana, non è lei che fa partire né le onde della luce né le onde gravitazionali. Per mille anni la Chiesa si è messa al posto del sole, al posto di Dio.

E la stessa cosa ha detto il patriarca Bartolomeo in un’Intervista all’Avvenire: dopo i primi secoli, con l’idea dell’Impero cristiano lo spirito mondano è penetrato nella Chiesa, “e questo spirito mondano è un processo che allontana dalla fonte che illumina la Chiesa, il Cristo morto e risorto, per produrre un’autocoscienza ecclesiale, che vorrebbe brillare da sé”; da qui è nata la divisione. Dunque queste Chiese che si sono messe in prima fila, che si sono messe al posto di Dio, che non hanno più annunciato Dio ma hanno annunciato se stesse, hanno annunciato il proprio potere, hanno rivendicato la sovranità del Papa, hanno rivendicato il dominio sulle coscienze, sui poteri politici, sulle legislazioni, sono le Chiese che hanno provocato la scissione, ma anche la negazione della loro stessa identità. E il fatto che oggi si sia avviata questa riconciliazione vuol dire che le Chiese hanno capito che si devono pentire e da questo si devono convertire.

D’ora in poi, mai più la Chiesa dovrà annunciare se stessa, essa deve annunciare il Vangelo, deve annunciare il Signore, deve annunciare la salvezza di Dio, non deve annunciare la propria morale, la propria etica, i propri catechismi, i propri dogmatismi; e questa è, in nuce, la riforma della Chiesa che papa Francesco propone. Perché quando papa Francesco dice: “La Chiesa è un ospedale da campo” dice appunto che essa è uno strumento per la vita, per la salute degli uomini. Se l’esegeta cattolico Alfred Loisy diceva icasticamente nel suo libretto “L’Evangile et l’Eglise”, nel 1902, “Gesù annunciava il regno, ed è la Chiesa che è venuta”[1], papa Francesco prova a rifare il cammino. La Chiesa non è il regno, ne è “il segno e lo strumento”, e magari ne è l’ospedale.

 

 

 

La gestione della memoria

 

La seconda cosa importante da rilevare in questo incontro tra le due Chiese è la gestione della memoria. Quando il 7 dicembre 1965, alla fine del Concilio, fu letta solennemente la dichiarazione comune di Paolo VI e del patriarca Atenagora per togliere di mezzo le scomuniche tra le due Chiese, non fu detto che venivano tolte le scomuniche, ma che si toglieva “dalla memoria e dal mezzo della Chiesa” il ricordo delle scomuniche. Ciò vuol dire che occorre ricordare, ma anche saper dimenticare. Dice Isaia: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche, carri e cavalli (del Faraone) giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti” (Is., 43, 18, 17 ); e dice il Siracide: “Perdona l’offesa al tuo prossimo. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui” (Sir. 28, 2-7) Il perdono è dimenticare il male, non restare schiacciati dalle conseguenze del peccato. La misericordia (in termini canonici, l’indulgenza) è abolire le conseguenze negative del peccato, in modo che non se ne sia schiacciati.

C’è una funzione medicinale della rimozione, pur tanto combattuta in psicoanalisi. Il perdono è una nuova creazione, perché, come diceva Raimundo Panikkar, “decrea la violenza e la colpa”. Bisogna ricordare per chiedere perdono, bisogna dimenticare per perdonare e cominciare di nuovo. Un giorno dovremo perfino dimenticare l’attuale violenza dell’ISIS, altrimenti sempre i morti terranno per mano i vivi.

Questo dunque è il contesto dell’incontro con Kirill, del viaggio in corso del papa. Ma il testo qual è? Qual è la situazione del mondo in cui siamo, in quale modo queste Chiese devono cercare di proporre la loro parola, la loro salvezza?

 

Il dolore del mondo

 

È un mondo dominato dal dolore. Lo abbiamo sentito poco fa: lo stesso richiamo a Moltmann parla del dolore del mondo, ne parlano i discorsi che sono stati fatti, i migranti, la violenza che si fa nel nome di Dio. Ed il mondo è pervaso dal dolore per il concorso di due processi che si sono andati sviluppando nel tempo, e che papa Francesco ha ricordato nell’incontro che ha avuto con i movimenti popolari in Bolivia a Santa Cruz de la Sierra, il 9 luglio 2015, quando ha detto che dobbiamo cambiare il sistema.

QuestI sono i due processi che ci stanno portando alla rovina:

  • Ci siamo dilaniati tra noi per tutta la storia da quando Eraclito ha detto che pólemos – la guerra – è il padre e il principio di tutte le cose, fino ai genocidi del ‘900, fino all’ISIS di oggi.
  • Abbiamo adorato l’idolo del denaro per tutta la storia e così, se per il denaro siamo stati spinti ad aprire nuove vie e a scoprire nuove terre, ora per il denaro stiamo stracciando gli uomini, le donne, i bambini e stiamo distruggendo la terra. Ebbene, gli uomini e la terra non sopportano più le conseguenze del primo processo, del nostro combatterci tra noi, ma nemmeno quelle del secondo processo, quello per il quale ci accaniamo contro la nostra casa comune, la terra.

Per questo il papa ha detto a Santa Cruz che dobbiamo cambiare il sistema, che non è più sostenibile, e lo dobbiamo fare in fretta perché “il tempo sembra che stia per giungere al termine”. E la natura di tale sistema, come ha detto in varie occasioni, è quella di un sistema che esclude.

C’è una domanda che mi è stata fatta dal pubblico,  parlava del socialismo. Certo il socialismo propugna la solidarietà, persegue l’eguaglianza, analizza lo sfruttamento. Però su questo tema la chiesa di papa Francesco è andata più avanti, in qualche modo è andata anche oltre la critica marxista, perché la critica marxista ha denunciato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ha denunciato l’alienazione, l’oppressione delle classi impoverite, delle classi subalterne; ma nella visione di papa Francesco non c’è solo questo, non c’è solo lo sfruttamento, non c’è solo l’oppressione, c’è una cosa ancora più grave: c’è una grandissima parte dell’umanità, quelli che lui chiama i poveri ma che non sono solo i poveri, sono tutti gli oppressi della terra, che non sono solo oppressi, non sono solo sfruttati, ma sono esclusi.

Questo è un mondo che è basato sull’esclusione, un mondo che è fatto solo per pochi, gli altri non ci sono. Quando si dice che 62 persone hanno un reddito pari a quello di 2 miliardi e mezzo di persone, non si dice solo che c’è un’ingiustizia distributiva spaventosa per cui alcuni hanno tutto e altri non hanno nulla, ma si dice che il mondo è fatto solo per quei 62 lì e per quelli come loro, ma non è fatto per tutti gli altri. Vale a dire che qui siamo di fronte a una maggioranza di esclusi, quelli che il Papa chiama gli scarti, quelli che sono smaltiti, che non sono nemmeno calcolati. E quelli che sono cancellati, che sono esclusi, come fanno a lottare per la loro liberazione se neanche ci sono? Nella visione marxista c’era la possibilità che tutti gli oppressi si unissero per liberarsi; non è detto che ci riuscissero, intanto però c’erano. Erano oppressi, si, erano sfruttati, si, erano alienati, si, però, intanto, c’erano. C’erano dentro le società, c’erano pure loro con i loro bisogni, con le loro richieste, con i loro ideali, con i loro desideri, con le loro lotte. Ma ora quelli che non ci sono, quelli che sono esclusi, quelli che stanno nei ghetti, che addirittura sono chiusi a chiave nelle stive dei barconi perché non vengano fuori per respirare, come fanno a lottare? Come fa a combattere per la liberazione tutta la massa degli scartati?

Questa è la denuncia che il papa fa, e certo prima di tutto è una denuncia religiosa: Dio che ama tutti, che vuole che tutti siano salvi, come può tollerare? Come può ammettere un’umanità, una società in cui una grandissima parte delle persone non sono calcolate, non ci devono essere? Se muore un barbone in via Ottaviano, a due passi dal Vaticano, dice il papa, nessuno se ne occupa, nessuno se ne accorge; se invece scendono tre punti delle borse sembra che ci sia una rivoluzione mondiale. Questa dunque è la nuova frontiera della lotta da condurre per la liberazione di questo mondo pervaso dal dolore.

 

Il dolore di Dio

 

Poi c’è un dolore che non è il dolore del mondo ma è il dolore di Dio;  e qui veniamo al discorso di Moltmann, su cui avete voluto riflettere. Dio soffre in questo mondo, Dio – come ha proclamato Bonhoeffer – partecipa delle sofferenze e del dolore del mondo; ma qual è il Dio crocifisso? Il punto è questo, noi siamo abituati a pensare al Dio che soffre e giustamente pensiamo al Cristo sulla croce. Ma Dio padre è un po’ come se fosse messo da parte, come se non partecipasse a questo dolore; è il Dio impassibile che noi abbiamo creato, questo Dio trascendente, che sta nell’alto dei cieli. Questo Dio è come se non fosse toccato da questo dolore del mondo, è il Figlio che soffre, è il Figlio che sta sulla croce, ma poi lo lasciamo lì, è meglio che stia lì, che non scenda dalla croce, che non risorga, perché poi non ci chieda troppo. E quindi lo mettiamo lì sulla croce senza che entri in rapporto, che stabilisca un corto circuito con le sofferenze del mondo, con le doglie della terra. La cosa che Moltmann ha già detto e che abbiamo capito sempre di più in questi anni. e che lo stesso Francesco oggi ci sta dicendo, é che quel Dio che soffre sulla croce non è solamente la seconda persona della Trinità, “il Figlio”, quello che soffre sulla croce è il Padre. È Dio che è crocifisso, quindi non solamente il Figlio. Se noi prendiamo sul serio Nicea, Calcedonia, ossia la professione di fede dell’unità delle persone divine, della molteplicità divina presente nel mistero della Trinità, allora sulla croce c’è il Dio Padre, c’è il Dio della creazione, non c’è solamente il Dio che a un certo punto compare sulla terra attraverso la forma umana del Cristo, ma c’è il Dio crocifisso, Dio che è nostro Padre. Qui c’è un punto importante che Moltmann ci suggerisce e che noi dobbiamo raccogliere, ed è leggere il mistero della croce e della resurrezione in termini trinitari. Perché il Padre muore nel Figlio e sulla croce continua la sua kenosi (lo svuotamento). Essa comincia, come dicono gli ebrei, con la creazione, perché Dio per così dire restringe se stesso per fare spazio al mondo, rinuncia ad avere un mondo fatato di santi davanti a sé per dare libertà all’uomo, un uomo che gli può pure dire di no, che può contrapporsi a Lui; questa infatti è l’origine del male del mondo, benché ci siano teorie per le quali, se Dio c’è, sarebbe inspiegabile la presenza del male. L’origine del male è nel fatto che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e dunque l’ha creato libero. Perché ciò che è proprio di Dio è di essere libero, è la libertà. L’uomo creato a sua immagine ha questa libertà radicale, e questa libertà va fino al punto di poter dire “no” al Dio che lo ha creato; da lì nascono il peccato, la trasgressione, la violenza, il male e tutto il resto. Ed è questo il Dio che sta sulla croce, è il Dio che ha dato la libertà, è il Dio che continua nella sua kenosi, non solo la kenosi della creazione ma la kenosi del salire sulla croce, di farsi scacciare dal mondo per essere messo sul legno. Chi è questo Dio che sale sulla croce? Il Figlio certo. Però c’è la grande questione che si è aperta nel Novecento, dopo Auschwitz, se ancora possiamo credere in Dio dopo Auschwitz. C’è il noto saggio di Elie Wiesel che racconta di quei tre ragazzi che furono impiccati nel campo di Auschwitz, e quando tutti gli altri prigionieri vennero portati dagli aguzzini a guardare queste vittime che pendevano dalle forche, uno ha gridato: “ma Dio dov’è?” E un altro  ha risposto dietro a lui: “Dio sta li su quella forca”. Ma era un ebreo, e perciò non poteva dire che c’era Gesù, che c’era il Cristo sulla forca. Se un ebreo dice che su quella forca c’è Dio, allude al Dio Padre, al Dio dell’alleanza, non può alludere al Figlio. E in quel documento della Commissione Teologica Internazionale sul monoteismo e la violenza – citato in uno degli interventi che abbiamo ascoltato – per affermare la radicale separazione del cristianesimo da ogni visione che postuli una violenza di Dio, si dice che la supposta violenza di Dio è stata definitivamente smentita e rovesciata sulla croce. Non ci può essere una violenza di Dio se il Dio è quello che è salito sulla croce. Infatti sulla croce non è salito un uomo qualunque, dice questo documento dei teologi del Papa citando il secondo concilio di Costantinopoli, ma “Unus de Trinitate passus est“. Uno della Trinità stava li sulla croce, non era  solo l’uomo Gesù, era il Dio della Trinità che stava sulla croce. E se c’è questa sofferenza del mondo, se c’è questo dolore di Dio che continua nel mondo, è perché Dio è stato scacciato dal mondo. La sua gloria è finita in tragedia: come dice un cartiglio dipinto su un autoritratto da De Chirico: “Nulla sine tragedia gloria”.

Il dolore di Dio nel mondo di oggi è il dolore di un Dio che è stato mandato via, il primo esule e profugo è lui. Siccome era stato annunciato male, era stato travisato, era stato frainteso, siccome le Chiese avevano messo avanti se stesse invece di mettere avanti lui, l’umanità aveva deciso di fare a meno di Dio. La modernità nasce così: facciamo come se Dio non ci fosse. Ce la sbrighiamo da soli. Se questo Dio si mette di traverso al nostro cammino, se ci impedisce la scienza, se in suo nome si fa il processo a Galilei, se non vuole il diritto positivo, se non vuole uno Stato, non vuole la libertà, se Dio è questo intralcio al progresso della storia umana, se è di impedimento a una civiltà che vuole fiorire, se si oppone a un uomo che vuole prendere in mano il suo destino, se Dio è questo, allora facciamo come se Dio non ci fosse. Questa è stata la risposta della modernità, degli illuministi, anche cristiani. Se poi qualcuno vuol credere, è libero di farlo, in silenzio. Questa è stata la risposta della modernità, diventata così la società secolare.

Poi c’è stata un’altra risposta ancora più drastica: non basta che facciamo finta che non ci sia, diciamo che non c’è, stabiliamo nell’ateismo la verità interna di questa esclusione di Dio dalla storia, e andiamo avanti. Però nel momento più tragico del 900, dinanzi al cieco potere della tecnica,  c’è stato qualcuno che ha detto: ma chi ci può salvare? E un grande filosofo, Heidegger, ha posto la domanda cruciale in un’intervista che il Der Spiegel ha intitolato così: “Ormai solo un Dio ci può salvare”.

 

 

Nuove correnti di pensiero

 

Ma ecco che ora sono in campo nuove correnti di pensiero che interdicono il ritorno di Dio, che distolgono l’umanità dal rivolgersi ancora a lui. Dio viene esiliato in un altro modo. Il fatto che egli sia stato così male rappresentato dai monoteismi, strapazzato nella storia giudaico-cristiana, travisato nelle Scritture, frainteso, a causa della sua onnipotenza, come un despota accecato dalla volontà di potenza, avrebbe segnato il suo “destino”. Non si tratterebbe di rivedere le teologie, di liberare Dio dai travestimenti, di purificarne la percezione, di ascoltarne, senza travisarla, la voce, ma di licenziarlo, di liberare la mente da lui, di metterlo tra i relitti della storia umana, di scacciarlo dalla cultura e dal mondo ora e per sempre. In cambio si costruisce un Dio diverso, che non ha più nome di persona, che è piuttosto “un’idea di Dio”, che si definisce per astrazioni, che non è più un Dio in sé ma è relazione, è Dio insieme con il mondo, è un processo che in parte è nel mondo (immanenza) e in parte ne è fuori (trascendenza). Un Dio non più “teista”, in ogni caso non il Dio del Credo, quale è professato nella dottrina della Chiesa cattolica, e nemmeno il Dio delle Scritture, del popolo di Israele e del Corano. C’è un libro, che io leggo con molto rispetto, in cui questa corrente di pensiero viene espressa con particolare irruenza. È un libro di Vito Mancuso, intitolato “Dio e il suo destino”[2] . Dice che questo Dio non è più proponibile alla società moderna, non può dare risposte alle nostre domande. Occorre rinvenirne, o costruirne un altro, non come quello che è stato costruito dalle Chiese per una ragione soprattutto di potere.

Da come il libro si presenta, si direbbe che è stato tutto concepito e scritto prima dell’apparizione di papa Francesco. In questo senso può essere letto come un mezzo di contrasto, come uno strumento di lavoro per vedere fino a che punto era giunta la crisi di rigetto, la perdita di credibilità del Dio sopravvissuto nelle dottrine ufficiali, non rivisitato alla luce di un Vangelo “reinvestigato” ed “enunciato in modo nuovo”, un Dio visto nella sua fissità e non nella dinamica di un processo evolutivo.  Ma proprio per questo si può cogliere la portata provvidenziale e profetica della svolta di papa Francesco, e si può misurare la difficoltà titanica della sua impresa, della sua scommessa. Perché Francesco cambia l’immagine di Dio, ma non si inventa un altro Dio, al modo degli gnostici, non ne costruisce uno a misura della modernità e delle sue idiosincrasie, ma tira fuori dal mucchio delle distorsioni e degli equivoci proprio quel Dio lì, quel Dio annunziato da Gesù nella sinagoga di Nazaret e giunto con lui a morire sulla croce. Ed è in questa luce che si può capire in tutto il suo spessore la sua incessante predicazione di un Dio che è tutto e solo misericordia; una misericordia che secondo le prime parole della bolla di indizione del Giubileo è proprio la “misericordia Patris”, la misericordia del Padre di cui Gesù è il volto.

 

Salvare Dio nel mondo

 

Questo è ciò che papa Francesco sta facendo, non tanto per riformare la Chiesa, ma perché gli uomini possano ritornare a credere in Dio, in questo Dio crocifisso, in questo Dio della misericordia. E fare di questo il contenuto centrale e riepilogativo dell’annuncio, vuol dire togliere in Dio ogni ombra di violenza, di prepotenza, di sopraffazione, di mortificazione della libertà e dei valori dell’uomo,  vuol dire riconoscere il Dio che veramente lenisce le sofferenze di tutti, le piaghe di tutti e può aiutare tutti a salvare se stessi e a salvare questa terra che rischia la fine.

Mi sembra che questo sia il punto. Papa Francesco riapre la questione di Dio in una società, in una cultura che aveva ormai creduto di averla chiusa, che considerava non politicamente corretto parlare del Dio trascendente, del Dio dei miracoli e decideva semmai di costruirne un altro a sua misura.

Mancuso conclude la sua provocazione proponendo, in luogo del teismo, un Dio del “panenteismo”, un “Dio che è tutto in tutti e tutte le cose sono in Lui”. Va benissimo che Dio sia tutto in tutti e che tutti siano in Lui, però egli deve rimanere distinto, “non confuso e non diviso”, perché ogni uomo e donna possa avere un rapporto con lui, perché questo Dio possa essere riconosciuto come “l’altro” con cui tu parli, come il Dio che ha misericordia per te, il Dio che “primerea” (come dice Papa Francesco) cioè che arriva primo nell’amore, e non può essere solo una percezione della mente, un Dio endogeno, non può essere un’idea, un “principio vitale”; deve essere qualcuno a cui tu dici “Tu” e che a te dice “tu”.

Dunque io penso che noi abbiamo un compito e questo compito paradossalmente è quello di salvare Dio. Dio è stato finora pensato come il Salvatore, adesso forse è l’umanità che lo deve salvare, è l’uomo che lo deve salvare; lui non può essere sfidato a salvare se stesso, magari cambiando nome, non può essere sfidato a scendere dalla croce, come fecero con Gesù. Siamo noi che dobbiamo dire: “Sì Tu ancora sei necessario, ancora sei il partner, nell’amore, della nostra umanità. Tu sei ancora il modello nel quale l’uomo come tua immagine può raggiungere la pienezza della sua libertà, la pienezza della sua ragione, la pienezza della sua statura”. Se ai tempi della schiavitù Dio si è identificato con lo schiavo, col servo, visto come ultimo degli uomini, oggi Dio può essere identificato con l’ultimo dei soldati mandati a morire, con i bambini soldato, dove si raggruma l’umanità più umiliata, violentata e offesa. Allora potremmo dire: ” SALVATE IL SOLDATO DIO”, cioè salvate il Dio Signore che si è fatto servo, il Dio onnipotente che si è fatto obbediente come un soldato, come il centurione del Vangelo dice che sono i soldati: «dico a uno “va”, ed egli va, e a un altro “vieni” ed egli viene, e al mio servo: “fa questo” ed egli lo fa» (Luca, 7, 8). Salviamo questo Dio, rendiamolo di nuovo possibile nella società di oggi, nella cultura di oggi, ritroviamone le tracce al di là di tutte le costruzioni certamente anche erronee che durante il corso dei secoli si sono potute fare di lui. Nelle stesse Sacre Scritture, di cui non per caso oggi diciamo che dobbiamo fare una lettura critica, dobbiamo andare a ricercare la vera figura di Dio. Se è vero, come diceva san Gregorio, che la Scrittura cresce con chi la legge, è vero anche che Dio cresce con la Scrittura e con il suo lettore.

Vorrei concludere ricordando l’inizio del ministero pubblico di Gesù, quando va nella sinagoga di Nazaret, legge un passo del profeta Isaia e dice: “Questa scrittura oggi si è avverata davanti a voi”. Come legge Gesù questa profezia d’Isaia? Isaia dice che arriva il Messia, il quale annuncia la buona novella ai poveri, dà la vista ai ciechi, la liberazione ai prigionieri e “annuncia l’anno di grazia del Signore”. Gesù lo legge, però a quel punto chiude il rotolo e lo restituisce all’inserviente; ma il passo di Isaia non finiva lì, diceva subito dopo: “annuncia il giorno di vendetta del nostro Dio”. La vendetta di Dio sulle labbra di Gesù non c’è. Egli legge la Scrittura, ma non senza discernimento, e non annuncia la vendetta di Dio,  ma la paternità di Dio che non fa vendetta, in cui quindi c’è misericordia, c’è solo misericordia; non c’è misericordia e giustizia, misericordia e vendetta, misericordia e giudizio no, c’è solo misericordia. Non è un Dio, come è raccontato nel seguito di questo passo d’Isaia, che guida il riscatto anche politico del popolo d’Israele, non è un Dio sionista, è il Dio che ama a che abbraccia tutti i popoli e tutti gli uomini senza distinzione. E allora questo Dio noi lo possiamo rivendicare, anche contro le cadute, anche contro l’idolatria, anche contro  i fraintendimenti che le stesse religioni ne hanno fatto. Questo Dio oggi può tornare tra noi e noi lo dobbiamo salvare.

 

 

Raniero La Valle

[1] Lo ricorda Giuseppe Ruggieri nel suo recente  “Della fede”, Carocci Editore, 2014, p. 69-70.

[2] Vito Mancuso, Dio e il suo destino, Garzanti, Milano, 2015.

One Comment

  1. semplicemente perfetto! Bravo Raniero. Un abbraccio Domenico

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