Salvare il partito o salvare le primarie?

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Ripreso dalla rassegna stampa di Stefano Ceccanti e incuriosito dal titolo, sono andato a leggere l’articolo di Giovanni Cominelli pubblicato il 26 ottobre su l’Eco di Bergamo: “Primarie trappola per tutti i partiti”. La “ … rovinosa caduta dei sistemi dei partiti” dopo tangentopoli, da dove parte Cominelli per il suo buon ragionamento, è storicamente vera! Scomparsi i vecchi partiti, “apparati pesanti”, sono comparsi i nuovi partiti “ornamenti leggeri”. E si è affacciato sulla scena politica il partito del leader. In quel tempo un leader-padrone. Inizia forse in quegli anni la delegittimazione democratica del partito politico non senza qualche buona ragione se si tiene conto dell’invadenza dei partiti sullo Stato, sulla burocrazia e sull’economia pubblica. Ma inizia nello stesso tempo una lenta deriva cesarista che rendeva superfluo il partito politico, la sua organizzazione, la sua dirigenza e i suoi quadri. E inizia l’esigenza di conferirgli una nuova forma. E’ stata soprattutto la cultura politica della sinistra italiana che ha pensato alle primarie come novità assoluta: si rompevano le oligarchie, si salutava il partito delle tessere e dei notabili, e si avvicinava il partito alla incontaminata, pura e pulita … società civile. Questo si è pensato. Le primarie arrivano con l’Ulivo di Prodi e proseguono sino a collocarsi sin dentro lo Statuto dell’erede Pd.

Di errori di valutazione ne sono tuttavia stati commessi molti. Tra tutti, quello di credere che una volta aperto il partito e avvicinandolo agli elettori e ai sempre più pochi iscritti, si poteva affrontare il nuovo che avanzava solo con un ricambio generazionale “sporgendosi” all’esterno del partito. “Rottamando” quanto di vecchio si trascinava dietro. Dando più potere alla “gente”. Insomma si poteva leggere la storia che avanzava molto meglio di quanto potesse fare una classe dirigente competente ed esperta ma chiusa e cristallizzata sugli apparati e sul passato. La ciliegina sulle primarie l’ha poi messa la retorica della democrazia diretta. Ma anche se lo stiamo verificando e non lo vogliamo ammettere, questo metodo anziché tirarlo fuori dalle secche, ha invece accentuato la crisi del partito politico annebbiandone l’identità e sfuocandone il ruolo e la funzione. Soprattutto ripercuotendosi sul deficit di politica a cui assistiamo.

Se non pensiamo di passare la palla alla lotteria del sorteggio di una classe dirigente scelta a caso e improvvisata, alla democrazia web, all’elogio del “leader senza qualità” e al partito sotto padrone, occorre allora rivedere al più presto le regole interne del partito stesso rivedendo anche le primarie. Ripeto cose note e già denunciate: occorre smontare la pericolosa fiducia nel partito del leader che sta crescendo presso l’opinione pubblica; occorrono i giovani e occorre il ricambio generazionale; occorre un partito-organizzazione presente nei territori e nel paese, elastico ma non debole, solido ma non liquido, con una sua classe politica responsabile e ben visibile pronta ad essere cacciata quando ruba e sostituita quando sbaglia; occorre una sua precisa identità; e occorre capacità gestionale nella sua conduzione democratica, con un indispensabile gioco di squadra della sua classe dirigente locale, regionale e nazionale: “ … i nocchieri nelle grandi tempeste” sono sempre necessari e le montagne difficili non si scalano mai da soli!

Mi ritengo da sempre un bastian contrario delle primarie. E sono per questo andato sin dall’inizio contro le idee di Arturo Parisi che per tanti altri versi ho sempre stimato. In attesa di qualcuno che mi convinca del contrario. Lo sono stato e lo sono perché da Sturzo a Moro, per non andare più indietro e disturbare il “Grande Partito” del liberal-conservatore Tocqueville, ho sempre creduto al ruolo irrinunciabile del partito politico in democrazia. E non aggiungo al suo primato, per non essere frainteso.

Ripropongo La Fontaine e la sua metafora della rana: “ …più la rana si gonfia e si sporge al suo esterno per far capire che è forte e che non ha paura di confrontarsi … più velocemente si sgonfia al suo interno e nel suo corpo, sino a scoppiare e morire…”. Fuor di metafora: più in questi anni il partito politico ha tentato di gonfiarsi e sporgersi verso l’esterno andando incontro agli elettori e all’opinione pubblica per far capire che non aveva paura del confronto e del ricambio, più presto è scoppiato al suo interno e si è liquefatto sino a perdere la sua spina dorsale. Conveniamo in molti che ci troviamo nel pieno della crisi del sistema dei partiti di cui il Movimento 5 stelle, l’antipolitica e la disaffezione al voto sono la cifra più significativa. Le cause sono tante tra le quali facciamo un grave errore se non mettiamo nel conto la qualità della classe dirigente che è subentrata dopo tangentopoli. Ma allora, si dirà, non c’è alternativa al centralismo democratico, al potere del partito e della casta che ruota attorno alla segreteria e alla direzione, all’invasione dello Stato da parte dei soliti noti che governano il partito? Non è così. E chi pensa questo bleffa. Non c’entra né il centralismo democratico, né la nostalgia della prima Repubblica, né il rimpianto della “Repubblica dei partiti” (… ma forse dei “partiti della Repubblica” sì!). Forse c’entrano un poco di competenze e forse le scuole di formazione alla politica. Ma seppure mi consideri un dilettante di diritto costituzionale, ritengo che, se non vogliamo dare ragione a Robert Manin e al suo leader in rapporto diretto col pubblico, se siamo scettici della democrazia web 2.0 e rigettiamo il populismo, se vogliamo ri-legittimare il ruolo del partito politico, dobbiamo solo ripescare urgentemente l’art. 49 della nostra Costituzione. E’ la democrazia interna ai partiti che necessita di regole. Non sono le primarie. E’ al sistema di selezione e formazione della classe dirigente che dobbiamo pensare, non alla scelta attraverso la lotteria delle primarie. Ed è, certamente, il ricambio generazionale che bisogna garantire, le cui regole di accesso possono trovare sede negli statuti conseguenti all’art.49 rivisitato e interpretato bene. Senza regole interne al partito, certe e vincolanti, sulle modalità di selezione all’impegno politico, sull’etica e sui comportamenti, sulle competenze, sugli obiettivi comuni da raggiungere, e certamente sulle modalità di accesso alle cariche, il dilemma che Cominelli pone alla fine del suo articolo – “Salvare il governo o salvare le primarie?” – io lo trasformerei come segue: Salvare il partito o salvare le primarie?

Nino Labate

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  1. Caro Nino,
    Ho letto con interesse il tuo articolo che pone sostanzialmente un problema importante: quello della partecipazione dei cittadini alla vita democratica al fine di rinvigorire le istituzioni e dare risposte adeguate ai problemi che riguardano la società e l’economia.
    Mi permetto di rilevare preliminarmente che il raffronto tra partiti e primarie rappresenta un paragone asimmetrico trattandosi di due entità diverse. Soggetto di formazione delle classi dirigente e di proposizione di soluzioni i partiti, metodologia di selezione del personale politico le primarie.
    Ciò detto, mi permetto di evidenziare quelli che a mio avviso sono i veri nodi da affrontare per rinvigorire la vita democratica e dare risposta ai numerosi problemi che affliggono il paese tenendo conto che molti di questi sono legati a situazioni e problematiche di natura sovrannazionale come le recenti”imprese” dell’ISIS a Parigi dimostrano. Accanto a quella del terrorismo occorre tenere presente le problematiche connesse alla globalizzazione e all’abnorme influenza che i poteri finanziari hanno via via assunto nel determinare le scelte politiche sempre più sensibili alle istanze di un capitalismo sfrenato ed aggressivo che a quelle delle persone, assimilate sempre di più a fattori “inanimati” della produzione sui quali si può intervenire prescindendo dalla loro dignità e delle esigenze delle comunità familiari.
    Ognuna di queste problematiche richiederebbe un’analisi che non è possibile effettuare in questa sede per la complessità di ognuna di esse e per l’intreccio stretto che le lega .
    Allora io dico che di fronte alla complessità e alla delicatezza delle situazioni non è sufficiente invocare il ritorno ai ( vecchi?) partiti nati ed operanti in un contesto storico ‘ politico e sociale molto differente e progressivamente vatatisi al suicidio per il prevalere di logiche eutoreferenziali non disgiunte dal progressivo dilagare di episodi di illegalità e di corruzione che hanno interessato un po’ tutte le formazioni e le istituzioni.
    Con la conseguenza che di fronte all’emergere di problematiche nuove e che richiedono conoscenze tecniche e culturali sempre maggiori si è evidenziata l’incapacità di questi soggetti di fornire proposte “super partes”, di lungo periodo e non determinate dai sondaggi e dagli umori del momento ( al riguardo Romano Prodi ha definito questo modo di agire “democrazia barometrica” cogliendo a pieno il problema).
    Siamo di fronte al paradosso che a fronte delle crescente delicatezza e complessità dei problemi da affrontare viene di fatto privilegiato il rinvio o la decisione edulcorata e compromissoria che i problemi o li rinvia o non li risolve o fa finta di dare risposte spacciando mediocri provvedimenti legislative per riforme che tali non sono.
    Eppure esistono nel Paese risorse scientifiche , culturali e capacità di analisi e di organizzazione che non hanno alcuna voce in capitolo mentre siamo costretti a subire quotidianamente il vuoto chiacchericcio dei talk-show televisivi da cui emerge in maniera chiara che l’unico interesse dei soggetti parlanti è quello di conquistare e mantenere il potere .
    Sintetizzando credo che il primo problema del nostro Paese sia quello di mettere in circolo il patrimonio di conoscenze e di competenze che possiede . Se questo si possa ottenere attraverso formazioni di rilevanza politica ( chiamiamoli partiti o con qualunque altro nome) è un problema aperto e , a mio avviso, meritevole di dibattito e approfondimento ai fini di individuare soluzioni efficaci e coerenti.
    Per quanto riguarda le primarie , così come sono state realizzate nel nostro Paese hanno rappresentato( salvo qualche eccezione ) un maldestro tentativo per accreditare l’idea che in fondo la classe dirigente può essere scelta con meccanismi democratici. Una bugia con le gambe non corte ma quasi inesistenti ove si pensi che una buona parte dei parlamentari viene di fatto cooptata .
    Credo però che lo strumento possa essere migliorato. In ogni caso ritengo che il problema del Paese non sia quello di avere nuove norme ma di fare funzionare quelle già vigenti coinvolgendo nella vita e nelle decisioni che riguardano la vita del Paese i soggetti in grado di esprimere analisi e soluzioni intelligenti e di utilità generale. Diamo voce alla cultura e togliamo il potere agli incapaci e egli ignoranti.

  2. Con ritardo di cui mi scuso con l’amico Nino Labbate, che in via privata mi aveva chiesto un’opinione al riguardo (ritardo non casuale, originato dall’esigenza di rifletterci su e dalla circostanza che io stesso non ho un’opinione sicura e, da qualche tempo, mi vado interrogando sulle medesime questioni), provo a mettere in fila qualche spunto in forma rapsodica.
    Primo. Nonostante tutto, nonostante i limiti e le controindicazioni scontati in talune concrete esperienze attuate, non me la sentirei di rinunciare allo strumento delle primarie per due fondamentali ragioni. Non sono venute meno le due motivazioni per le quali sono state ideate e introdotte: il carattere tuttora oligarchico e autoreferenziale di quelle sigle che, per inerzia, continuiamo a chiamare partiti e che tuttora presiedono alla selezione delle candidature; la circostanza – piaccia o non piaccia – che la domanda di partecipazione ha assunto forme nuove, che sono la grande maggioranza i cittadini-elettori che volentieri si mobilitano per le primarie ma non se la sentono di aderire a un partito e di farsi militanti di esso.
    Secondo. Di quanto sopra asserito mi sento più sicuro per quanto attiene alla selezione dei candidati alle cariche monocratiche degli esecutivi. Mentre sarei più disponibile a rimettere in discussione le cosiddette primarie aperte per la determinazione delle leadership di partito, centrali e locali. Il caso PD effettivamente dimostra che un tale metodo contribuisce a una deriva del partito verso la formula del comitato elettorale a supporto del leader. Basti osservare la sostanziale riduzione degli organi di direzione politica del PD a meri organi di ratifica delle decisioni del capo.
    Terzo. Da vecchio prodiano, consapevole che la ragione prima (ancorché non la sola) della precarietà dei suoi governi e il loro epilogo siano da ascrivere alla condizione di un premier senza partito e anzi ostaggio dei partiti che avrebbero dovuto sostenerlo, non mi sentirei di cassare la regola della coincidenza tra figura del leader e figura del premier. Pur scontando il prezzo di un palese vincolo che ciò comporta per l’autonoma dinamica di partito.
    Quarto. Ovviamente qualche messa a punto nelle regole delle primarie è necessaria. Un solo esempio: il perimetro dell’elettorato attivo, disponibile a figurare in un apposito albo, dovrebbe coincidere con quello titolato a partecipare alle elezioni “secondarie”, cioè quelle istituzionali. Fu Veltroni, cedendo a quel di più di piacioneria che lo connota, ad aprire a sedicenni e immigrati. Con lo spettacolo e le polemiche che ne sono seguite.
    Quinto. Di regola le primarie dovrebbero essere di coalizione. Il che presuppone un trasparente patto politico-programmatico, una carta dei principi da sottoscrivere, una cornice entro la quale poi i singoli candidati possano più specificamente articolare la propria proposta di governo.
    Quinto. Grande è la confusione che regna sotto il cielo del PD renziano. Sia sulla politica delle alleanze (di centrosinistra? di centro? all’insegna dell’autosufficienza). Sia sul se, quando è come fare le primarie. Fuor di ipocrisia, l’impressione è che Renzi ne farebbe volentieri a meno per avere le mani libere nella scelta dei candidati locali e del formato delle alleanze. Solo che la cosa suonerebbe come una imbarazzante sconfessione di quello strumento del quale egli è stato figlio e beneficiario. Quanto alla confusione, basti notare la bizzarra idea della “primarie eventuali” o addirittura “extrema ratio”, solo laddove non ci si mette d’accordo o non si trova il candidato considerato vincente. Oppure la tesi del candidato del PD, in contraddizione con il principio-cardine delle primarie: esse sono competizione tra candidati, non tra partiti. Altrimenti basta la competizione tra liste. Certo, ripeto: dentro un quadro di principi e di orientamenti condivisi. Vogliamo dire di centrosinistra? Che stia qui il problema? cioè che il PD non si riconosca più stabilmente e strategicamente dentro quell’orizzonte? Questo interrogativo rinvia a un altro problema, quello del profilo identitario e del posizionamento politico del PD renziano francamente incerto (sul punto ho scritto su c3dem). Esempi della confusione che regna: la tentazione di scegliere d’autorità Sala per Milano, sperando di risparmiarsi le primarie; la pregiudiziale su Bassolino cui si è reagito con l’istantanea precisazione che non sarebbe il candidato del PD (?!); in genere la propensione a rinviare nel tempo le primarie….
    Da questi pur problematici rilievi, non si ricava una teoria. Solo qualche spunto, che tuttavia dà ragione a Labate circa l’esigenza di un ripensamento e forse un po’ dà ragione anche a me quando osservo che la messa a punto sulle primarie, che sono pur sempre uno strumento, esigerebbe che, a monte, si chiarisse cosa è esattamente il PD e se il centrosinistra è ancora il suo orizzonte strategico.
    Franco Monaco

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