Non ci si dimette per un avviso di garanzia. Qui Renzi ha ragione

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L’autore è professore emerito della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino dove è stato per trent’anni docente di Diritto processuale penale.

“Non ci si dimette per un avviso di garanzia”. In altre occasioni, affermazioni e iniziative di Matteo  Renzi mi hanno lasciato perplesso o addirittura del tutto contrario: in particolare, il mio dissenso – per quel che vale – tocca ampiamente il campo delle riforme istituzionali e costituzionali. Ma su quel tema specifico il mio pensiero, sempre per quel che vale, non è diverso dal suo. E concordo anche su quella che può apparire meno facilmente digeribile, tra le motivazioni avanzate o adombrate dal Presidente del consiglio, nella nota e recente intervista a “La Repubblica” o in altre sedi, a sostegno dell’affermazione sopra riprodotta. Pure a me sembra infatti che ad ammettere il contrario si finisce con l’accettare che siano le Procure a dettare la composizione dell’Esecutivo; e in qualche caso è accaduto o si è rischiato che accadesse.

A dire cose del genere, nell’era berlusconiana, si passava facilmente per utili idioti (se non peggio), capaci soltanto di agevolare il gioco di chi, addirittura dalla più alta poltrona di governo, non perdeva occasione di ridurre tutta la delicata e complessa questione del rapporto tra politica e giustizia a una personale lotta in difesa dei proprii interessi, condotta senza esclusione di colpi soprattutto in vista  di obiettivi di sostanziale, permanente impunità. Eppure era giusto continuare a dirle, quelle cose, anche allora: ovviamente, nel quadro di prese di posizione che nulla concedessero alle battaglie globali del garantismo peloso del Cavaliere e dei suoi amici. Possiamo sperare che oggi sia più facile discuterne liberamente senza dover essere considerati … amici di vecchi o nuovi giaguari?

Restando a considerazioni più “interne” alla dinamica strettamente procedurale penale, non si dovrebbe poi dimenticare che l’“avviso” – intervenendo quando si è ancora nella fase delle indagini del pubblico ministero, preliminari al vero e proprio processo penale – è stato concepito e ha il suo senso più autentico come strumento comunicativo in funzione di tutela dell’indagato (non per nulla ha il nome tecnico, e più appropriato, di “informazione di garanzia”). E’ dunque assurdo che invece lo si sia fatto diventare qualcosa su cui costruire, prima ancora che in una vicenda processuale vi sia stato un reale contraddittorio tra accusa e difesa, ogni genere di anticipate condanne mediatiche di responsabilità penale.

Premesso tutto ciò, non si può negare che il quadro si complica sul piano della distinzione –disegnata in termini assai rigidi anche da Renzi – tra la responsabilità penale e quella forma di responsabilità etica e politica che può (e in certe situazioni deve o dovrebbe) spingere alle dimissioni un gestore della cosa pubblica, se coinvolto in vicende imbarazzanti seppur non costituenti reato. Da questo punto di vista è, sì, ancora giusto, in via di principio, quanto il premier osserva circa la possibilità che un “passo indietro” si legittimi o addirittura sia moralmente e politicamente doveroso a prescindere da qualsiasi accusa di rilevanza penale; ma è altrettanto vero che di fatto si configurano spesso degli intrecci – talora fisiologici o comunque inevitabili, talaltra pericolosamente manovrabili ad arte – tra l’uno e l’altro tipo di responsabilità,

Così, a me sembra che la sensibilità di una persona colpita da gravi accuse penali dovrebbe spingere a serie valutazioni sull’opportunità di un “passo indietro” quando certi dati a lei sfavorevoli emergano o resistano in misura consistente anche dopo il vaglio del contraddittorio processuale; e chi a quella persona sta insieme nel Governo o in un partito non dovrebbe mancare di ricordarle, anzi di pretendere, quella sensibilità. La spinta, poi, dovrebbe farsi più pressante, quanto più ci si avvicini all’eventualità di una condanna definitiva.

A inficiare irrimediabilmente questa mia convinzione non mi pare persuasivo l’argomento che si trae spesso dalla presunzione d’innocenza, consacrata dalle convenzioni internazionali fino a che la colpevolezza non sia legalmente provata, e da quella che l’art. 27 della Costituzione configura, in modo apparentemente meno perentorio, come una sorta di presunzione di mera “non-colpevolezza”, dichiarandola però operante fino alla sentenza definitiva. E’ invero noto che né l’una né l’altra presunzione impediscono l’adozione, nel corso del processo, persino di misure limitative di libertà dell’accusato, fino alla custodia in carcere, se vi sono specifiche esigenze di cautela: perché scandalizzarsi, allora, se, proprio sulle basi “processuali penali” di cui si è sopra detto, si riconosce che l’appello al senso di responsabilità etico-politica può farsi sentire in modo via via più pressante?

Forse, però, il punto più delicato dell’intera questione è ancora un altro ed è messo in evidenza dal dilagare delle divulgazioni (e poi delle pubblicazioni) “à gogo” delle trascrizioni di conversazioni o comunicazioni (telefoniche o d’altro genere) intercettate nel corso di indagini del pubblico ministero (sia pure con l’autorizzazione del giudice). C’è bisogno di ripetere che, in sé e per sé, le intercettazioni sono uno strumento prezioso e spesso indispensabile e decisivo, specialmente – ma non soltanto – quando si ha a che fare con la criminalità organizzata o con il terrorismo? Assolutamente no. E’ però importante che se ne faccia un uso equilibrato e, specialmente, sarebbe necessaria tutta una serie di filtri a vario livello per evitare che da indebite anticipazioni delle risultanze (totali o parziali) derivino lesioni a garanzie come, appunto, la presunzione d’innocenza, ma anche  al diritto di difesa degli indagati, nonché alla loro privacy e soprattutto a quella di chi indagato non è, ma finisce egualmente coinvolto nella rete degli ascolti degli intercettatori (talora senza neppure essere tra gli interlocutori diretti delle conversazioni intercettate).

Certo, tutti sembrano da tempo d’accordo nel deplorare che si diano in pasto a una curiosità spesso morbosa colloqui su fatti di natura strettamene privata; eppure si continua allegramente a ignorare questo canone, oggi lasciato sostanzialmente alla discrezione, ma anche alla discrezionalità, dei giornalisti, sebbene al riguardo la Corte europea dei diritti dell’uomo si sia talora mostrata custode particolarmente severa del diritto alla riservatezza delle persone: tra l’altro, è forse opportuno ricordare che a suo tempo, del gran numero di ricorsi al più vario titolo proposti a Strasburgo contro la conduzione dei processi svoltisi in Italia a carico dell’ex-premier Bettino Craxi, e per lo più dichiarati infondati, solo un paio trovarono accoglimento presso i giudici europei: ma uno di essi era appunto quello con cui si censurava la mancanza di argini efficaci, nel nostro sistema giudiziario, alla pubblicazione di un variegato gossip ricavato da intercettazioni telefoniche e concernente persone o vicende del tutto estranee ad accuse di carattere penale.

Più legittimo, un dilemma che si profila quando le intercettazioni coinvolgano direttamente soggetti che esercitano un ruolo pubblico e attengano alla gestione, da parte loro, di beni o servizi, oppure investano chi – come i banchieri o i grandi imprenditori – è comunque in grado di esercitare un forte potere, diretto o indiretto, su tale gestione. In casi del genere, si può dire altrettanto ingiustificata la pubblicazione di brani di conversazioni, pur prive di rilevanza penale, ma significative per la ricostruzione della personalità dell’uomo politico, del manager o dell’uomo d’affari in questione? Qui, è forte – e non priva di buone ragioni a sostegno – la tendenza  a ritenere che debba comunque prevalere l’interesse pubblico alla pubblicazione, affinché i cittadini possano trarne elementi per le loro legittime valutazioni sul grado di fiducia collettiva che deve condizionare il potere affidato a determinate persone. E la stessa Corte europea ha più volte affermato che gli uomini politici e altre persone che utilizzano solitamente la pubblica comunicazione anche per aumentare la propria popolarità – ivi comprese le “stelle” del mondo dello spettacolo o dello sport – devono correlativamente accettare una riduzione dell’area di riservatezza loro spettante, rispetto a quella che andrebbe integralmente tutelata  quando si tratti di comuni membri della collettività.

Resta il pericolo che – ad accettare senza riserve e senza limiti una prassi sostanzialmente poggiante su tale tesi – ne rimbalzi un’ombra sulle stesse iniziative penali dei magistrati, nel senso di indurre a scorgere, a torto o a ragione, in talune di esse proprio un rapporto strumentale rispetto, appunto, al clamore scaturente dalla possibilità di emersione di dati privi di rilevanza penale ma non poco imbarazzanti per qualche nota personalità. Si corre insomma il rischio di far pensare che il magistrato inquirente ipotizzi, anche soltanto incautamente, una responsabilità penale, e avvii una in proposito un’indagine destinata poi a rivelarsi infruttuosa in quanto tale ma utilizzata o utilizzabile, sia pur da altri, proprio per evidenziare, di riflesso, una responsabilità etico-politica: a mio modo di vedere, a tacer d’altro, ciò non sarebbe precisamente un bene per l’immagine, ma soprattutto per il funzionamento corretto, della giustizia.

Sfiducia aprioristica nella magistratura? No; al contrario, desiderio di vederla sempre, il più possibile, immune da ogni sospetto, come essa, nella stragrande maggioranza anche dei suoi esponenti venuti in primo piano per inchieste e processi “sensibili”,  ha sicuramente meritato di essere e di rimanere.

Mario Chiavario

 

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