Le tasse e il profilo del Pd

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Chi mai potrebbe dirsi contrario alla riduzione delle tasse, specie a fronte di una pressione fiscale oggettivamente asfissiante? E tuttavia tempi e modi dell’annuncio di un piano quinquennale di riduzione di esse tanto ambizioso e impegnativo rappresenta un atto politico da decifrare. Anche al netto dell’interrogativo più che legittimo circa la sua sostenibilità finanziaria nelle condizioni critiche della finanza pubblica e dei vincoli europei. Nonché dei rilievi, altrettanto pertinenti, circa il profilo della loro equità sociale, con particolare riguardo alla soppressione, senza distinguo, dell’Imu sulla prima casa. E, infine, delle implicazioni per le finanze municipali, non esattamente nel segno dell’autonomia e del federalismo.

Ma, come dicevo, isoliamo qui il senso politico che si può evincere dal piano annunciato. Come è noto, ben prima e oltre le promesse di Berlusconi, la drastica riduzione delle tasse quale molla dello sviluppo e della crescita è stata ed è il cavallo di battaglia delle destre conservatrici e liberiste. Si pensi al ciclo dischiuso negli anni ottanta da Reagan e Tatcher. Non è un mistero che, tra gli obiettivi di Renzi, figura quello di fare breccia in gruppi sociali tradizionalmente estranei o ostili alla sinistra e singolarmente reattivi – per interesse materiale e per cultura – verso il peso del fisco. Obiettivo apprezzabile quello di venire a capo di uno storico handicap della sinistra: la difficoltà a trascendere il carattere minoritario del suo storico insediamento sociale, specie nelle regioni più produttive del nord. Dove, da sempre, la sinistra incontra grandi resistenze. Di più: già prima, ma ancor più a cavallo del caso Grecia, i partiti socialisti europei scontano una vistosa crisi di protagonismo politico e di consenso elettorale. Merita riflettere su una curiosa ambivalenza: da un lato Renzi, di estrazione altra, poco dopo la sua ascesa alla segreteria, ha fortemente voluto e facilmente ottenuto (troppo: senza un adeguato confronto interno) l’adesione del PD alla famiglia socialista europea, impresa che non era riuscita ai suoi predecessori soggettivamente più orientati in tal senso; dall’altro egli, più di ogni altro partito fratello della famiglia socialista, ha marcato la propria peculiarità, attribuendo ad essa il largo consenso raccolto nella prova elettorale per il parlamento europeo.
La battuta d’arresto, specie nelle regioni del nord e in quelle “rosse”, registrata nel più recente test amministrativo – per l’effetto combinato del mancato sfondamento nell’elettorato moderato e centrista e del riflusso di elettori della sinistra tradizionale nell’astensionismo – ha posto il PD renziano di fronte a un’alternativa secca: adoperarsi per recuperare un buon rapporto con gli elettori di sinistra (e con la minoranza interna al PD) ovvero procedere più risolutamente nella conquista dell’elettorato posizionato sul fianco destro del PD, profittando dello sbandamento e delle divisioni dei partiti di centrodestra.
La mossa renziana sul fisco si inscrive chiaramente nel quadro di questa seconda opzione. Ben più di altre scelte e di altre misure. Sino a ieri era una semplificazione e una forzatura rappresentare la politica di Renzi come subalterna culturalmente a una destra liberale. Egli ha fatto cose di destra, di centro e di sinistra, occupando per intero tutto il campo politico con il suo movimentismo corsaro, con qualche concessione anche al populismo, di nuovo profittando dell’afasia del centrodestra. Ma ora il segno politico del piano fiscale sembra sciogliere (definitivamente?) il dilemma o l’ambivalenza verso un PD di stampo liberal-riformista. Non è una bestemmia, semplicemente è un’altra cosa. Un partito dal profilo diverso da quello di centrosinistra, nel solco dell’Ulivo, inclusivo verso il centro ma anche alla sua sinistra, nel quadro di un bipolarismo maturo tra due poli entrambi con vocazione e cultura di governo. Del resto, che tale deriva centrista si stia sedimentando è testimoniato da vari indizi: penso al plauso di Confindustria o alla reazione, certo un po’ enfatica e propagandistica, di Alfano (“si completa così un programma di centrodestra”); penso al quadro della discontinuità nelle alleanze che si profilano nelle situazioni critiche della Sicilia, di Roma e forse di Milano. Ove sembra si consumi in via definitiva una rottura a sinistra e si realizzi l’inclusione organica dell’Ndc, sul modello del governo nazionale.
Un ulteriore indizio e, insieme, un vettore di tale dinamica si rinviene nell’Italicum. Il premio al partito anziché alla coalizione prefigura uno scenario nel quale a un PD centrista (più qualche cespuglio annesso), nel ballottaggio si opporrà un fronte populista, piuttosto che un centrodestra che si riorganizza. Non una buona cosa per la democrazia italiana e una seria insidia per il risultato, ove dovessero convergere forze (e voti) i più diversi nel segno del TCR = tutti contro Renzi.
Mi chiedo se l’Italicum non sia stato ritagliato, con una certa miopia, su misura di un PD quasi autosufficiente dopo la performance del 40 per cento. Con l’illusione di poter fare stabilmente affidamento su quella misura. Non sarebbe saggio mutare consiglio?
Franco Monaco

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