Economia e misericordia

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L’autore è professore emerito di economia all’Università di Genova ed è stato presidente nazionale del Meic. Il testo riproduce l’intervento tenuto durante la presentazione della rivista “Il tempietto”, curata dai salesiani di Genova Sampierdarena

 

Mai come in questo momento ci rendiamo conto che l’economia è tanto invadente quanto impotente di fronte alla gravità dei problemi che abbiamo sul tappeto. La logica  del sempre di più delle stesse misure di politica economica va incontro a pericolosi effetti di rigetto. Nel giro di breve tempo siamo passati da una crisi finanziaria a una crisi economico produttiva che si è trasformata in crisi occupazionale. Questa è diventata crisi umana e sociale in grado di incidere pesantemente sui fondamenti stessi della vita civile.

I tradizionali paradigmi della scienza economica ufficiale – la ricerca del proprio tornaconto su orizzonti temporali sempre più brevi e una sorta di darwinismo sociale per cui i più forti vincono e prendono tutto – entrano in crisi tanto a livello interpretativo quanto normativo. Non sono in grado di spiegare ciò che sta succedendo e soprattutto non sono in grado di fornire ricette efficaci. Le grandi questioni dell’esclusione, della pace, dell’ambiente, delle generazioni future rivelano ampiamente sia l’insufficienza del mercato quale regolatore supremo sia dell’individualismo  come norma comportamentale.

Con altre parole, il neoliberismo che ha caratterizzato questi ultimi decenni ha progressivamente distrutto i fondamenti del vivere sociale, della “vita buona”.  Oggi ci se ne rende sempre più conto. L’economia ha finito per occupare tutti gli spazi della vita dell’uomo. Dall’economia di mercato si è passati alla società di mercato. Lo scambio mercantile si estende ad ambiti sempre più vasti quali la cultura, la salute, il tempo libero. L’individuo conta solo se è in grado di consumare e poco importa se per farlo si indebita ipotecando il proprio futuro.

Il neoliberismo non è soltanto un modo di intendere e di gestire l’economia ma è anche e soprattutto una ideologia, una cultura, uno stile di vita, un pensiero  che si  vuole unico e che nell’ambito della scienza economica pretende di mettere a tacere i punti di vista diversi da quelli dominanti. In questa ottica vanno ridotti al minimo l’intervento pubblico e più in generale i “condizionamenti” sociali, ritenuti inefficienti per definizione. Di conseguenza: deregolamentazione, privatizzazione, flessibilità a senso unico.

Il dramma del lavoro esprime emblematicamente tutto ciò. Tra lavoro (che non c’è;  che è aleatorio; che si perde) ed esperienze di vita dei diversi soggetti si stanno producendo fratture preoccupanti, quasi di tipo ontologico. Per molte famiglie il lavoro non è tale da garantire un’esistenza dignitosa. Ciò fa diminuire l’integrazione sociale nel mentre si sviluppano fenomeni di frantumazione e isolamento. Come già evidenziava Von Hayek, all’inizio degli anni ’60, il lavoro a rischio genera anche una “perdita o razionamento di libertà”. Chi non ha più il lavoro o teme di perderlo soffre sotto il profilo sociopsicologico e la sofferenza si ricollega non soltanto alla perdita di reddito, ma piuttosto alla perdita di status, di capacità di fare, di apprendere.

Nel contempo aumentano le disuguaglianze e le discriminazioni. Sono colpiti i più deboli, i meno dotati, i meno capaci di iniziativa personale. Tra non-lavoro ed esclusione i confini diventano progressivamente più labili. La porta del lavoro resta chiusa di fronte ai molti che bussano per entrare, si spalanca di fronte ai molti che non servono più e sono buttati via come degli scarti. Papa Francesco, nella Evangeli Gaudium, ci invita a “scoprire Cristo nei nuovi poveri, negli esclusi, nei senza lavoro; a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro”.

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E allora? L’economia va ripensata. Va, per così dire, ri-legata alla persona e alla società a partire da alcune verità elementari. Il mercato non soddisfa il bisogno, bensì la domanda pagante ovvero fornita di adeguato potere di acquisto. Con la conseguenza che oggi cresce il superfluo, l’inutile nel mentre esigenze fondamentali di umanità restano inevase. Dobbiamo ripartire dai bisogni veri della gente.

La dimensione finanziaria non coincide con la dimensione reale dell’economia (produzione di beni e di servizi), anzi la sua tossicità sta avvelenando la base materiale produttiva. La teoria insegna che i mercati finanziari dovrebbero riflettere i fondamentali economici. Non è più così: li determinano! Attraverso il gioco perverso della speculazione si assiste alla moltiplicazione artificiosa di una ricchezza che non cresce. La finanza si sta mangiando l’economia. Dobbiamo capovolgere la situazione.

L’utilità collettiva, il bene comune non sono la somma  dei tornaconti individuali e dei beni privati: dai vizi privati non discendono pubbliche virtù. A sua volta l’economico non coincide con il sociale. La razionalità del primo non può espropriare quella del secondo. Devono semmai armonizzarsi, integrarsi. Non è infatti pensabile uno sviluppo economico che non sia anche sociale, culturale, morale. Lo sviluppo umano non può che essere integrale, riguardare ogni uomo e tutto l’uomo. L’apertura alla vita, una vita piena e buona, è il fondamento del vero sviluppo.

La sfera dell’economia di mercato non è la biosfera. Non funzionano secondo la stessa logica. Questo fatto poteva essere ignorato quando la prima non minacciava l’esistenza della seconda. Ora non più. Lo sviluppo non può che essere sostenibile, fondato sull’alleanza tra uomo e ambiente.

Tra reddito e felicità il legame non è automatico. Molte ricerche dimostrano che una volta che il reddito procapite ha superato una data soglia (quella che consente di vivere in modo decente) viene meno la sua correlazione con la felicità. Anzi l’aumento del reddito può bruciare i fondamenti della felicità affettiva, famigliare, relazionale. La questione degli stili di vita diventa fondamentale.

La celebre definizione dell’economia come scienza che insegna a trovare il mezzo migliore per perseguire un fine determinato si rivela del tutto inadeguata rispetto all’odierna società postindustriale e globale. I problemi economici non dipendono tanto dalla mancanza di risorse quanto dal fatto che le istituzioni economiche, sociali e culturali non sono più in grado di interpretare le esigenze della attuale fase di sviluppo. La questione vera sta nella scelta tra fini diversi. Diventa pertanto essenziale il riferimento ai valori, all’etica.

Come ha osservato A. Sen, occorre guardare non al benessere definito in termini utilitaristici, bensì al bene tout-court, entro il quale il benessere gioca un ruolo ovviamente importante ma parziale. Valorizzare le persone e le loro capacità, promuovere la partecipazione congiuntamente al perseguimento della conoscenza e all’esercizio della solidarietà rappresentano obiettivi che, oltre ad essere significativi in sé, disegnano un universo di valori decisivi per lo stesso successo economico.

L’assunto antropologico dell’homo oeconomicus su cui si regge tutta l’impalcatura neoliberistica va rifiutato con forza perché non giustificato né scientificamente né eticamente. Infatti chiediamoci cosa si può costruire se si assume come termine di riferimento “una figura astratta, eppure diffusissima, che non ha relazioni, né capacità di amare, né storia, né sentimenti all’infuori dell’avidità e dell’angoscia che porta a credere nelle regole brutali di un sistema che pure, per chi ha conservato la vista, è palesemente falso”. [1]

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L’economia richiede umanizzazione e trascendimento etico. Laddove all’etica si attribuisca il significato non tanto o non solo di norme di comportamento quanto di “dimora” ovvero di recupero di senso in ordine al produrre, al lavorare, al consumare, al vivere. Con altre parole abbiamo bisogno di una economia multidimensionale, capace di prendere in carico gli ambienti socio-naturali e culturali sui quali essa si apre; dinamica e coevolutiva con il mondo nel quale si inscrive; a servizio dell’uomo e non padrona del suo destino. Una economia in grado di assumere una molteplicità di criteri oltre alla crescita del Pil. Che il Pil non sia in grado di esprimere compiutamente il benessere di un paese rappresenta ormai un convincimento largamente condiviso. La citazione d’obbligo riguarda Robert Kennedy che nel 1968 affermava che “il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”. Altri criteri, dunque, sui quali fondare le scelte collettive. Criteri di salvaguardia (la terra non è soltanto per noi, abbiamo un obbligo verso le generazioni future); di umanità (il rispetto di ogni uomo è la cifra del vivere insieme); di responsabilità (se tutti nel soddisfare le proprie esigenze si comportassero tenendo conto delle esigenze e delle necessità degli altri, alla fine tutti si troverebbero in una situazione migliore di quella che deriverebbe da logiche strettamente individualistiche); di moderazione (la sobrietà è il modo per scoprire risorse che non hanno prezzo); di prudenza (nel senso di capacità di prevenzione e controllo dei rischi presenti e futuri); di diversità (ovvero di riconoscimento dell’altro come via per rispondere alla varietà delle situazioni); di cittadinanza (ognuno è membro a pieno titolo della comunità in cui vive).

Anche in economia più strade sono possibili. I problemi non hanno una sola soluzione. C’è spazio per l’impegno responsabile dei soggetti e per la loro progettualità, una progettualità eticamente e umanamente fondata. C’è spazio per una economia che nasce dal basso, fortemente radicata nella società civile, una economia dotata altresì di una forte carica di contaminazione nei confronti sia dello stato sia del mercato.

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Sulla scena del mondo non ci sono problemi settoriali, ma interdipendenti. Diritti umani e sociali, ambiente, educazione, sviluppo, scambi commerciali, salute, conflitti, instabilità sono altrettante tessere di un unico mosaico sul quale si gioca la possibilità di una buona società in cui vivere a scala globale. Il sapere scientifico-tecnologico, la comunicazione, la rete, ma anche la paura di processi incommensurabili e incontrollabili in termini di rischio, quasi per assurdo, unificano in comunità la globalità degli uomini con la loro storia, cultura, appartenenze. Lotta alla povertà e sviluppo sostenibile – come evidenzia la Laudato si’ –sono le due facce della stessa medaglia. L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme o si salvano insieme. Qui sta il punto di forza del quale ha bisogno la leva della razionalità sia per capovolgere situazioni di ingiustizia e esclusione che non possono più essere accettate dalla comunità mondiale, sia per cogliere e valorizzare tutte le potenzialità del bene condiviso.

La globalizzazione può avere un’anima; può essere ancorata a un fondo comune di valori condivisi e vissuti nel profondo che merita di essere portato alla luce non ostante i molti conflitti, le molte diversità. Valori di verità (poter credere in quello che ci viene detto), di giustizia (non sentirsi discriminati per nessun motivo), di umanità (non essere trattati come oggetti ma come soggetti di pari dignità). Le tre grandi religioni monoteistiche che si affacciano, si incrociano, si scontrano, si incontrano nel Mediterraneo (il continente liquido di cui parlava lo storico Braudel) possono guidarci in questa grande impresa  Al riguardo ci avvaliamo di alcune  riflessioni svolte da Hans Kung .[2]

Il Rabbì Hillel, vissuto tra il 60 avanti Cristo e il 10 dopo Cristo, richiesto da un discepolo di spiegare in pochi secondi (“stando su un piede solo”) cosa fosse la Torah, rispose così: “Ama il tuo prossimo come te stesso. Tutto il resto è commento”.

Nell’Hadith, che è la più importante fonte del diritto mussulmano dopo il Corano, si legge: “Nessuno di voi è un credente, fintanto che non desidera per il proprio fratello quel che desidera per sé”.

Gesù di Nazareth (Mt. 7, 12; Lc 6,31): “ Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro; questa infatti è la legge e i profeti.”

Da questi principi di amore discendono alcuni criteri di convivenza a livello globale. Il dovere di una cultura di non violenza, di pace, di rispetto di ogni vita e della natura.. Il dovere di una cultura della solidarietà e di un ordine economico giusto. Il dovere di una culture dell’accoglienza reciproca nella piena valorizzazione dialogante delle differenze. L’interculturalità non è semplice accostamento tollerante di culture molteplici. Esprime piuttosto la possibilità di imparare dagli altri e fare strada insieme a loro.

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Messo con le spalle al muro, l’uomo deve ricostruire se stesso. Il sentiero è stretto ma percorribile. Non mancano segni di inquietudine e anche di speranza. Sempre più ci si interroga sulla validità e sui rischi dei  modi di agire a livello di produzione, consumo, utilizzo delle risorse ambientali. Si fa strada la consapevolezza della necessità di modelli plurali e interdipendenti di modernizzazione, in grado di sviluppare le capacità e le peculiarità delle persone secondo le loro specificità a partire dai più deboli.  Ci si accorge che non si è soli e che si è responsabili verso gli altri che dipendono, per il bene e per il male, dalle nostre azioni. E la catena della responsabilità non ha confini né di spazio né di tempo. L’umanità, il calore umano, il senso di comunità possono far sì che qualsiasi luogo smetta di essere un inferno e diventi il contesto di una vita degna. (Ls, 150 – 154)

Non è la scarsità delle risorse che genera la contrapposizione e la lotta tra gli uomini. Piuttosto è vero il contrario: la contrapposizione e la lotta depotenziano le risorse, nel mentre la condivisione solidale e creativa le moltiplica. In questo quadro la questione dei beni comuni diventa cruciale. Occorre a scala globale costruire un ordinamento e una strategia di azione secondo cui i beni della terra (ambiente, clima, acqua, conoscenza) non appartengono a coloro che per primi se ne impossessano o li sfruttano, ma son destinati a tutti gli uomini.

In questa ottica si impongono grandi mutamenti culturali, l’assunzione di criteri di giudizio diversi da quelli consueti. Gli ultimi, i poveri, gli scarti diventano chiave interpretativa del vivere sociale e anche del nostro essere Chiesa. Gli ultimi hanno bisogno dei primi, i primi hanno bisogno degli ultimi. Gli ultimi hanno bisogno della imprenditoria,  della competenza, della scienza, delle abilità dei primi. I primi a loro volta hanno bisogno degli ultimi per trovare un senso alle loro ricchezze materiali e immateriali: l’accumulo fine a se stesso non genera una nuova qualità della vita bensì una cultura di disperazione.

La solidarietà non è un vago sentimento buonista, compassionevole, una categoria residuale marginale. Sviluppo, inteso come avere in funzione dell’essere di ogni uomo e di ogni popolo e pace possono rappresentare la grande discriminante tra vecchie e nuove strategie politiche, economiche, sociali, ambientali. Per le prime i deboli, i poveri, gli scarti rappresentano un vincolo, un intralcio, un costo da sopportare e minimizzare secondo i dettami dall’austerità, Per le seconde questi possono diventare soggetti, persone. Occorre dunque allargare il campo, occorre ragionare per futuri possibili a partire dai pezzi di progetto che sono elaborabili dai vari protagonisti sociali. Vincoli e possibilità possono essere spostati in avanti, liberando nuove energie e nuove risorse.

I fondamenti, i paradigmi della nostra scienza, della nostra economia, della nostra politica, in definitiva della nostra razionalità sono chiamati in causa. Dal Giubileo della misericordia discendono tre grandi sfide. La sfida della gratuità come antidoto alla logica di egoismo e di sfruttamento che caratterizza il nostro tempo; la sfida della giustizia come antidoto alle diseguaglianze crescenti nella distribuzione delle risorse, dei diritti, delle possibilità di vita; la sfida del perdono richiesto come antidoto alla violenza, alla logica della forza che pretende di stabilire e imporre le regole del gioco. Portando avanti queste tre sfide il Giubileo della misericordia potrà continuare nel tempo e diventare, come sta scritto nella bolla di indizione, fonte di gioia, di serenità, di pace. Per tutti!

 

Lorenzo Caselli

 

[1] R. Mancini, Dentro il disagio psichico e sociale, in “il Regno”, n.12, 2012.

[2] H. Küng, Etica mondiale per la politica e l’economia, Queriniana, Brescia, 2002.

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