Dialogo Pd-5Stelle. Replica a Sandro Campanini

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Giorni fa abbiamo segnalato con una certa evidenza un articolo dell’autore, uscito su Il Fatto Quotidiano del 6 gennaio: “Il tabù del dialogo tra Pd e Movimento”. Sandro Campanini, coordinatore della rete c3dem, ha interloquito con lui nella nostra rubrica “30righe”: “Dialogo Pd-5Stelle? Non è questione di tabù ma di condizioni politiche (che adesso mancano)”.  Ora la replica dell’autore

 

Ringrazio Sandro Campanini per l’amichevole attenzione critica e per il tono civile con il quale argomenta il suo dissenso. Dissenso che, altrettanto amichevolmente, per parte mia, non posso che confermare. Mi limito a tre osservazioni.

  1. Non mi sfuggono i limiti e le macroscopiche contraddizioni dei 5 stelle, a cominciare da quello per me più eclatante: il vistoso deficit di democrazia interna. E tuttavia mi pare contrasti con l’evidenza la loro stretta assimilazione alla Lega (solo tre esempi: su diritti sociali, legalità, collocazione europea, incerta per i 5 stelle, persino troppo chiara per la Lega, alleata alle formazioni nazionaliste di estrema destra e quasi loro avanguardia nello scenario eoropeo). D’accordo: oggi è tutto più difficile, la partnership di governo ha contribuito a una qualche reciproca contaminazione, ha condizionato e non in positivo l’evoluzione/involuzione politica del Movimento. Ma un partito che raccolse il voto di un elettore su tre, tra i quali un numero significativo di ex elettori di sinistra, non può essere sbrigativamente bollato come di destra e non si risolve nella leadership di Di Maio (legatosi a Salvini, senza alternative personali, senza una seconda chance). Né si risolve nella sua attuale rappresentanza parlamentare. E’ cosa decisamente più complessa. Il discernimento dovrebbe essere qualità precipua dei politici accorti; abili nel decifrare dentro le pieghe delle situazioni le opportunità sulle quali fare leva. Naturalmente – ecco il punto – ci si deve lavorare politicamente. In un’ottica di sistema, è un ragionamento semplice: in un quadro grossomodo tripolare (pur nella disfatta, il PD sortì dalle elezioni come secondo partito), se uno dei tre poli si autoesclude, non interagisce, non prende una iniziativa, esso oggettivamente concorre alla saldatura degli altri due o comunque a cristallizzare gli equilibri. La lamentata egemonia di Salvini è originata anche da questa inerzia. Intendiamoci: non si trattava di fare un governo organico con i 5 stelle, ma di lasciare che si insediasse un governo di minoranza (la storia repubblicana è contrassegnata da una fervida fantasia di formule tipo la “non sfiducia”), un governo che si sarebbe potuto condizionare e, alla bisogna, sfiduciare denunciando la sua inadeguatezza. In una parola, facendo politica, non l’Aventino e i pop corn, che non mi pare abbiano giovato neppure alla rigenerazione dello stesso PD, nonostante la cattiva prova del governo gialloverde. Lasciando solo il povero Mattarella nell’opera di “riduzione del danno”, per quanto gli è stato possibile, sin dalla composizione della squadra di governo.
  2. Non è vero che la questione di un rapporto tra PD e 5 stelle non si sia posta. Sia dal punto di vista istituzionale che politico. Fu lo stesso Mattarella a incaricare Fico di un secondo giro di consultazioni – lo si è poco notato – con un mandato limitato appunto a una ipotesi di maggioranza 5 stelle-PD. Decisione coraggiosa, non scontata ed eloquente. E’ noto che molte e autorevoli furono le voci di chi sostenne, più o meno apertamente, che sarebbe stato opportuno “andare a vedere le carte”: da Prodi a Cacciari, da Veltroni a Gentiloni a Franceschini, sino alla renzianissima pentita Gualmini. Fu Renzi, ancora decisivo specie nei gruppi parlamentari da lui nominati, a mettersi di traverso, gettando così i 5 stelle tra le braccia di Salvini. Davvero inspiegabile politicamente se non così: si sarebbe aperta una nuova fase nella quale non sarebbe stato plausibile che a condurla fosse chi, come Renzi, da anni si era legato alla linea opposta, quella fondata sulla convinzione che l’avversario sistemico fossero i 5 stelle, non la destra. Del resto basti rammentare due circostanze: a) la campagna su “voto utile” (sottinteso: a battere i barbari pentastellati), campagna autolesionista quanto mai in un tempo nel quale il disagio sociale e il rancore verso l’establishment semmai gonfiavano le vele degli antiestablishment, non dei “moderati”; b) soprattutto una legge elettorale a dominanza proporzionale il cui sottinteso politico era chiaramente quello che traguardava a una maggioranza tra PD e FI. Una strategia francamente miope e comunque rivelatasi fallimentare. Per dirla in termini un po’ politicisti e me ne scuso: la pigra reiterazione della teoria, propria della democrazia maggioritaria, praticata nel mentre essa veniva archiviava (nella regola elettorale e nel sentire degli elettori), che le elezioni si vincono al centro. A conferma che, a dispetto della sua nomea di innovatore, Renzi era rimasto indietro di un giro nella lettura della fase, nella politica e nelle politiche (al plurale), quelle di stampo liberale e da “terza via” legate a una lettura ingenuamente ottimistica della globalizzazione, già abbondantemente alle spalle.
  3. Infine trovo curiosa la tesi secondo la quale del dialogo tra 5 stelle e PD si possa ragionare sì, ma non ora. Tesi che, al più, può sostenere un dirigente del PD (a mio avviso, comunque sbagliando, come dirò), non chi non ha responsabilità dirette di partito e solo esprime le proprie opinioni, cercando di tematizzare le questioni reali. In questo caso la questione delle alleanze o comunque del rapporto con gli attori politici in campo, fissando maggiori o minori distanze ovvero vicinanze. Tema che il PD prima o poi – più prima che poi – dovrà porsi, salvo raccontarsi e raccontare la vecchia favola che possa fare tutto da sé. E che, al netto della reticenza tattica, dovrebbe essere tematizzata al congresso PD. Vero non detto, appunto tabù. Del resto, Zingaretti, ancorchè con circospezione, vi aveva fatto cenno per poi fare mezzo passo indietro. E il suo vice alla Regione Lazio Smeriglio aveva esplicitato. Ma noi che meniamo vanto (cattolico-democratico?) di scommettere sulla democrazia partecipata non dovremmo essere condizionati da ragioni tattico-prudenziali di partito e dovremmo semmai contribuire alla trasparente tematizzazione dei nodi cruciali. Non esorcizzarli, non dissimularli. Trattasi di nodo cruciale e persino identitario per il PD che fu concepito come partito di centrosinistra, che ora francamente ha un posizionamento meno chiaro e che appunto un congresso non reticente dovrebbe affrontare. Di più: nodo che è già attuale e dirimente. Sia se cadesse il governo e si precipitasse verso nuove elezioni. Sia se, a valle della crisi, si provasse a dare vita a una nuova maggioranza. Ipotesi sommamente ardua, ma – questa la mia opinione – il PD, in quel caso, dovrebbe almeno porsi responsabilmente la seguente questione: è nell’interesse superiore del paese precipitare verso nuove elezioni che, secondo tutte le simulazioni (da D’Alimonte a Pagnoncelli), condurrebbero a sicura, larga vittoria la destra e Salvini, incontrastato, a palazzo Chigi? Si provi a immaginare la campagna elettorale del PD, giustamente tempestato dalla domanda dei suoi virtuali interlocutori nel caso dovesse assumere responsabilità di governo. Possiamo, noi, modesti ma liberi osservatori, cittadini “pensanti” e responsabili, non interrogarci e non interrogare gli attori politici al riguardo, in attesa che le cose evolvano da sé? Io penso che da sé le cose non evolvano, di sicuro non in meglio.

Franco Monaco

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