Di fronte alla tragedia bellica: comprendere gli eventi per costruire vie d’uscita politiche

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La guerra è sempre una tragedia. Questa guerra mossa dalla Russia di Putin all’Ucraina è ingiustificabile, recisamente da condannare e pericolosissima. Ma credo sia necessario formulare qualche considerazione critica per capire cosa stiamo vivendo e cosa sarebbe possibile fare per evitare errori e ritorni indietro

 

 

La guerra è sempre una tragedia. Questa guerra mossa dalla Russia di Putin all’Ucraina è ingiustificabile, recisamente da condannare e pericolosissima. Nei primi trenta giorni morti, distruzioni, profughi sono sotto i nostri occhi (ancorché le dimensioni reali della catastrofe non siano chiare, perché ovviamente tutte le notizie arrivano ombreggiate da una fitta cortina di propaganda bilaterale). Detto questo, e ribadito questo come premessa di tutto il breve ragionamento che seguirà, credo sia necessario aggiungere qualche considerazione critica per capire cosa stiamo vivendo e cosa sarebbe possibile fare per evitare errori e ritorni indietro.

  1. Il clima complessivo dell’opinione italiana sulla guerra a me appare pessimo. Ce lo si poteva aspettare, forse, ma un così rapido e così largo schieramento retorico di una stampa, di televisioni, di circuiti informativi che hanno messo l’elmetto e si schierano apoditticamente nel conflitto è arrivato a livelli caricaturali. Siamo giunti ormai a definire “putiniani” tutti quelli che cercano di interpretare i fatti senza seguire pedissequamente la retorica imperante. Si può discutere sulle posizioni dei critici della guerra, dire che molti sbagliano, per carità, ma non innalzare un muro di incomprensione e svalutazione così drammaticamente uniforme e del tutto ingiustificato. Partendo dalla condanna della guerra di aggressione bisognerebbe invece proprio continuare a esercitare l’arte intellettuale della distinzione, della comprensione, della ricerca di motivazioni, della lettura degli eventi senza applicare semplicemente il bianco-nero della logica militare. E se quindi bisogna demistificare la retorica di Putin e dei suoi seguaci sull’inesistenza della nazione ucraina, o sulla denazificazione del governo di Kiev, oppure ancora sulla responsabilità della guerra sbrigativamente addossata all’allargamento della Nato, non si può trascurare di comprendere la guerra sullo sfondo di una storia più ampia. Di cui fa parte la polarizzazione interna della popolazione ucraina, di cui fa parte la catena di errori dell’Occidente nel gestire le conseguenze del 1989 e del crollo dell’Urss, di cui fa parte la logica di Putin del consolidamento nazionale dello Stato in termini diplomatico-militari (senza avere a disposizione argomenti economici per farlo), di cui fa parte la guerra di attrito nel Donbass che dura dal 2014. Qui ci sono argomenti che andrebbero approfonditi, ma senza considerarli non ci si rende pienamente conto di quello che è successo, e quindi – quello che è più grave – non si hanno strumenti per uscire dalla situazione insostenibile. La comprensione è la prima forma di azione politica.
  2. L’approccio dell’Occidente è stato finora piuttosto compatto (più di quello che ci si aspettava, e forse di quello che anche Putin si aspettava). Ma sotto a questa compattezza non mancano i problemi. Dato per scontato che la scelta dell’allargamento della guerra con il coinvolgimento diretto della Nato non è stata per molteplici buone ragioni considerata realistica, ci si è attestati sul binomio sanzioni-aiuto militare gli ucraini. Scelte comprensibili ambedue, ma che sommate tra di loro e se – ribadisco se – lasciate isolate da un altro e più importante discorso politico sugli obiettivi e sulle cose da fare, conducono a esiti a mio parere francamente discutibili. Anzitutto sul piano morale, direi: seguiamo il ragionamento. Le sanzioni, si sa, se funzionano, colpiscono i popoli più che i governanti (e la retorica degli yacht degli oligarchi sequestrati fa un po’ sorridere…). Ma, ci spiegano gli esperti: è proprio quello che vogliamo, cioè puntiamo a peggiorare le condizioni di vita della popolazione russa in modo che si ribelli a Putin. Dall’altra parte, le armi ai resistenti perché non darle? È una loro richiesta drammaticamente legittima difendere il loro territorio aggredito. Così si resiste all’invasione e si indebolisce Putin. In sostanza, lette assieme queste due cose lasciano però una sgradevole sensazione nel breve periodo e nella logica precisa dei fatti, che è quello che conta, al di là delle parole. Diciamola brutalmente: è come se noi facessimo la guerra all’aggressore, la resistenza democratica e la battaglia per la libertà con le vite degli altri. Che diritto morale abbiamo noi di chiedere ai cittadini russi di contestare Putin a costo di andare in galera? Ci andassimo noi in Siberia, come si diceva una volta… Che diritto morale abbiamo ad osservare i giovani ucraini che vanno al fronte con le nostre armi, al riparo dei nostri muniti confini?
  3. L’unico modo per attenuare questo drammatico problema morale sarebbe appunto completare il ragionamento politico: sanzioni e armi servono solo se mirano a ottenere un risultato che non sarà nel breve periodo, realisticamente, né la caduta del tiranno né la controffensiva militare ucraina che ricacci l’invasione. Una lettura dei fatti che conosciamo tende ad escludere questi sviluppi dal novero del possibile (a meno di eventi del tutto imprevisti). Sanzioni e armi vogliono allora soltanto prolungare il conflitto, configurando una sorta di stallo pericoloso e sanguinoso? Oppure, possono invece porsi l’obiettivo più condivisibile di una forte pressione sull’aggressore, sufficiente per imporgli di fermarsi e di venire finalmente a un negoziato serio. Per ora questo aspetto è scivolato nel vago, nel folkloristico, nel dubbioso (cosa farà la Cina?). A me parrebbe del tutto evidente che si debba arrivare a questo punto e cioè a trovare un punto di caduta che metta fine alla guerra al più presto. Dovrebbero essere mobilitate ampiamente le risorse diplomatiche internazionali: non si fa una mediazione senza la Cina, gli Usa e nemmeno l’Europa! Ma anche le risorse economiche, in vista di ragionamenti lungimiranti sul futuro: è partita una preoccupata riflessione sulla nostra dipendenza dal gas russo, ma è del tutto banale considerare che questa è un’arma a doppio taglio e che si può premere su Putin esattamente utilizzando questi effetti oggettivi dell’interdipendenza che ci lega. Lasciano molti dubbi in questa direzione le sparate retoriche di Biden: che senso ha dire che Putin è un paria e che non ha il diritto di governare la Russia? Sembra quasi che l’obiettivo stia diventando tenere aperto lo scontro invece che risolverlo, nella velata intenzione di logorare la Russia e forse di indebolire nel medio periodo il tiranno. Ma a che prezzo? Una visione politica alternativa dovrebbe essere possibile: giungere al più presto a mettere fine ai combattimenti, trattando con l’ingiusto aggressore, certo. I trattati si fanno con i nemici, non solo con gli amici. Volere la fine della guerra al più presto non è quindi inaccettabile equidistanza: è la sola via d’uscita dalla tragedia.
  4. Colpisce poi che in tutta la discussione sul possibile compromesso da costruire siano molteplici le dimensioni citate (la neutralità ucraina, il destino della Crimea, le pressioni russe sul Mar Nero, le risorse economiche del Donbass…). L’ultima cosa che si cita è la volontà delle popolazioni coinvolte. Nel Donbass una quota di popolazione maggioritaria si dichiara di lingua russa e aveva votato massicciamente per Yanukovic, il presidente cacciato con il colpo di mano / rivoluzione democratica di Euromaidan nel 2014. Al di là delle pressioni russe indebite, delle infiltrazioni paramilitari e del referendum discutibilmente organizzato in Crimea, vogliamo arrivare a far esprimere direttamente e con tutte le garanzie democratiche internazionali le popolazioni locali? Per accordarsi eventualmente su una variazione di confini non imposta con la forza, ma il più possibile condivisa dai popoli oggetto di discussione. L’Occidente non dovrebbe avere remore a modificare i confini, se serve a pacificare le condizioni locali. Lo si è fatto in Bosnia e in Kosovo (con una legittimazione democratica traballante anche in questi casi, peraltro).
  5. Sempre in collegamento con queste dinamiche, non ci è risparmiata nemmeno la deriva verso la logica del riarmo, dell’aumento delle spese militari, condita con la retorica della necessità di uscire dalle timidezze della Vecchia Europa (altro che premio Nobel per la pace, signora mia…). Ci è voluto un papa a dire che questi discorsi sono una vergogna! Non mi pare abbia nessun senso se non sul piano emotivo immediato una decisione come quella dell’aumento parallelo delle spese in tutti i paesi Nato al 2% del Pil. La somma dei paesi dell’Unione europea, secondo i conti disponibili, spende già ora in armamenti più di quattro volte rispetto a quanto spende la Russia militarista. Casomai, se volessimo davvero fare un discorso approfondito e realistico, dovremmo porre di nuovo la questione politica di un coordinamento europeo di tali spese, che potrebbe portare a maggiore efficienza, assieme a significativi risparmi. E potrebbe contribuire a costruire quella forma del tutto originale di statualità europea di cui abbiamo urgente bisogno proprio per muoverci in un mondo dove i paesi più importanti hanno rilanciato la loro assertività politica. Per fortuna qualche voce ragionevole in questa direzione si è levata, ma lo scontro a livello di governo proprio di questi giorni rende chiaro che la ragionevolezza è tutt’altro che condivisa.
  6. Infine, sta succedendo uno dei ritorni del passato in forma di dejà vu, che lascia molto sconcerto. È riemersa nelle parole di Biden (e subito nel coro di molti commentatori entusiasti) la logica della battaglia di principio tra le democrazie e i regimi autoritari. È difficile credere che ci sia qualcuno che prenda sul serio questo linguaggio cinico e lontano da ogni realtà dei fatti. L’Occidente ha affrontato il post-guerra fredda sostanzialmente giustificandosi con la retorica della globalizzazione, intesa come spontanea e ineluttabile forza dell’integrazione economica, che avrebbe alla lunga portato benefici a tutti gli attori in gioco, trascurando ogni ragionamento di inclusione politica e facendo allegramente affari con tiranni e autocrati di ogni tipo. Gli unici a distinguersi in questo approccio sono stati i neoconservatori americani, che hanno lanciato l’idea dell’ “esportazione della democrazia” come premessa di ogni equilibrio internazionale duraturo: bisogna dar loro atto dell’innovazione controcorrente, e riconoscere la loro coerenza. Mal gliene incolse, peraltro: i fallimenti drammatici dell’Iraq e dell’Afghanistan li abbiamo già dimenticati? E, su un altro fronte, abbiamo già dimenticato i problemi delle nostre democrazie europee? Gli Orbàn, i Kaczynski eccetera? Biden ha esaltato Varsavia dimenticandosi le polemiche di poche settimane prima sulla libertà di stampa in Polonia e sulla riduzione dell’autonomia della magistratura. Abbiamo dimenticato che dalla nostra parte ci sono anche gli sceicchi e i dittatori arabi (Blinken ha incontrato proprio in questi giorni i capi di Stato di Egitto, Emirati Arabi, Bahrain e Marocco per ottenere un più fermo atteggiamento antirusso, proprio bei modelli di democrazia)? Anche il cinismo, insomma, dovrebbe avere dei limiti.
  7. Non che non sia un problema la riduzione della forza e dell’efficacia dei modelli democratici nel mondo, intendiamoci: che paesi come la Turchia o l’India, oltre alla Russia, per non parlare del mondo arabo, siano scivolati verso condizioni politiche e civili poco libere è un problema serissimo. Ma pensiamo davvero possibile contrastare queste tendenze con la chiusura di un nuovo blocco militare dei privilegiati “democratici” contro il resto del mondo? Ancora una volta occorrerebbe invece una capacità politica multiforme. Un’attenzione capace di sorvegliare il fronte interno, perché l’aumento dei costi, le difficoltà economiche, i riflussi populisti di un’ondata di profughi, gli egoismi statali rispetto al peso diseguale delle sanzioni, non mettano in ulteriore crisi la fragile coesione democratica nostrana. E sul fronte esterno, una capacità politica di rispetto dei popoli nel loro pluralismo, nutrita di lungimirante apertura mentale, costruita con aiuti selettivi che non appaiano interferenze, sviluppata in cooperazioni multilaterali strutturate e in accordi di sicurezza condivisi. Non rimpiangiamo affatto i tempi della guerra fredda: non vorremmo adattarci a una ripetizione farsesca dei suoi schemi mentali.

 

Guido Formigoni

2 Comments

  1. Grazie a Guido Formigoni, condivido parola per parola. Ci sarebbe poi da approfondire anche tutta la tematica della tenuta del diritto internazionale, delle disposizioni relative ai limiti sull’uso delle armi, dei trattati di pace, della tutela dei diritti umani, dei crimini di guerra, del ricorso ai relativi, Tribunali internazionali faticosamente conquistati dopo i disastri bellici del 900 e non solo, che vengono disattesi, dimenticati, risucchiati al primo missile, alla prima tortura, al primo stupro, alla prima mina e via via crescendo!!! Grazie ancora Guido, farò circolare.

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    IO sono un pacifista e antimilitarista da sempre (marce della pace Perugia –Assisi,marce contro l’ampliamento dell’aeroporto di Vicenza più quelle locali in prov. di Venezia),detto questo la mia domanda è:-1 in giro guerre ce ne sono,Arabia Saudita /Yemen,-2 la sistematica ruberia dei coloni israeliani dei territori palestinesi e le violenze nei confronti della popolazione di Gaza nonchè il mancato rispetto delle risoluzioni ONU su queste vicende,-3 le questioni del popolo curdo di cui non se ne parla,4- il mancato controllo dei parlamentari di quanto previsto dalla legge n.185/1990 a proposito della vendita di armi e sistemi di armamento.
    Certamente la guerra in Ucraina è un fatto grave e pesante,non solo per i lutti sofferenze che comporta,ma come strumento imperialista da rifiutare in ogni caso.Sarebbe opportuno un ragionamento chiaro sull’espansione della NATO che in Ucraina c’era da tempo per l’addestramento dei soldati ed adeguamento del sistema militare ai parametri Nato.

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