“Decreto sicurezza”. Riflessioni a margine ma non marginali

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Questo articolo appare in contemporanea nel nostro sito e in quello dei Viandanti, una rete di associazioni, di gruppi e di riviste che, dentro e ai margini della chiesa cattolica in Italia, danno spazio e linfa vitale alla ricerca di fede e all’impegno sociale e culturale dei credenti. L’iniziativa nasce dai Viandanti (su cui abbiamo scritto di recente l’articolo “Il futuro della Chiesa. L’assemblea dei Viandanti”). Noi e loro vogliamo, insieme, dire una parola su un discutibile atto del nostro Governo, che più passano i giorni e più appare non essere in sintonia, prima ancora che con la legge fondamentale, con il profondo sentire dei cittadini. Pur in modo pacato, ci sembra così di rispondere anche all’invito di Corrado Lorefice, arcivescovo nella Chiesa di Palermo: “Che non ci accada di rimanere in silenzio dinnanzi ai ‘dis-umani’ decreti – tanto meno di approvarli! – che aggravano la sofferenza di quanti sono già vessati dalla povertà e dalla guerra”.

 

Nel mare magnum (per fortuna!) delle tante considerazioni di questi giorni sull’applicazione del cosiddetto “decreto sicurezza” in riferimento ai profughi, alcune ulteriori riflessioni.

La giusta mobilitazione contro una legge ingiusta

Innanzitutto, è da registrare il crescere della mobilitazione civile e politica contro questa legge ingiusta e non degna della nostra Costituzione e dei valori profondi del nostro popolo. In particolare, in questo contesto, è giusto segnalare che la Chiesa cattolica, sia tramite i suoi organi ufficiali (dal Papa, che pur non potendo citare direttamente i provvedimenti dei singoli stati,  non ha mai smesso di ricordare in ogni occasione il dovere dell’accoglienza, alla Cei e a molti singoli Vescovi, senza dimenticare l’attiva azione informativa-formativa svolta dal quotidiano Avvenire e da molti settimanali diocesani), sia con larga parte delle associazioni e movimenti, nonché ordini religiosi e parrocchie, è in prima linea nell’accoglienza, nella difesa dei diritti umani e quindi anche nella contestazione dei contenuti del decreto.

Non è un fatto da dare per scontato, non solo perché c’è probabilmente una parte dei cattolici che invece è molto meno schierata e sensibile – se non d’accordo col decreto – ma perché c’è in questa posizione un elemento di pura gratuità che è testimonianza evangelica: le persone che chiedono di essere accolte non sono, per la maggior parte, cristiane e tra queste non sono certo molti i cattolici… È dunque davvero significativa questa testimonianza di amore per il prossimo senza calcoli, controcorrente e quindi profetica. Molto interessante è anche la condivisione e la collaborazione tra organizzazioni o singole persone cristiane e laiche.

Tra “disobbedienza” e alternative all’applicazione

In secondo luogo, è molto importante che amministratori regionali e locali stiano prendendo posizione e cercando di trovare modalità per far modificare il decreto (anche con ricorsi alla Corte) e – in qualche modo – per “non attuarlo” in modo legale (tema su cui tornerò fra poco). Interessante anche chi annuncia la “non applicazione” del decreto: qui il tema si fa più delicato, perché si va a toccare il rapporto tra responsabilità amministrativa, rispetto delle leggi votate dal Parlamento, coscienza personale; ma, al di là della provocazione – che in casi come questi è legittima e probabilmente necessaria per scuotere da una pericolosa rassegnazione –, penso che amministratori regionali e sindaci che si dichiarano “disobbedienti” siano consapevoli dei rischi, anche sul piano del messaggio che arriva ai cittadini, e più che altro stiano cercando – a mio modo di vedere – quegli elementi “alternativi” all’applicazione sic et simpliciter della legge, senza infrangerla palesemente (semmai esplorando terreni “di confine” che possano reggere a una prima verifica di legittimità). E qui veniamo appunto al tema della concreta possibilità di portare avanti questa operazione.

Non sono un giurista e la materia è senz’altro molto complessa, ma penso ci siano ambiti in cui, essendoci precise responsabilità assegnate alle amministrazioni regionali e locali, esse potrebbero essere fatte valere: la tutela dello straniero garantita dalla Costituzione; forme di “registrazione” ad hoc dei profughi in attesa di riconoscimento, anche in forma provvisoria, tenendo conto che oltre alla Costituzione vi sono norme internazionali e  trattati europei che sono (dovrebbero essere) vincolanti anche per i singoli Stati; provvedimenti o ordinanze nell’ambito dell’ordine pubblico (può sembrare paradossale, ma i sindaci potrebbero “sfruttare” a loro favore proprio questo concetto in relazione al rischio o alla certezza per centinaia di persone di rimanere senza dimora) e della tutela sociale e sanitaria (l’assistenza sanitaria è un diritto di tutti e la sua mancata applicazione è un pericolo in primis per chi si ammala ma anche per la popolazione). Sono solo alcuni esempi di tematiche che gli uffici giuridici e legali sono chiamati ad esplorare ed approfondire.

Le responsabilità nei confronti dei Paesi dai quali si fugge

Su tutto questo tema aleggiano però – come sempre, ma nel dibattito le questioni che seguono tendono a scomparire per poi magari riemergere di colpo – alcune altre questioni fondamentali: i rapporti con i Paesi da cui la gente fugge, le relazioni con gli stati o i gruppi al potere nel nord Africa, che rappresentano l’ultimo transito dei profughi (magari dopo mesi o anni di condizioni inumane nelle prigioni), l’aiuto da offrire sia dal punto di vista politico e diplomatico, sia da quello economico, il contrasto ai “trafficanti di esseri umani”, il potenziamento dei corridoi umanitari. Tali urgenze a dire il vero si dovrebbero affrontare in ragione di un dovere etico, civile e di giustizia, considerati gli enormi vantaggi economici che l’Europa, l’Occidente e – aggiungiamo oggi – la Cina, hanno avuto e hanno dallo sfruttamento delle risorse (e anche dei conflitti) presenti in diverse aree del Sud del mondo, e non solo sulla base di una spinta a diminuire le migrazioni forzate, come se il problema si ponesse soltanto perché ne subiamo in qualche modo anche noi le conseguenze; non si può però negare che una maggiore giustizia economica e condizioni di pace renderebbero meno necessario lasciare la propria terra, persino a rischio della stessa vita.

È paradossale che con una mano si finanzino (o non ci si impegni a sufficienza per fermare) i conflitti – con tutto ciò che ne consegue non solo sul piano umano ma anche su quello del mancato sviluppo economico – e dall’altro si pretenda che le popolazioni restino nella loro terra a subire violenza, terrore, povertà, malattie. Ciò non significa – e anche questo va detto, per onestà intellettuale – che non vi siano gravi responsabilità anche da parte di gruppi dirigenti locali, spesso più preoccupati di affermare o consolidare il proprio potere che non di agire per il bene della gente; così come non si possono tacere i crimini dei trafficanti di esseri umani, di molti gruppi militari o paramilitari corrotti, protagonisti di violenze di ogni tipo e di stupri e la ferocia delle organizzazioni estremiste sedicenti islamiche (sedicenti, perché la stragrande maggioranza dei musulmani è terrorizzata da esse, non ne condivide obiettivi e metodi e non li appoggia) in Africa e non solo. E conosciamo le contraddizioni e le difficoltà della comunità internazionale nell’affrontare la guerra in Siria e altri conflitti, come quello dello Yemen, o perduranti situazioni di anarchia, come in Somalia.

Per una politica estera di alto profilo

Riprendere con determinazione una politica estera europea ed internazionale che davvero punti a creare condizioni di pace e prosperità nelle zone di guerra – superando logiche egemoniche ed egoistiche, con una cooperazione che valorizzi le realtà locali e le faccia crescere autonomamente, non con imposizioni dall’alto e politiche predatorie -, tagliare drasticamente i finanziamenti per la produzione e l’esportazione di armi, cessare di depredare ambienti che già subiscono le nefaste conseguenze dei cambiamenti climatici (altro motivo di fughe di massa) sono esigenze fondamentali che hanno valore in sé, al di là del tema migrazioni, ma che certo incidono anche sulle condizioni di vita delle persone e quindi sulla spinta a lasciare la propria terra. Una scelta, quella dell’emigrazione, che deve comunque rimanere possibile, ma nella libertà e non rappresentando l’unica via – peraltro assai pericolosa e incerta – per sperare in una vita dignitosa e sicura.

 

Sandro Campanini

Coordinatore nazionale di c3dem 

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