Carlo Maria Martini, nei giornali del giorno dopo i funerali

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(a cura di Giampiero Forcesi)

Nella colonna di destra di questo portale (“La nostra rassegna”) non si riescono a contenere anche solo i titoli dei molti articoli che sulla stampa italiana raccolgono le riflessioni suscitate dalla scomparsa del cardinal Martini. Così, nel giorno successivo ai funerali del cardinale (forse ultimo dei giorni in cui i giornali sono ricchi di articoli su di lui), abbiamo pensato di indicare e citare in modo più disteso gli articoli che abbiamo trovato nella rassegna stampa quotidiana (quella che fa la Camera dei deputati e quella che fa il benemerito sito finesettimana.org) e che  sono sembrati di maggiore interesse. Occupiamo, dunque, questo spazio che sarebbe dedicato, invece, a commenti e opinioni “originali” delle persone che più da vicino condividono il percorso culturale, politico, esistenziale, religioso dei cattolici democratici.

Già pochi giorni fa, il 1° settembre, abbiamo fatto un uso improprio di questo spazio, pubblicando  “l’ultima intervista” rilasciata dal card. Martini e apparsa sul “Corriere della Sera” (L’ultima intervista). E proprio da quel testo vorrei partire, oggi. Ad una prima veloce lettura l’intervista mi era apparsa straordinaria. E avevo usato questo aggettivo nel presentarla. Nei due giorni successivi non l’avevo più letta. Fino a ieri sera, quando ho visto che Gad Lerner, nella trasmissione televisiva “L’infedele”, l’ha fortemente rilanciata, informando che ne era nato un “caso” di dimensioni mondiali. Questo non lo so. So che mi era apparsa davvero straordinaria. E’, per certi versi, comprensibile che ci siano dubbi sulla sua autenticità. Per i modi in cui è nata. Ma, per quel che so, i profili dei due autori – il padre gesuita Georg Sporschill, in particolare, autore già di un lungo colloquio con Martini pubblicato da Mondadori nel 2008 (Conversazioni notturne a Gerusalemme), e Federica Radice (una mite signora amica di padre Sporschill e del cardinale, che era in tv ieri sera) – danno l’impressione di serietà e correttezza; e del resto un’ulteriore garanza ritengo che la dia il segretario di Martini, don Damiano Modena, che ha vissuto in questi anni con il cardinale nella casa di Gallarate e ben conosce i due autori di questa conversazione con Martini, svoltasi lo scorso 8 agosto.

Di questa intervista Federica Radice, sul “Corriere” di oggi 4 settembre, ricostruisce la genesi, lo svolgimento, e racconta la sua sorpresa nell’aver visto il cardinale che, nonostante la sua salute, non sembrava stancarsi di dialogare, di dire. “Sembrava sentisse l’urgenza di proseguire”, osserva la signora. E aggiunge alcune altre parole di Martini, dette nel corso dell’incontro: “Il nostro patrimonio culturale che dobbiamo conservare è ancora in grado di servire l’evangelizzazione e gli uomini? Oppure intrappola le nostre forze in modo da paralizzarci…?” (Intervista a Federica Radice).

Nell’intervista pubblicata dal “Corriere”, Martini aveva parlato di questo patrimonio e del fatto che esso “pesa” sulla Chiesa. Aveva parlato di un “apparato burocratico” che lievita, di riti e di abiti “pomposi”. E aveva ammesso: “Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità”. Ma aveva aggiunto: “Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador”. Aveva insistito nell’urgenza di individuare queste persone, che “per nessuna ragione” si dovevano limitare con “i vincoli dell’istituzione”. “Io consiglio al papa e ai vescovi – aveva detto – di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali”: “uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove”, “uomini che ardono, in modo che lo Spirito possa diffondersi dovunque”. Aveva poi parlato, per la Chiesa, della necessità di “un cammino radicale di cambiamento”, “cominciando dal papa e dai vescovi”. E aveva detto che “né il clero né il Diritto possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo”. Aveva detto anche che “l’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli”, perché se una donna, lasciata dal marito, si rifà una famiglia, ma poi viene discriminata nella Chiesa, “viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli”, e c’è il rischio che la Chiesa “perderà la generazione futura”. E, infine, quella espressione che ha poi fatto il giro del mondo: “la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?”.

Inevitabilmente la morte di Martini ha portato a considerazioni di segno diverso sulla sua figura di cristiano e di vescovo. Uno degli argomenti di maggiore polemica è stato quello della scelta di come morire. Ci sono state forzature nell’interpretare quello che è stato il suo personale comportamento di fronte all’aggravarsi della malattia. La testimonianza della nipote, Giulia Facchini Martini, che gli è stata accanto nella fase finale, mi sembra che dia il senso, semplice e forte, di come Martini sia andato incontro alla morte (Così zio Carlo ha chiesto di essere addormentato, sul “Corriere della Sera”).

Il “Corriere”, tra i molti articoli di oggi, ne contiene altri due di particolare interesse, oltre al testo dell’omelia del card.Angelo  Scola, nella quale l’arcivescovo di Milano scrive, senza soffermarvisi, queste parole: “Nella Chiesa le diversità di temperamento e di sensibilità, come le diverse letture delle urgenze del tempo, esprimono la legge della comunione: la pluriformità nell’unità. Questa legge scaturisce da un atteggiamento agostiniano molto caro al Cardinale: chi ha trovato Cristo, proprio perché certo della Sua presenza, continua, indomito, a cercare” (L’omelia di Angelo Scola). Un primo articolo è del presidente della Fraternità di Cl, don Julian Carron, che scrive: “Ci rincresce e ci addolora se possiamo aver dato pretesto per interpretazioni equivoche del nostro rapporto con lui, a cominciare da me stesso”. Un buon segno. (Carron. Sono addolorato, potevamo collaborare di più).

Ma interessante è soprattutto il secondo, una intervista al Padre generale dei Gesuiti, Adolfo Nicolàs, che della spiritualità ignaziana di Martini coglie un punto in particolare: il principio secondo cui si deve “trovare Dio in tutte le cose”. “Il cardinale Martini – scrive – aveva un approccio così positivo verso la realtà perché aveva quello sguardo, la visione nella quale Dio lavora in tutto: e ha trovato Dio in tutte le cose, in tutte le persone”. Alla domanda se è troppo superficiale dire che Martini sia stato un contestatore della dottrina della Chiesa, risponde che, sì, lo è. E spiega bene che, invece di “contestazione”, si deve parlare di “approfondimento”, “un approfondimento della fede”. Se si approfondisce la fede, si raggiunge una grande libertà, e diventa possibile “parlare con tanta libertà di molte cose che altri si sentono legati ad affrontare” (Intervista al Padre generale dei Gesuiti).

Sul “Foglio” del 3 settembre Giuliano Ferrara aveva firmato, con l’elefantino, un articolo nel quale aveva espresso in modo piuttosto indisponente  la sua disistima verso Martini (Una verità su Martini nelgiorno dell’addio al possente gesuita, che abbiamo già pubblicato ieri sul sito). Oggi sullo stesso quotidiano gli risponde con intelligenza Luigi Manconi, il quale tra l’altro scrive: “La chiesa di Martini non è quel soggetto tremebondo e complessato, deferente verso il mondo e il secolo, pluralista perché subalterno alle mode, democratico perché afflitto dai sensi di colpa; e, infine, relativista perché incapace di comunicare la verità in quanto insicuro di essa, Dunque, in qualche modo, già scristianizzato. E’, al contrario, una chiesa conciliare…”. E qui prova a dire cosa intendere per chiesa conciliare. (Il vero Martini).

Alcuni articoli si muovono sul versante di chi ha ritenuto che l’atteggiamento e le parole di Benedetto XVI (e, per alcuni, anche del card. Scola) rivelassero una qualche presa di distanza dal cardinale (per altro, forse, inevitabile). Massimo Faggioli scrive su “Europa”: “Dal punto di vista dello stile del pontificato, la mancata menzione della morte di Martini nell’Angelus di domenica – due righe che non avrebbero stravolto il protocollo – non hanno fatto che rafforzare l’immagine (stereotipata solo fino ad un certo punto) di un Vaticano ratzingeriano insofferente rispetto al cattolicesimo dialogante testimoniato da Martini” e poi aggiunge: “Non comprendere l’importanza di rendere tempestivo omaggio al carisma del cardinale Martini, vescovo-traghettatore di una chiesa nel travaglio del passaggio dall’età delle religioni di stato all’era post-confessionale, equivale da parte della dirigenza politica del Vaticano ad alzare bandiera biancaì rispetto alla modernità”. (Cosa il papa non ha detto).

Marco Politi, su “Il Fatto Quotidiano”, coglie un punto di verità scrivendo: “In tutti i discorsi cesellati, ascoltati durante i funerali, il crinale è stato uno solo: Carlo Maria Martini è un indicatore del futuro o no? Soltanto il cardinale Tettamanzi ha espresso ciò che la folla sentiva di pancia, di cuore e di testa: “Ti abbiamo amato per il tuo sguardo capace di vedere lontano…”.   (Da una parte l’amore dei fedeli, dall’altra la freddezza del Papa).

Michele Serra, nella sua cronaca inusuale dei funerali del cardinale su “la Repubblica”, osserva che “l’attuale pastore della diocesi di Milano ha concesso solo un fugace cenno finale all’interesse del defunto per ‘la realtà contemporanea’: che pure è ciò che ha fatto di Martini un testimone molto ascoltato anche al di fuori del mondo cattolico. Era come se le parole di Scola tendessero a ricondurre la figura di Martini, orgogliosamente, nell’alveo della Chiesa romana”. Interessante, però, anche la sua annotazione sull’esigua presenza di giovani ai funerali: “La sola percepibile mancanza, a guardare meglio, era quella dei ragazzi. Per trovare qualcuno sotto i trent’anni, esclusi i (pochi) bambini per mano ai genitori, era necessario aguzzare la vista. Una società decisamente invecchiata non basta, da sola, a spiegare la vistosa latitanza, in un giorno molto significativo per Milano, dei milanesi giovani. Al mistero della resurrezione poteva dunque sommarsi, nella piazza raccolta a salutare il suo pastore, il mistero di un futuro poco intellegibile, e assente nei suoi più autorevoli rappresentanti, i giovani. Forse neanche il padre Carlo Maria avrebbe saputo spiegare perché al suo funerale di tutti c’era traccia, non dei figli”. (Tutte le facce di una città)

Infine, due “memorie” di Martini dovute, l’una, al padre gesuita Francesco Rossi De Gasperis, intervistato su “Avvenire”, l’altra al vescovo di Pavia, Giovanni Giudici. Rossi De Gasperis rammenta come fosse sorprendente nel Martini studioso delle prime comunità cristiane la sua cura estrema a “cercare di comprendere le differenze anche ermeneutiche e di linguaggio” che vivevano quelle comunità dopo la morte di Gesù. “Cercava di capire il perché di queste diversità. Forse solo da qui – commenta l’anziano gesuita – si può capire l’importanza che ha avuto per lui il dialogo interreligioso e l’impegno ecumenico” (Intervista a Francesco Rossi de Gasperis). E, forse, si potrebbe dire che “da qui” si può comprendere anche la sua attenzione e la sua capacità di ascolto nei confronti delle diverse esperienze di vita dei cristiani del nostro tempo. Giovanni Giudici (sul sito di Pax Christi) scrive di “una interpretazione del cristianesimo come amico dell’intelligenza e della libertà” e della “sua visione di una Chiesa povera, libera, sciolta, aggettivo cui spesso ricorreva per descrivere la Chiesa. Comunità strutturata sì, ma immune da ogni tentazione di potere e da propositi di costrizione” .

 

 

 

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