Cambiare l’approccio al problema della violenza sulle donne

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L’autrice insegna storia e filosofia nei licei ed è stata assessore all’Istruzione, formazione, lavoro e pari opportunità della Regione Umbria. Il suo intervento riprende il tema affrontato di recente sul nostro da Albertina Soliani e da Giancarla Codrignani

 

Non sembra esserci, nel nostro paese, alcun motivo per cui si possa realizzare una violenza degli uomini sulle donne, a livello familiare e domestico, che non sia legato ad un fenomeno di accettazione-sudditanza da parte della vittima e simmetricamente di prepotenza-dominio da parte dell’aggressore.

Si può ammettere che la non autonomia economico-sociale, per lo più semplicemente reddituale e lavorativa, di molte donne le renda dominabili e ricattabili. Ma nel caso di donne che lavorano, che hanno redditi propri e possibilità di sovravvivere economicamente, magari anche in modo agevole, all’esaurirsi di un rapporto di coppia, resta da esaminare la componente psicologica:  l’acquiescenza che conduce alcune donne a non reclamare un rispetto della propria dignità, a non sottrarsi ad una relazione oggettivamente umiliante. E simmetricamente la infondata convinzione da parte dell’uomo aggressivo che la propria identità di genere si estrinsechi in atteggiamenti vessatori, padronali, castranti, quando non decisamente violenti e criminali nei confronti della donna.

Per quanto riguarda il vissuto psicologico femminile, se si tratti del retaggio di vecchi modelli culturali di femminilità remissiva e docile oppure di tratti più profondamente attribuibili ad una naturale connotazione meno aggressiva e dominatrice del genere femminile è questione  inestricabile. Dagli anni sessanta si è discusso se bambine si nasce o si diventa, e direi che le due concezioni estreme, nonché tutte le sfumature intermedie, sono state sostenute con plausibilità variabile.

Quindi, esonerandoci da questo dibattito, prendiamo atto che c’è una inspiegabile, deprecabile tendenza, per fortuna percentualmente rara, ma non meno drammatica, da parte delle donne che subiscono aggressioni e violenze, a non reagire simmetricamente, o almeno difensivamente, come il buon senso suggerirebbe. E che esattamente complementare si affermi la convinzione maschile che tutto sia permesso in termini di sopraffazione. Inoltre rileviamo che c’è una notevole inerzia della società a inserirsi a difesa delle donne nella relazione privata della coppia, o forse una difficoltà oggettiva a separare legislativamente le normali dinamiche da quelle patologiche o a possibile sviluppo patologico.

Quindi, che fare?

Se si vuole invertire la degradante polarità vittima/carnefice bisogna cambiare completamente l’approccio al problema della violenza sulle donne. Bisogna enfatizzare gli aspetti di rafforzamento positivo della identità, della valorizzazione, dell’empowerment delle donne.

Anche se in chiave di deprecazione, il costante riferimento alla condizione di vittima delle donne rafforza la sensazione che il destino sia segnato, che la fragilità sia insita, che il cammino delle donne sia inevitabilmente irto di minacce e che la lamentosità sia una comunicazione efficace. Le nostre ragazze rischiano di crescere con una mentalità da assediate.

Molto meglio insistere sulla assertività e competenza, sulla autonomia, sulla positività.

Ci vogliono modelli di riferimento per le donne non ancillari, non subalterni, non servili. Ci sono modelli femminili solidi e maturi che nello stesso tempo non nevrotizzino i tratti della inclusività, dell’accoglienza, della collaborazione, ricchezze della intelligenza femminile.

Quando il problema delle pari opportunità sarà vissuto simmetricamente si cercherà di colmare il vuoto che la perdita dell’impegno di cura, della genitorialità quotidiana, della dimensione domestica e affettiva produce nel modello identitario maschile tradizionale. Anche l’uomo può emanciparsi da un vissuto troppo monodimensionale e competitivo imposto da stereotipi.

Nella distorsione della armonia della coppia ci sono sempre due perdenti.

In questo senso la soluzione delle quota rosa non è certo l’ideale, almeno nel contesto politico attuale italiano in cui ad ogni livello di potere si procede per cooptazioni e decisioni verticistiche. Un sistema di questo tipo tende inevitabilmente a selezionare caratteri di docilità e di compiacenza.

Resta il fatto che, pur non essendo l’ideale, il sistema delle quote resta il minore dei mali: c’è una necessità anche educativa di proporre immagini di donne di potere, di responsabilità, di successo, che non siano solo le inflazionate esibizioni femminili decorative che la televisione ci rifila. Con tutto il limite di un percorso in cui la promozione della donna dipende dalla concessione di un riconoscimento da parte del maschio alfa della corrente o del partito….[1]

Maria Prodi



[1] “Il concetto di maschio alfa, o maschio dominante, deriva dal mondo animale, dove ad esempio, in un branco di lupi, l’animale alfa è quello in grado di dominare su tutti gli altri maschi del gruppo. Quindi, nel mondo degli umani, la trasposizione è immediata: l’uomo alfa sarà particolarmente virile, carismatico, affascinante, garantirà protezione e sicurezza, e una discendenza. Ardentemente anelato sia da femmine che da maschi non alfa, nella società non può che rappresentare il modello vincente” (da una recente intervista al settimanale “D” di Repubblica a Elisabetta Ruspini, docente di Sociologia presso l’Università Milano-Bicocca che ha scritto a quattro mani con Maria Luisa Fagiani, ricercatrice presso l’Università della Calabria, “Maschi alfa, beta, omega. Virilità italiane tra persistenze, imprevisti e mutamento). Nota redazionale.

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