Staino-Cuperlo e il futuro del centrosinistra

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Merita tornare sullo scambio di lettere tra il vignettista Staino e Gianni Cuperlo perché, al netto di qualche elemento personalistico che si può intuire ma non conosciamo nel dettaglio, vi figurano questioni che hanno a che fare con i problemi che investono il PD e la sinistra italiana.

Dichiaro subito che, essendo per me decisivo il rispetto che si deve portare alle persone, il mio giudizio su quelle missive non è per nulla ispirato a terzietà, non  è equidistante. Intanto va segnalata la scorrettezza, da parte di Staino, di rendere pubblica una missiva privata. La sua lettera ha toni aspri e persino offensivi. Al punto da far suonare ipocrite le rituali attestazioni di stima e amicizia. Come esse possono convivere con giudizi tanto sprezzanti e ingenerosi? Per inciso: bizzarra la circostanza che un uomo di satira infierisca su chi sta in minoranza anziché su chi detiene il potere.

Faccio fatica a non leggere tra le righe di una disputa tanto accesa il tratto di una lotta fratricida, che immagino abbia a che fare con la tradizione di quel partito-chiesa che fu il Pci, con la sua moralità ma anche con i suoi dogmatismi, un certo settarismo, il culto del capo… La stessa ipocrisia di condire parole così violente con attestati di ostentata comunanza tra compagni – qualcosa di simile si rinviene dentro la Chiesa con una certa enfasi talvolta artificiosa sulla fraternità – ha a che fare appunto con comunità chiuse gerarchicamente ordinate.

Ma, ripeto, al netto della solidarietà che, con convinzione, ho espresso a Cuperlo, penso si debba provare a oggettivare i problemi sollevati da quello scambio epistolare pubblico.

Pur con toni e modi inaccettabili, Staino solleva problemi reali: il carattere elitario, intellettualistico e un po’ autoreferenziale di certa sinistra, la sua distanza dal linguaggio e dal sentire del popolo; la sua difficoltà a misurarsi con la sfida del governo; le responsabilità pregresse di una classe dirigente refrattaria al cambiamento e incline a preservare rendite di posizione (penso alla lunga, pervicace resistenza alla novità rappresentata dall’Ulivo di Prodi, che ha prodotto un ritardo di quindici anni nella nascita del PD); una lettura sbrigativa e quasi demonizzante della svolta rappresentata da Renzi, percepito come una sorta di usurpatore di una casa….di proprietà, lungo l’asse ereditario Pci-Pds-Ds-PD. Sono appunti che evocano in me le ragioni per le quali non me la sentii di sostenere Cuperlo alle primarie: persona da tutti stimata, ma la cui candidatura trasmetteva un messaggio di continuità in un tempo che manifestamente esigeva una rottura. Specie dopo la imperdonabile bocciatura di Prodi per il Quirinale, certo ascrivibile a più mani, ma con il sicuro contributo di ex generali della vecchia guardia che evidentemente coltivavano ambizioni in proprio.

Ma buone ragioni si possono rinvenire anche nel punto di vista di Cuperlo: un esercizio della leadership spesso arrogante e divisivo da parte di Renzi; un assetto del partito e dei suoi organi che, di fatto, condannano all’irrilevanza le minoranze; un gruppo dirigente di qualità mediocre e un po’ opportunista, in quanto selezionato per cooptazione; lo “scisma sommerso” di elettori e militanti che si sentono estranei al nuovo corso; soprattutto un posizionamento politico del PD centrale e centrista (con le ricette programmatiche conseguenti) che ne altera l’originario profilo identitario di partito di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra nel solco dell’Ulivo; una concezione e una pratica della democrazia che, in nome della governabilità e della decisione, mortifica rappresentanza, partecipazione, garanzie, di cui si nutre il costituzionalismo. Il quale nasce appunto come sistema di regole atte a limitare il potere di chi comanda (Onida).

Differenze effettive e profonde, che non possono essere esorcizzate con appelli alla disciplina. Che pure è cosa seria in un partito degno di questo nome. Ma se, da un lato, alla lunga, è indifendibile il comportamento di chi, spesso, in parlamento non si conforma alla posizione del gruppo PD, dall’altro, non si può dare torto a chi, dal fronte delle minoranze, fa notare come, nella dinamica interna al partito, non vi siano luoghi e strumenti per fare valere posizioni diverse da quella della maggioranza (o addirittura del leader) e semmai si premi il trasformismo dei renziani della seconda, della terza, della quarta ora.

Se le cose stanno così, non è blasfema l’idea di ragionare sull’ipotesi di una separazione consensuale, a valle della responsabile presa d’atto di differenze incolmabili dentro un medesimo partito. Non escludendo, anzi positivamente considerando, la prospettiva di una futura alleanza tra una formazione di centro (il PD renziano) e una sinistra di governo, al modo del centro-sinistra storico, tra Dc e Psi. Naturalmente, costa a me, prodiano-ulivista, rassegnarmi a un centro-sinistra con il trattino che a suo tempo avversai. Ma mi devo arrendere alla dura realtà delle cose. Del resto, gli ulivisti proprio perché avversavano il trattino (cioè operavano per un partito di centrosinistra), avevano due avversari da battere: contrastavano certo l’egemonismo Ds ma anche le derive centriste dei Popolari prima e dei Rutelli e dei Marini poi, dentro la Margherita. Una deriva che ora è del PD renziano. Gli ulivisti erano per il bipolarismo, per una sana democrazia competitiva, dopo mezzo secolo di democrazia bloccata. Un PD che occupasse largamente il centro cui si oppongano solo due schieramenti populisti privi di vocazione-cultura di governo (capeggiati da Grillo e Salvini) ci farebbe regredire alla casella numero 1. Cioè a una democrazia dimidiata, priva di una plausibile alternanza. Un PD non più posizionato davvero sul centrosinistra nuocerebbe alla ricostituzione di un centrodestra competitivo nel quadro di un bipolarismo di coalizioni. Il solo possibile in Italia, a motivo della sua storia politico-culturale refrattaria al bipartitismo che ispira l’Italicum (concepito sul presupposto, già remoto, di un PD stabilmente al 40 %). Ecco perché sarebbe saggio rimettere mano all’Italicum ripristinando il premio di coalizione. Chi si ostinasse a non comprenderlo forse cambierebbe idea una volta appurato che l’autosufficienza del PD è velleitaria e che la prospettiva di un ballottaggio tra fronte renziano e fronte del TCR (=tutti contro Renzi) rappresenterebbe un azzardo. Tutte le rilevazioni attestano che Renzi raccoglie il consenso di un terzo circa degli italiani. Con la personalizzazione spinta della competizione (acuita da una personalità politica come Renzi, che polarizza e divide tra accesi sostenitori e irriducibili antipatizzanti) non è da escludere che gli altri due terzi possano convergere nel voto pur di sconfiggerlo. Non una prospettiva rassicurante.

Chiudo. Non sono sicuro che la separazione sia la soluzione migliore, sono invece sicuro che sia sbagliato escluderla pregiudizialmente condannandosi a una convivenza malmostosa e a una endemica conflittualità permanente. Sulla base di due riflessi condizionati: di una fallace presunzione di onnipotenza da parte della maggioranza e, da parte della minoranza, di una ossessione unitarista originata dal fantasma del vecchio vizio frazionista della sinistra. E magari anche dal mito del partito come “casa mia” (così Bersani e Speranza), dalla retorica del partito-comunità di cui si rinviene curiosa traccia persino nelle polemiche lettere di Staino e Cuperlo. Per me, il partito non è comunità, ma associazione a fine politico. Esso serve se serve e sinché serve a una politica nella quale ci si riconosce. Un mezzo, non un fine. Non tanto paradossalmente, a un vecchio cattolico riesce più facile stabilire con il partito un rapporto decisamente più laico.

 

Franco Monaco

 

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