Serve un piano della Repubblica per il lavoro

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Contributo al convegno del prossimo 29 novembre

 

I dati che incombono sono due: non soltanto (dati 2013) 3.113.000 disoccupati (ex occupati, ex inattivi, disoccupati senza esperienza di lavoro), ma anche 4.670.000 lavoratori flessibili/precari (part time involontari, tempo determinato e collaboratori) che insieme rappresentano il 30% delle Forze di lavoro[1].

Dagli anni ‘70 manca una qualunque programmazione e coordinamento dell’iniziativa privata e pubblica. Mancano soprattutto piani direttamente finalizzati alla crescita dell’occupazione.

Le misure sin qui adottate per l’occupazione sembrano in realtà tangenti ed accessorie (liberalizzazioni, semplificazioni, ecc.) quanto illusorie (l’impulso senza fine al lavoro flessibile e precario, che dovrebbe dare il là alla crescita economica). Manca il cuore, lo sforzo imprenditivo dei poteri della Repubblica (accanto al Commissario per la spending review, qualche Enrico Mattei). Manca proprio il “piano che dia il massimo rendimento per la collettività” del Costituente Togliatti.

Vengono alla mente i vantaggi (in primo luogo la rapidità) della strada illustrata di recente da Luciano Gallino di “creazione diretta di occupazione da parte dello Stato”, con impegno forte delle autonomie territoriali e della stessa iniziativa economica privata.[2] Un programma tipo «datore di lavoro di ultima istanza», in settori ad alta intensità di lavoro e di immediata utilità sociale, potrebbe combattere efficacemente la disoccupazione, ma anche dare inizio a una revisione del modello di sviluppo, conferendo alla stessa iniziativa privata la sicurezza di approdi che non ha trovato nella libertà di mercato, dal desiderio di egemonia del primo decennio del nuovo secolo alla solitudine dei nostri giorni. Penso a un grande cantiere comunitario che l’autorità pubblica potrebbe avviare per progetti per la prevenzione e il contrasto del dissesto idrogeologico, la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la ristrutturazione degli ospedali pubblici, il rafforzamento dei servizi socio-educativi della prima infanzia, il recupero del patrimonio immobiliare pubblico da destinare a prima abitazione, l’incremento dell’efficienza energetica degli edifici pubblici, il recupero del patrimonio storico, ecc.

Ripresa dell’occupazione ed espansione dei redditi delle persone venendo incontro a grandi necessità sociali: non è questo “buon” sviluppo? In tal senso potremmo ben dire che è l’occupazione che genera sviluppo e non viceversa.

Oltretutto, programmi di creazione diretta di occupazione potrebbero benissimo integrare la stessa strada delle politiche fiscali (il bonus degli 80 euro) percorsa da questo Governo, se quest’ultimo non coltiva la speranza di miracolistiche ripercussioni sul ciclo economico ma la concepisce come una doverosa operazione di redistribuzione della ricchezza.

Coi numeri del lavoro italiano che mi sono permesso di ricordare e l’assenza di veri interventi per l’occupazione (per i vincoli europei? per pregiudizi ideologici?) può sembrare un rimedio spingere, invece che sul pedale del “diritto al lavoro”, su quello dell’assistenza (come potrebbe essere indotto a fare il disegno di legge delega in discussione al Senato, in tema di universalizzazione del campo di applicazione delle misure di sostegno a tutti coloro che non hanno un lavoro o finché non lo hanno trovato). Ma non sarebbe la “logica” virtuosa dei nostri Costituenti, che è invece quella di creare nuova occupazione.

Francamente, invece di arrampicarsi sugli specchi per dotare i nostri lavoratori precari di protezioni che non potranno mai eguagliare quelle dei lavoratori standard (e potrebbero addirittura comportare un saccheggio dei loro contributi, a fronte di prestazioni irrisorie), non è meglio cominciare finalmente a disboscare con serietà la selva delle nostre tipologie contrattuali?

I dati di flusso forniti dal Sistema delle Comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro segnalano con particolare efficacia l’abnorme sviluppo del lavoro atipico; esso è disastroso perché vanifica il diritto a una dignitosa retribuzione, costringe le generazioni più giovani ad una incerta vecchiaia, banalizza e squalifica il loro lavoro, reca danno alla loro dignità e libertà.

Dai dati del Ministero emerge che i rapporti di lavoro attivati nel primo semestre 2013 hanno riguardato per oltre il 77% contratti di lavoro temporanei. Prima del D.Lgs 276/2003 (Legge Maroni), che ha reso possibile la proliferazione dei contratti atipici creando inedite opportunità per le nostre imprese, le esigenze di lavoro temporaneo che si creavano nell’economia italiana venivano stimate attorno al 15% del totale. Stiamo scherzando col fuoco. Cosa vogliamo ancora di più?

Scherziamo col fuoco anche a proposito dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Questa barriera preventiva al licenziamento facile di singoli lavoratori ha un valore altamente simbolico sia per la “cultura” del ceto imprenditoriale sia nella percezione di tanti lavoratori, sia nella comune coscienza civile. La sua rimozione e specialmente spiegazioni e atteggiamenti sbrigativi in una materia così sensibile sarebbero stille di “lotta di classe” immesse scioccamente nelle vene della nostra società, in questo fiacco progredire della rivoluzione anti ideologica e nella crescita esponenziale delle nostre difficoltà di vita.

 

Domenico Cella

[1] Precisamente: 2.059.000 part time involontari, 2.229.000 dipendenti a tempo determinato,

382.000 collaboratori (Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro).

 

[2] Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa.

Einaudi, Torino, 2013.

 

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