Se sperare diventa difficile, in piazza San Pietro come tra i cattolici di base

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Che dire del Concilio, cinquant’anni dopo? E che dire di noi, della nostra Chiesa e del mondo del quale facciamo parte? E soprattutto: che dire del futuro che ci attende e che, in qualche misura non irrilevante, siamo chiamati a costruire? Tante speranze e tante ansie si affollano alla mente che quasi si vorrebbe non parlarne, rifugiarsi nel silenzio o nella distrazione. Ma non possiamo farlo, anche perché il Concilio (con la Costituzione e la Cittadinanza) è una delle tre stelle della nostra costellazione orientatrice e se la ignorassimo  saremmo perduti nel nostro cammino. Dunque proviamo a parlarne e, se possibile, apriamo una riflessione comune. Per parte mia comincerò riflettendo su due avvenimenti dei giorni scorsi.

La sera dell’11 ottobre scorso l’Azione Cattolica ha voluto ricordare quel giorno di cinquant’anni fa: la mattina si era aperto il Concilio e la sera si svolse quella fiaccolata in piazza san Pietro, che rimase sempre nel cuore dei fedeli e nella simpatia del mondo per l’imprevisto saluto che Papa Giovanni volle rivolgere dalla finestra.

Anche quest’anno una grande folla ha partecipato all’incontro promosso dall’ACI per ricordare “La Chiesa bella del Concilio” con gioia e speranza. E ancora il Papa si è affacciato, ricordando le “”parole indimenticabili, parole piene di poesia, di bontà, parole del cuore” di Giovanni XXIII.  Papa Benedetto ha ricordato che anche lui, cinquant’anni fa, era in piazza, confessando: “Eravamo felici e pieni di entusiasmo. Il grande Concilio era inaugurato. Eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste, con una nuova presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo”.

Ed ha aggiunto: “ Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi….  E qualche volta abbiamo pensato ‘il Signore dorme e ci ha dimenticato’.”

Nella sua spontaneità, il Papa ha sorpreso, e anche rattristato, molti dei presenti; ma bisogna dire che ha colpito con chiarezza il cuore del problema: oggi, a cinquant’anni dal Concilio, il coraggio e la speranza nella Chiesa sono messi a dura prova…

Può apparire strano, ma una considerazione analoga è emersa con chiarezza, un paio di settimane dopo, anche in un’assemblea di cattolici “di base” svoltasi nell’antica sede della comunità di San Paolo, a Roma. Commentavano l’ultimo numero di due periodici (Adista e Micromega) dedicati al cinquantesimo anniversario del Concilio. E mettevano in luce quanta distanza ci separi da allora e quanto sia difficile il dialogo tra le istituzioni della Chiesa cattolica e larghi strati dei credenti. E anche lì, in un contesto diversissimo da piazza San Pietro, molte voci confessavano come la speranza sia affievolita. A chi sottolineava “le colpe degli altri” (in questo caso della Chiesa gerarchica) Vito Mancuso ha ricordato che oggi tutti siamo colpevoli, o almeno responsabili, perché abbiamo poca speranza, poca fiducia che la realtà possa cambiare. Non solo la Chiesa, ma tutta la società ha perduto la speranza. Abbiamo tutti perso capacità di rinnovamento e di utopia. La vera, profonda difficoltà è quella di ritrovare  “il coraggio di sperare oggi”, di essere capaci di sostenere la plausibilità degli ideali!

La strada per riuscire a vivere la speranza nella vita quotidiana sta, credo, nel superamento dell’individualismo e nella riconquista di una autentica dimensione comunitaria. Padre Bartolomeo Sorge ha avuto il coraggio di dire: “Manca nella Chiesa un vero dialogo … perciò al posto della parresia evangelica crescono nella Chiesa il silenzio e il disinteresse dei fedeli. Non parla più nessuno …” (su Famiglia Cristiana del 15 ottobre).  La Chiesa potrebbe ritrovare  la strada della speranza se l’individualismo (che si esprime anche nell’autoisolamento della Gerarchia) lascerà posto ad una visione cordiale e fiduciosa che si esprime nella vera vita comunitaria: fraternità, dialogo, corresponsabilità.

Mi pare che sia stato  il cardinale Suenens che, di fronte al coraggio e alla capacità profetica che  la Chiesa seppe dimostrare in Concilio, riconobbe spiritosamente che “bisogna essere in molti per essere intelligenti”! Si può solo auspicare che, facendo il bilancio di cinquant’anni di postconcilio, la Chiesa sappia darsi una forma meno verticale e più orizzontale, più comunitaria e meno gerarchica.

La riforma conciliare che ha fatto più strada è stata quella liturgica anche perché fu creato un Consilum ad exequendam  (un organismo collettivo per metterla in pratica). Forse è giunto il tempo che a Roma e nelle diocesi si crei un organismo collegiale dove vescovi, preti, religiosi e laici lavorino per mettere in pratica tutto il Concilio. È proprio il Concilio che ha indicato la necessità di un “aggiornamento” in relazione alla situazione via via mutevole del mondo e alle necessità degli uomini. È questa, e non l’immobilità a-temporale, l’autentica fedeltà al Vangelo. Ma questo compito chiede grande speranza e grande coraggio ed ha bisogno delle energie di tutto popolo di Dio. Solo così, e non in maniera separata, isolata, la gerarchia potrà svolgere il suo compito.

Rileggevo in questi giorni il primo numero di Concilium (la rivista internazionale che nacque nel 1965 per sostenere il rinnovamento conciliare): ci sono articoli di Congar, Rahner, Schillebeeckx… e Ratzinger (proprio sulla collegialità). E pensavo come sarebbe bello se in ogni diocesi, forse in ogni parrocchia, e accanto ad ogni conferenza episcopale, nascesse un Consilium ad exequendum Concilium (!). Certo: le decisioni e le norme più esplicite del Vaticano II sono già state eseguite; ma c’è ancora molto da fare, da capire e da mettere in pratica. Soprattutto serve riprendere uno stile di coralità e una realtà di comunione, di dialogo e di carità reciproca. Se ci fosse più dialogo nella Chiesa, forse anche ci sarebbe più coraggio, più gioia e più speranza.

(a.bert.)

One Comment

  1. Più che condivisibile. A questo riguardo mi torna alla mente l’ “Appello ai Pastori” che Lazzati poneva al termine del suo libro “Per una nuova maturità del laicato” e che è tutt’ora di rilevante importanza. Invito tutti a rileggere quell’umile, accorato appello che è restato disatteso e il cui accoglimento avrebbe probabilmente evitato al paese la triste esperienza odierna.

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