Ritrovare il tempo e la comunità smarrita

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“Riflessioni notturne, a latere di un viaggio nel cuore dell’Europa, prima dell’Apocalisse”. Così il sottotitolo di questo articolo, frutto di un recente viaggio di studio a Bruxelles, promosso dalla Cisl della Toscana e dall’Istel (Istituto di studi toscani di economia e del lavoro), nell’ambito di un percorso formativo per quadri sindacali. L’autore è membro del Centro Studi Nazionale che la Cisl ha a Firenze

 

  1. Chi deve interpretare il tempo che resta per ritrovare una bussola nella comunità smarrita?

A latere di un viaggio “sindacale” nel cuore dell’Europa, mentre in televisione o dagli schermi dei nostri smartphone osserviamo i missili occidentali delineare una possibile nuova “guerra umanitaria”, è questa la domanda notturna che risuona, analizzando quella che Aldo Bonomi ha definito, riecheggiando Baumann, “liquefazione spaziale”.

Questa perdita della solidità e relazione si ritrova anche a cospetto della rilevante perdita di capacità culturali, organizzative e normative, di trasformare il lavoro, nelle sue varie e non sempre catalogabili forme ipermoderne, in soggettività collettiva attiva e solidale[1].

Lo sguardo, in particolare se si rivolge all’Europa strappata di questo tempo, rimane sospeso nelle “vicissitudini dell’io”, ripetuto nazione per nazione, incapace di rielaborare, uscendo da sé, un noi inclusivo, in cui riconoscersi, essere riconosciuto e, infine, riconoscere.

Ci perdiamo, naufraghiamo come singoli e collettività, nell’incapacità di ritrovarci, pensiamo a costruire nuovi recinti, nuove illusorie e falsamente rassicuranti comunità chiuse, a volte le trasformiamo, persino in “comunità maledette”[2], nonostante il monito che le guerre “fratricide” dei Balcani avrebbero dovuto imperituramente lasciarci.

Nella gassosità delle relazioni liquide, ma anche nel tempo di una globalizzazione supersonica, l’Unione Europea e i suoi popoli sembrano aver perso sia il concetto del tempo che quello dello spazio, continuiamo a intuire quando sia importante “appartenere”, ma siamo orfani della prossimità che si fa sguardo condiviso e d’orizzonte.

Stiamo assistendo in tutta Europa a un nuovo populismo nazionalista in cui i conflitti sono sempre meno “compensati” nelle istituzioni, e sempre più “riportati” nelle “piazze” (reali e, soprattutto, virtuali) dei singoli stati.

Le prospettive sono preoccupanti, poiché dal populismo nazionalista stiamo assistendo al rafforzamento di partiti ancor più iper razzisti come registrato nelle recenti elezioni ungheresi dell’aprile di quest’anno, in cui si è rafforzata l’estrema destra rispetto alla destra nazionalista al governo del premier Orban, peraltro esponente del Partito Popolare Europeo.

L’Europa è stretta tra “Troika” e trionfo dei meccanismi intergovernativi, timidamente “pentita” delle politiche dell’austerity, grazie al per ora fragile percorso del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali. L’Ue appare del tutto inesistente in politica estera o nella gestione del fenomeno migratorio e ancora “matrigna”, dal punto di vista economico e sociale, a causa degli echi delle politiche imposte, a livello nazionale, da Bruxelles e Francoforte, nel pieno della crisi.

  1. Quale finalità politica? Disgregazione dell’Unione, superstato nazione continentale o costruzione di una nuova “città europea”?

La tragica e sempre più evidente mancanza di una voce comune sembra dare ragione a ciò che aveva anticipato ben quarantatré anni fa Denis de Rougemont, il mai troppo compianto federalista europeo scomparso nel 1985, in una prolusione all’Università di Bonn nel 1970.  Il filosofo e scrittore svizzero affermava:

“Se attribuiamo come finalità alla città europea di domani la “potenza” […] allora bisognerà creare un super-stato nazione continentale, uniformizzato, centralizzato ed aggressivo […] dobbiamo unificare con leggi inflessibili e subordinare la produzione industriale, senza riguardo per le diversità etniche e regionali, al solo imperativo dell’innalzamento del PNL, vera nuova torre di Babele del XXI secolo! Una politica europea di questo genere, semplice trasposizione della formula dello Stato-nazione su scala continentale, sarà capace senza dubbio alcuno di creare un’Europa molto forte, ma molto poco europea.”[3]

Come ha scritto recentemente uno studioso del federalismo europeo integrale, Lanfranco Nosi:

“Eccolo, alla fine, il vulnus originale, e che oggi sta per esplodere, come una ferita infetta mal curata: la trasposizione non solo della formula dello Stato-nazione, ma anche degli egoismi che lo Stato-nazione alimenta per la propria potenza nella costruzione europea. Fino a quando l’Europa è stata quindi “benigna” nel produrre i suoi effetti, e quindi mantenere e soddisfare i singoli egoismi, espressi nelle istituzioni dai rappresentanti dei governi e dall’inanità dei vari parlamentari sedicenti “europei”, il problema non si è posto. Ma la cosiddetta “crisi economica” – forse epifenomeno di altra crisi ben più profonda – ha fatto sì che l’espressione degli egoismi abbia scelto un ritorno alla dimensione “nazionale”, per esprimersi più compiutamente.[4]

In conseguenza di ciò anche lo storico disegno di un’Europa delle Regioni vede una crisi di prospettiva e di senso, peraltro nel pieno dei negoziati sulla programmazione finanziaria 2021-2027 e del dibattito sul futuro del Bilancio dell’Ue e della ripartizione delle risorse di coesione nell’Unione Europea[5].

 

  1. L’alternativa tra nazionalismo e federalismo, tra potenza e libertà.

Sempre Lanfranco Nosi, su “Linkiesta” ha ricordato l’alternativa di fondo che lo stesso De Rougemont poneva: quella tra potenza e libertà.

Si trattava, per lo studioso svizzero, di ripartire da una nuova gerarchia delle finalità politiche e delle finalità dell’Europa, e su queste costruire – senza distruggere tutto quello che comunque di buono è stato fatto – la nuova “città europea”.

Scriveva De Rougemont: “Se attribuiamo come finalità alla città europea la libertà, ossia le più ampie possibilità di realizzazione per le persone, di partecipazione dei cittadini e dell’autonomia delle comunità […] allora bisogna riconoscere che lo Stato-nazione non solo è un modello superato, ma che di fatto oggi è incompatibile con i fini dell’Europa e della libertà.” (5)

La vicenda catalana e l’afasia dell’Europa, anche in un contesto molto complesso come quello del conflitto con lo stato centrale spagnolo, avrebbe dovuto aprire delle contraddizioni che certo non avrebbero legittimato nuovi micronazionalismi regionali, ma avrebbero permesso una messa in discussione dell’illusorio recupero di centralità dello stato nazionale, su qualunque scala esso venga considerato[6].

Il populismo di Stato, radicale o fintamente moderato, come quello dello stato centrale spagnolo, si trasmette e trasforma corrosivamente come un cancro nel rancore montante all’interno della società europea.

Cerchiamo illusoriamente, come ha scritto Marco Revelli[7], un “Noi certificato”, dove la domanda di sicurezze identitarie si confronta con la pratica delle esperienze plurime e precarie e della disseminazione e scomposizione valoriale, senza comprendere che la libertà, quella stessa libertà citata decenni fa da De Rougemont, non è distanza o dominio, ma relazione.

Ovviamente questa illusoria esaltazione identitaria non si ferma alla dimensione europea, ma si infrange con la dimensione globale della mondializzazione e del confronto/scontro con culture “altre”.

Ha scritto Luce Irigaray:[8] “L’altro in quanto tale è stato escluso dalla costruzione della cultura occidentale, il cui scopo principale è stato di permettere all’uomo di differenziarsi da una origine materna assimilata al mondo naturale. E’ attraverso il dominio della sua appartenenza naturale che l’uomo ha cercato di affermarsi, anzitutto, grazie a un partenariato con i suoi simili. L’altro come altro non aveva parte in questa cultura, se non in modo comparativo, che spesso era anche un modo competitivo e conflittuale fra simili più o meno anziani, più o meno ricchi, più o meno capaci di padroneggiare il mondo vivente e di renderlo appropriato all’uomo.

Di una tale cultura percepiamo oggi i limiti sul versante della verità e dell’etica, sia sul versante del pericolo che rappresenta per la vita umana e quella dell’insieme dell’universo vivente. La nostra epoca multiculturale ci apre anche prospettive su altre civiltà (…)”

Risuona fortissima, come conseguenza, l’immagine del ritorno all’indietro della Brexit (sancita da un sofferto voto popolare), con la conseguente scomposizione della relazione con l’Europa in semplice area di libero scambio soprattutto per le “cose”, le “merci” e non per le persone, della (Comunità), per ora, Unione Europea.

E’ in questa deriva che si può leggere il successo della campagna della Brexit e delle ridiscussione dei rapporti tra Gran Bretagna e Unione Europea proprio come mero rapporto tra aree commerciali di libero scambio, anche se non si possono dimenticare altri referendum che, molto prima, avevano sancito il distacco tra progetto europeo e popoli europei: si pensi ai referendum francese e olandese del 2004 sul progetto di Costituzione Europea.

La Comunità europea, come testimoniato dal nome originario, era nata, certo, anche su basi economiche, ma è stata costruita soprattutto con altre “finalità” di fondo: in primis la pace, da uomini di frontiera, dal tessuto di relazioni di tante piccole comunità, non più in lotta, ma alla ricerca di legami e relazioni nuove.

 

  1. Frontiere dell’Europa, frontiere nell’Europa. Santi e diplomazie “minori”.

Normalmente a questo punto si citano i grandi “ri-costruttori” dell’Europa, provenienti da terre di frontiera: da De Gasperi a Schumann, ad Adenauer, a cui io non posso non aggiungere Alexander Langer, ma, come ci insegna la storia del sindacato, non dobbiamo dimenticare anche i cosiddetti “santi minori”.

Si pensi, per esempio, a due grandi figure, indimenticabili eppure, almeno parzialmente, dimenticate, uomini di pace, con cui, in particolare con la seconda, ho avuto occasione di confrontarmi, ascoltare, imparare, ammirare, mutare lo sguardo: Umberto Serafini (1916-2005) e Gianfranco Martini (1925-2012).

Umberto Serafini, padre fondatore del Consiglio dei Comuni (e poi anche delle Regioni) d’Europa, è stato un alfiere fondamentale della costruzione europea, ispiratore e realizzatore del contributo sempre più rilevante portato dagli enti locali e regionali alla costruzione di un’Europa unita e federale. Contribuì, insieme ad Altiero Spinelli ed Alexandre Marc, a guidare quel “fronte democratico europeo”, di cui oggi avvertiamo forte la mancanza, che si batté duramente e con successo nella lotta per l’elezione popolare diretta del Parlamento europeo, avvenuta per la prima volta, dopo lunghe e complesse mobilitazioni, nel 1979[9].

Gianfranco Martini, uno dei più ironici e piacevoli dirigenti “sociali” che io abbia mai conosciuto, ci ha regalato una vita fatta di impegni internazionali nel segno della costruzione dell’Europa dal basso, popolare, non nazionalista. “Anima” della creazione della rete, durante la tragedia dei Balcani, delle “Ambasciate della democrazia locale”, sorte anche in reazione all’inerzia dell’Unione Europea e degli stati nazionali europei, ha sempre creduto in una visione dell’Europa nello stesso momento alta (riforma delle istituzioni) e bassa (l’Europa delle città, dei cittadini, della società civile)[10].

Non è un caso che uno dei suoi grandi crucci (e allo stesso tempo sogni), fosse la questione di Cipro, frontiera anche religiosa e culturale, isola nel pieno del Mediterraneo che ci ricorda come l’Europa non è una monade isolata, ma è inserita in un contesto ben più ampio.

Serafini e Martini hanno creduto, fin dalla fine degli anni quaranta, nella politica del gemellaggio tra comuni e regioni in Europa, che, al di là degli aspetti più folcloristici, è stato uno dei punti di forza di questa visione politica d’insieme. I gemellaggi, sono stati, infatti, anche nel periodo della guerra fredda, uno straordinario mezzo concreto per costruire una rete di solidarietà e di pace, quella pace per cui, anche se forse lo abbiamo dimenticato, l’Unione Europea ha ricevuto il Premio Nobel.

Fu Gianfranco Martini a ispirare il titolo della mia tesi di laurea: “la diplomazia dell’Europa minore”.  Fu una tesi scritta sul campo, tra la sabbia e le mine non ancora bonificate, incontrando ferite, spesso, non ancora ricucite. Il pensiero non può che tornare soprattutto a Prijedor, a quello che era stato soprannominato, per gli eccidi nella vecchia miniera di ferro, il “buco nero d’Europa”, la “comunità maledetta”, nella repubblica serba di Bosnia. Terra in cui anche la “cooperazione di comunità italiana”, soprattutto trentina ha, per molti anni, insieme alla società civile bosniaca che reagiva ai vari rigurgiti neo-nazionalisti, saputo dare il meglio di sé, mostrando come la cooperazione internazionale, non sia un percorso finito, ma semplicemente da rigenerare e ripensare.

I gemellaggi e poi, con un’esperienza allargata alla società civile, al sindacato, al terzo settore, le Ambasciate (ora Agenzie) della democrazia locale, hanno rappresentato e, in parte, ancora rappresentano una vera forma di diplomazia popolare espressa nell’Unione Europea[11], un segno originale di speranza e futuro, che si deve, soprattutto, alla grande intuizione di Gianfranco Martini.

 

  1. Quali proposte? Persona e comunità prima dello Stato: tornare a Maritain, per una prospettiva sociale costituente

Quali risposte l’uomo, ma anche la politica, il sindacato, possono provare a dare per ritrovare una “comunità europea operante”, ritrovata, la comunità che “viene”?

Echeggiando Jacques Maritain, pensando proprio a figure come Umberto Serafini e Gianfranco Martini, all’esserci prima di persona e comunità, rispetto ad uno Stato totalizzante, quanto residuale nelle contraddizioni della globalizzazione,[12], torna alla mente ciò che aveva affermato, ormai venti anni fa, Danilo Dolci in un dialogo con Aldo Bonomi, ospitato dalla rivista Communitas[13] e pubblicato a dieci anni dalla sua scomparsa: “per esistere, nell’iper modernità che avanza, nel dislivello temporale che incombe, l’essere con ha bisogno di testimonianza”.

Di durata nelle persone che la animano, non dell’istantaneo di una politica priva di visione, prigioniera delle tende fragili dell’eterno presente.

Di tempo sedimentato e di vite investite responsabilmente.

Ci dice Dolci, ormai arrivato alla fine della sua lunga, incredibile, bellissima vita, che, in questa scomposizione, dobbiamo diffidare “degli uomini in fuga, delle presenze effimere”.

Allora la dimensione comunitaria, oggi più di ieri, ha bisogno dell’incontro reale, dell’ascolto del “tu”, della rinuncia all’autoaffermazione unidirezionale dell’Io.

“Fare comunità” vuol dire “fare relazione”: è questa la lezione smarrita del progetto europeo, stretto tra disgregazione interna e costruzione di muri nazionali e continentali verso l’esterno.

“Il migliore produttore di comunità – concludeva Danilo Dolci, coerente con la sua pedagogia rivoluzionante e realmente socratica – è chi domanda, non chi insegna, o dirige”.

Occorre quindi ricominciare a domandare, a cercare radici e orizzonte di senso in questa Europa smarrita e lo deve fare anche il sindacato, ad ogni livello: regionale, nazionale, europeo, poiché la crisi democratica, istituzionale, politica, economica e sociale dell’Europa, lo ha dimostrato la crisi, sono strettamente intrecciate.

Dobbiamo riguadagnare, nella terra del presente: tempo, spazio e futuro.

Scrivevo, alcuni anni fa, in un volume collettaneo che aveva lo scopo di riaprire la discussione sull’Europa:[14]il presente non è solo immanente: è fragile e attraversato dalla paura. Non possiamo però rassegnarci a smettere di ricercare, in questa quotidiana incertezza, quell’ostinata speranza che ha permesso, in tempi altrettanto difficili, di promuovere, con l’apporto fondamentale di organismi e associazioni collettive come il sindacato, la costruzione di una società, allo stesso tempo, più libera e più giusta”.

Fu anche in reazione alla crisi petrolifera del 1973 che, nel 1984, il Parlamento Europeo approvava a larghissima maggioranza il Progetto di trattato di Unione Europea, noto anche come “Progetto Spinelli”, dal nome del suo relatore e maggiore, ma non solitario artefice.

Spinelli elaborò il suo progetto per rispondere a una grave crisi economica, sociale, politica e istituzionale che investiva l’Europa appunto dopo lo schock petrolifero del 1973, sfruttando la nuova legittimità democratica acquisita dal Parlamento Europeo, eletto per la prima volta a suffragio universale diretto nel 1979.

Non è un caso che egli avesse tra i più feroci avversari Margareth Thatcher, alfiere, allo stesso tempo, del nazionalismo e del liberismo più spinti, di quella disintermediazione dalla società, di cui ancora paghiamo oggi le conseguenze e che ha indebolito fortemente l’Europa proprio nell’affrontare la crisi globale.

Ricostruire comunità aperte e inclusive, nel villaggio globale, l’Europa che viene.

E’ questa la sfida che accomuna presente e futuro.

Le crisi, anche quelle di sistema, possono rappresentare elementi propulsivi per decisioni e mobilitazioni non ordinarie. Anche il sindacato, divenendo cerniera delle necessarie alleanze, deve fare la propria parte per rilanciare l’impossibile: una prospettiva sociale costituente della società e dell’Unione europea.

La Cisl, infine, non può non ricordare, come bene ha fatto in occasione dell’anniversario dei Trattati di Roma[15], i propri valori costitutivi che non sono solo europeisti, ma federalisti europei.

Tra i punti promossi non va dimenticata l’idea, da studiare e concretizzare, di un’indennità di base europea rispetto alla disoccupazione e un percorso, certamente graduale, di mutualizzazione continentale del debito, irrinunciabile in un futuro stato federale.

Un’altra proposta di visione è affiancare a programmi importantissimi come Erasmus un vero “servizio civile obbligatorio europeo”, da svolgere anche in stati diversi da quello di provenienza, al fine di rafforzare la dimensione europea della cittadinanza, a partire dalle giovani generazioni.

I giovani europei devono, infatti, poter spendere le proprie aspirazioni e competenze in un mercato del lavoro inclusivo e senza frontiere, ma non senza regole.

Si tratta di rilanciare una vera e propria “proposta sociale costituente”, una “società federalista”, che viene prima delle istituzioni e che ne costituisce le fondamenta.

Viviamo in un tempo, in cui anche la contrattazione, insieme alla sindacalizzazione, non può che ricercare strumenti e pratiche per superare le frontiere nazionali e costruire nuovi equilibri e nuovi rapporti di forza.

I lavoratori transfrontalieri, così come quelli distaccati a livello transnazionale e i lavoratori delle multinazionali (catene di fornitura comprese) sono le “persone” concrete, le figure-ponte su cui, per primi, il sindacato può e deve sperimentare il decisivo superamento della dimensione nazionale.

Il sindacato regionale, nazionale, europeo, mondiale può e deve costruire alleanze, anche con la società civile e i consumatori, per costruire e rafforzare comunità inclusive del lavoro europee e globali, pur nel complesso quadro di una globalizzazione e di un’economia competitive e non cooperative, dove la guerra fra “poveri” e la competizione al ribasso sui diritti e la libertà associativa rischiano di ampliare, invece che superare, l’economia dello scarto neoliberista alimentando un illusorio e rancoroso nazionalismo di ritorno anche sui luoghi del lavoro.

E’ necessario, certamente, far conoscere alla base, ai delegati, ai dirigenti il sindacato europeo e mondiale, ma è ancor più importante comprendere la dimensione europea e globale dell’agire sindacale quotidiano, parafrasando una definizione cara al mondo ambientalista: “agire localmente, pensare globalmente”.

Risvegliamo le nostre coscienze, mettiamo in campo la concretezza dell’agire sindacale.

 

  1. “Città nuova intorno alla fontana antica”

La costruzione europea, non può sopravvivere trascinando un generico e stanco europeismo di maniera, cui, è ampiamente dimostrato, le persone, a partire dai ceti popolari, dopo la crisi e le formule sbagliate nell’affrontarla, non credono più.

Tornando all’immagine iniziale della “città europea” di De Rougemont, può essere utile prendere a prestito una frase di Giorgio La Pira, rilanciata, negli anni ottanta dello scorso secolo, dal vescovo della Pace: Don Tonino Bello[16].

Riferendosi alla costruzione di una: “città nuova intorno alla fontana antica”, Don Tonino Bello si riferiva, in un passaggio di una sua relazione, ai “credenti”.  Noi possiamo parafrasare il pensiero del sacerdote pugliese e tradurre con: “coloro che credono ancora nella costruzione europea come costruzione di Pace”.

Per fare ciò, ricordava don Tonino, è necessario rimuovere alcune pietre: il profitto (lo costruzione europea come percorso esclusivamente economico), il potere (inteso come super stato burocratico o somma degli egoismi nazionali), la tentazione del prodigio (le promesse mancate nella costruzione europea, alimento, insieme al crescere delle disuguaglianze, del rancore nazionalista di ritorno).

Unire l’Europa, la società europea, prima ancora che le istituzioni, significa, invece, ci ricorderebbe Don Tonino Bello, riappropriarsi di altre pietre miliari: la Parola, la Profezia, il Progetto.

Tutto ciò può avvenire riscoprendo un metodo: lo indica Papa Francesco nella prefazione a libro “Potere e Denaro” di Michele Zanzucchi, usando il verbo “coscientizzare”, caro a Paulo Freire.[17]

Occorre impegnarci a sviluppare, sulla scia delle parole di Papa Bergoglio, anche nel rilancio della costruzione sociale e istituzionale (e perché no spirituale) europea, un metodo che, pur proveniente dall’America Latina, è adatto anche al continente e all’epoca delle “passioni tristi”: “vedere, giudicare e agire”.

Questa grande opera è anche compito del sindacato, strumento di cambiamento e relazione, organismo di “cerniera” sociale, non solo sui luoghi di lavoro, non solo nella, ormai stretta, dimensione nazionale.

Prima dell’Apocalisse.

Francesco Lauria

Centro Studi Nazionale Cisl Firenze

 

 

 

 

[1] Si veda, a mero titolo di esempio, la controversa sentenza del Tribunale di Torino dell’11 aprile 2018 sul caso dei fattori di Foodora e le reazioni suscitate nel mondo accademico, politico e sindacale.

[2] A. Bonomi, La comunità maledetta. Viaggio nella coscienza di luogo. Edizioni di Comunità, 2002.

[3] D. De Rougemont, La città europea, in id., L’uno e il diverso, Edizioni Lavoro, 1995

[4] Si veda: http://www.linkiesta.it/it/blog-post/2013/05/25/il-polemista-del-federalismo-integrale/16639/

[5] Si questo tema si veda l’interessante serie di pubblicazione nate dalla collaborazione tra Centro Studi sul Federalismo e Istituto Affari Internazionali, ed, in particolare, il recente quaderno di ricerca a cura di Fabrizio Barca: “Politica di coesione, tre messe”, Aprile 2018 scaricabile all’indirizzo: http://www.csfederalismo.it/images/CSF-IAI_QFP/CSF-IAI_RP_FBarca_PoliticadiCoesioneQFP_Aprile2018.pdf

[6] Si legga con attenzione l’illuminante contributo di Michele Nardelli e Federico Zampini, apparso sul Corriere del Trentino del 25 novembre 2017: Autonomia, quel cambio di sguardo che serve all’Europa.  http://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4011

[7] M. Revelli, Poveri, noi. Einaudi, 2010.

[8] L. Irigaray, “Amare l’altro come altro”, in R. Prandini, G. Cavazza, a cura di: “Il potere dell’amore nella globalizzazione”, il Melangolo, 2011.

[9] Su Serafini, tra i molti scritti si legga il profilo biografico contenuto in: http://ildomaniditalia.eu/article/umberto-serafini-fine-intellettuale-appassionato-federalista-europeo-indimenticabile

[10] Si veda F. Lauria, La diplomazia dell’Europa minore. Il caso delle Agenzie della Democrazia Locale in Bosnia-Erzegovina, Università di Trieste, 2004.

[11] Le “Agenzie della Democrazia Locale” confluite nell’ALDA (Associazione per la democrazia locale) sono tuttora attive, si veda il sito internet: http://www.alda-europe.eu/newSite/

[12] Torniamo a leggere, non solo a citare Jacques Maritain, si veda per esempio: J. Maritain, La persona e il bene comune, Morcelliana, 2009.

[13] Communitas, N°20, Dialoghi sulla comunità.

[14] F. Lauria, L’Europa e la scomparsa di futuro.  Ritrovare il tempo nella crisi della rappresentanza sociale e della democrazia, in A. Cortesi (a cura di) Europa in discussione, Nerbini, 2015.

[15] Si legga integralmente il manifesto in dieci punti: https://www.cisl.it/primo-piano/5267-trattati-di-roma-il-manifesto-cisl-in-dieci-punti-per-costruire-un-europa-economica-e-sociale.html

[16] Si veda: Pensieri di pace. Una città nuova intorno alla fontana antica, Edizioni Insieme, 2003.

[17] M. Zanzucchi, Potere e denaro. La giustizia sociale secondo Bergoglio, Città Nuova, 2018.

One Comment

  1. Caro Francesco, ho letto e molto apprezzato le tue riflessioni. Grazie. Claudio Stanzani

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