Riforma costituzionale e dialettica democratica

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La questione della riforma del Senato sta agitando le acque nel Pd. E’ uno dei sintomi della complessità della stagione politica che si è aperta. Il peccato d’origine di questa situazione mi pare sia stata la decisione di Renzi di investire sulla questione della riforma costituzionale un capitale personale di credibilità, in modo rischiosamente diretto e massiccio. La sua ansia di risultati a costo finanziario accettabile (dato che sulle questioni di governo della crisi i suoi margini di azione sono così risicati)  l’ha portato a scegliere la materia delle modifiche alla costituzione per ottenere la conferma della propria immagine decisionista e fattiva. Ma il presidente del Consiglio e il governo hanno sottovalutato in questo modo alcuni aspetti piuttosto importanti. Primo: la materia costituzionale è difficilmente definibile come prerogativa dell’esecutivo, anzi. Prevede una chiara autonomia del potere legislativo, che è problematico superare di slancio. Secondo: la questione specifica della riforma del Senato – checché si sia detto – non era che genericamente coperta dal mandato dell’elezione diretta del segretario del Pd o da qualsivoglia consenso ottenuto in seconda battuta, quale quello delle recenti elezioni. Terzo: il Partito democratico continua ad avere al suo interno una dialettica irrisolta, tanto che la decisione della nuova maggioranza non ha coinciso con le posizioni prevalenti nel gruppo parlamentare (di elezione pre-renziana), mentre il richiamo di antiche prese di posizione del partito non riusciva a trovare un terreno solido comune. Infatti, l’unico punto generalmente condiviso sembra essere il superamento del bicameralismo perfetto, mentre tutte le altre dimensioni della riforma potevano essere – e sono oggettivamente state – oggetto di controversia (l’attribuzione al Senato della regolazione delle autonomie, più che non la tutela delle garanzie; la riduzione del numero dei membri; l’elettività diretta o di secondo grado). Quarto: il testo presentato e in qualche modo imposto dal governo per la discussione parlamentare si è rivelato in prima battuta molto poco felice, tanto che si è aperto un processo dialettico di revisione anche nella stessa area della maggioranza. Quinto: la stucchevole accentuazione retorica della questione del risparmio dei costi ha impedito una discussione più costruttiva sulla logica con cui assestare un’inedita forma democratica per la seconda camera.

Di fronte a questa complicata situazione, la sostituzione in commissione Affari costituzionali dei senatori Chiti e Mineo (contrari al progetto) per garantire la maggioranza, è apparsa una forzatura del processo di elaborazione democratica. I sostenitori del governo hanno difeso la legittimità formale del provvedimento, dato che il regolamento del Senato prevede tale fattispecie, a tutela del ruolo dei gruppi parlamentari nelle commissioni. La decisione non sarebbe quindi criticabile appellandosi al margine di autonomia personale del parlamentare, garantito dall’art. 67 della costituzione. Ma il dato formale copre a malapena l’elemento sostanziale, in cui la fretta del risultato impone una forzatura alla dialettica democratica. Renzi ha ancora ieri elevato i toni, ammonendo che nessun senatore può usare forme di ricatto, di fronte all’imperativo delle riforme. Di fronte a questo passaggio, si può discutere della reazione della minoranza, cioè della decisione di un cospicuo gruppetto di 14 senatori di autosospendersi dal gruppo parlamentare (si noti che non si tratta di personaggi in cerca di un quarto d’ora di notorietà, ma in parecchi casi di personalità responsabili e qualificate). La mossa è stata criticata perché avrebbe eccessivamente elevato l’asticella del confronto, chiamando in causa appunto una questione di principio democratico, e in questo modo impedendo la continuazione del processo di miglioramento del testo in gioco. Ma è facile ribaltare l’accusa: se era in corso una ricerca di confronto, la sostituzione dei componenti democratici della commissione non è certo stata un gesto distensivo.

In termini sostanziali, la proposta Chiti, alternativa a quella del governo, ha parecchi spunti interessanti: non appare un mero ostacolo messo di traverso sulla strada delle riforme. Era quindi assolutamente auspicabile sviluppare un confronto che riuscisse a superare le contrapposizioni, per recuperare alcuni margini di contaminazione possibile dei due progetti. Era in effetti una strada che si era iniziata: la fretta auto-imposta di chiudere con un risultato (quale che fosse), ha ora reso molto più arduo il processo. Dal muro contro muro sarà probabilmente difficile uscire.

 

Guido Formigoni

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  1. Caro Guido sono sostanzialmente d’accordo con tutte le tue considerazioni che fai nel merito della questione. Sulla riforma del Senato, su cui il premier ha investito un “capitale personale di credibilità” forse eccessivo, tante cose possono essere dette. Aggiungo, a quanto già scrivi tu, le mie.
    La prima è il disegno complessivo della riforma proposta dal governo: quale è l’orientamento di fondo? A cosa servirà questa seconda Camera? A dare consigli, e pareri? Ad approvare leggi? Alle nomine di alto livello istituzionale (Presidente della Repubblica? Corte costituzionale?). Francamente non può bastare il pensiero che impone una revisione così profonda del nostro impianto istituzionale solo per ragioni di costi: diminuiamo il numero dei senatori (e facciamoli lavorare gratis…), evitiamo la duplicazione di attività, rivediamone le funzioni riducendole, e avremmo ottenuto un risparmio. Di quanto, poi? Davvero è questo il punto principale, o non è piuttosto il funzionamento complessivo del nostro impianto legislativo? Certo, il bicameralismo perfetto è stato più volte una sorta di palla al piede (non, però, quando una delle due Camere “scivola” su qualche approvazione – diciamo così – ardita, a cui l’altra poi rimedia in corsa, vedi il caso sulla Responsabilità civile dei magistrati), ma nella vulgata popolare si sta procedendo con il machete perché il Senato ci costa, è una specie di ente inutile, un pezzo di quella casta che si vuole contrastare e abolire. Ma di questo passo perché non tagliare anche gli altri? E poi magari anche un altro pezzo di democrazia?
    E poi cosa c’entrano, ci si domanda, sindaci e rappresentati comunali in un nuovo Senato “light”, che nel nome della rappresentanza territoriale dovrebbe dar spazio ai corpi intermedi sì, alle regioni come comunità più ampie di interessi, ma non fino a spingersi con il rappresentare città e comuni che – spesso – vivono questioni e problemi molto differenti anche a pochi chilometri di distanza? Per conto di quale disegno complessivo li si fa convivere all’interno di un progetto nazionale come il nuovo Senato?
    Ecco ci sono questioni forse ancora da chiarire. Che – si legge – sono state ampiamente dibattute da lunghe e numerose assemblee dei parlamentari Pd e da due direzioni. Hanno prodotto un voto, hanno prodotto una linea del partito (espressione che sembrava desueta ed abbandonata all’insegna del ciascuno per sé.) e un progetto portato in Commissione.
    Eppure mi chiedo, in maniera forse un po’ ingenua, ma da praticante la vita democratica di associazioni e partiti e non solo da cultore appassionato: fino a che punto può estendersi quella “continuazione del processo di miglioramento del testo in gioco” di cui parli? Ossia: qual è il livello ultimo di articolazione del dibattito e di confronto finalizzato alla ricerca di una posizione condivisa a cui bisogna arrivare e che, però, alla fine determina una necessaria conclusione che porta alla decisione sulla proposta finale?
    Non ho dubbi che i 14 senatori siano persone serie e in buona fede. Ma sono convinto anche che sotto l’invocata tutela dell’art 67 della Costituzione che garantisce la libertà di mandato al singolo parlamentare, la libertà di coscienza non c’entri davvero nulla. Entra in gioco sui grandi valori morali ed etici, e la riforma di un pezzo, pur importante, del nostro impianto istituzionale non mi sembra sia tra queste.
    La questione di fondo, mia pare sia questa: cos’è un partito, cosa rappresenta, se un sostanzioso e importante pezzo di esso, nelle prove più decisive, si tira indietro e non fa squadra, non decide più con una visione unica? Se espulsione, sostituzione, autosospensione, accantonamento, ci sembrano parole che lasciano intendere meccanismi poco democratici, allora penso che si debba guardare al percorso che ha determinato queste scelte dall’alto. Ossia: si è discusso a sufficienza per arrivare a quella decisione? Si è dato la parola a tutti? Si è arrivati ad un voto legittimo e trasparente? La minoranza sconfitta (e non per pochi voti) ha avuto modi e tempi per esprimere – sempre – il proprio parere? Se sì, a mio avviso la decisione presa non può che essere una e condivisa anche obtorto collo da chi non è d’accordo. Altrimenti è finito tutto, non esistono più i partiti e si va verso l’insieme di singole figure – anche brave, chi lo nega – ma ingovernabili e il cui mandato, svincolato come da Costituzione, sarebbe solo l’espressione normativa delle proprie scelte e dei propri desideri. A molti brucia ancora la vicenda dei famosi 101 che hanno determinato la bocciatura della candidatura Prodi alla Presidenza della Repubblica. E sono ferite che non si rimarginano facilmente.
    Ora si ripropone la questione, sebbene con profili notevolmente diversi.
    Ma la domanda di fondo rimane la stessa: cosa è un partito? A che serve, come ci si comporta al suo interno, con quali regole e quali visioni? Se lo riteniamo uno strumento superato, o da correggere con meccanismi finora sconosciuti e molto problematici (vedi democrazia della rete…), diciamolo, scontriamoci, discutiamone.
    Ma per il momento facciamo vivere quelli che ci sono e difendiamoli. Altrimenti questo disastrato Paese non solo non vedrà mai le riforme (ostacoli e nemici che si pongono di traverso, sono dietro l’angolo in tutti i settori), ma, peggio, arretrerà in una progressiva esasperazione di particolarismi che – anche se spesso ammantati di buona fede – non produrranno alcun effetto positivo.
    Condivido infine con te la necessità di “recuperare alcuni margini di contaminazione possibile dei due progetti.” Sono ottimista, e alcuni recentissimi segnali danno speranza. Penso però che non si tratti di “fretta auto-imposta di chiudere con un risultato (quale che fosse)”, ma della necessità di dare ai processi democratici di confronto e di discussione un orizzonte concreto di fattibilità. Altrimenti così, credo, si rischia di alimentare – sotto mentite spoglie – “un muro contro muro” dal quale sarà probabilmente difficile uscire, e in più ogni singolo protagonista sentirà gratificato e tutelato.

    Vittorio Sammarco

    • Caro Vittorio,

      due osservazioni solo sul metodo. Certo che un partito deve esprimere una linea. Ma il punto è che queste difficoltà sono spesso segnale della mancanza di tutti quei passaggi ordinari che farebbero un partito funzionante, come comunità di persone che ha fini comuni e regole condivise per arrivarci. Tutti segnali di debolezza di un partito vero. In proposito: prima di sostituire i membri del partito in commissione, qualcuno ha avviato un dialogo con loro per chiedere di ripensare alla loro posizione ed eventualmente di fare un passo indietro? Un partito è – dovrebbe essere – una cosa seria, non un gioco a chi esercita il comando! Quanto dell’inqualificabile vicenda dei 101 è stata anche – non solo, naturalmente – frutto di una procedura affrettata nell’arrivare ad acclamare la candidatura di Prodi senza una verifica in sede di partito, cambiando tra l’altro improvvisamente linea dopo il primo fallimento?

      E poi, non sottovalutare la questione della libertà personale. Un partito serio non può che vivere della molteplicità di persone serie e con la schiena diritta che lo compongono: un partito di yesmen non va lontano… E’ naturalmente sempre un problema di contemperare esigenze diverse, ma è un valore inestimabile che talvolta ci sia il confronto aspro, piuttosto che la piatta unanimità!

    • Non ho qui spazio e tempo per replicare in modo approfondito ad Armillei.
      Ma mi limito ad osservare alcuni elementi per precisare il dissenso:
      1. Uno spazio per articolare e differenziare politica costituzionale e politica governativa non solo è necessario, secondo tutte le dottrine costituzionali (che io mi limito ad echeggiare non essendo né un costituzionalista né un giurista), ma è testimoniato come vitale da tutti i momenti migliori della storia della Repubblica. Non capisco molto gli esempi contrari portati da Armillei. Inviterei invece ad esempio a pensare a come proprio un tale lo spazio di differenziazione permise di gestire la delicatissima “guerra civile fredda” della prima parte della storia repubblicana, integrando progressivamente i comunisti nelle istituzioni anche se erano esclusi dal governo.
      2. Il concetto di “democrazia governante” (non per caso) non mi è mai piaciuto nella sua assolutezza. Che il mandato di Renzi sia legato politicamente a questo concetto, non lo rende affatto più preciso e stringente, ma semmai più generale. E comunque la discrasia tra il mandato a Renzi e l’attuale situazione parlamentare non è frutto di altro che dell’accelerazione (forse necessaria, non so) compiuta dal suddetto. A prescindere da ogni soggettivismo, comunque, a me pare che il principale problema attuale non sia affatto evitare i diritti di veto di piccole minoranze, ma salvaguardare e aggiornare un sistema di controlli e contrappesi, proprio perché il ciclo politico degli ultimi trent’anni ha condotto in vario modo – sia politicamente che giuridicamente – a rafforzare moltissimo gli esecutivi. Altro che “non mi lasciano governare”… questo mi pare uno dei mantra più ingiustificabili del tempo presente.
      3. Quanto all’esistenza di una dialettica nei partiti e nelle maggioranze, siccome spero che la democrazia governante invocata da Armillei non coincida con la sua necessaria soppressione per decreto, mi pare che il problema sia esattamente contemperare il funzionamento più ricco possibile del processo di confronto con l’affermazione dello spazio e del tempo della decisione, collocata nella sua opportuna dimensione (istituzionale e anche “temporale”). Rispetto alla vicenda di cui discutiamo, mi pare che su questo punto non si sia cercata la sintesi migliore (almeno per gli elementi conoscitivi che abbiamo): non so distribuire le responsabilità con il bilancino, ma ho l’impressione che ce ne siano a carico anche di chi guida il governo.

  2. Scusate, ma mi sembra che la questione vada riposta nei suoi binari più pragmatici. L’intervista di Elia e Scoppola a Dossetti e Lazzati ci dice che il bicameralismo nacque in modo ab origine non convincente in termini istituzionali per ragioni di garanzia politica reciproca, fatte valere in modo allora motivato dal Presidente del Consiglio (e leader di partito) DeGasperi. Una soluzione tecnicamente sbagliata per ragioni politiche giuste. Dopo decenni di dibattito quello che già a Mortati appariva un “inutile doppione” e a Dossetti “un garantismo eccessivo” viene ripreso in mano da Renzi con la sua maggioranza e con l’opposizione che ci sta. Dove sta il problema? In sé non esiste, non certo al punto di motivare critiche con retoriche sui principi della Costituzione o sull’invadenza del Governo. Nel dettaglio ovviamente c’era qualche carenza, specie l’aggiornamento della platea per l’elezione del Presidente della Repubblica e un eccesso di rappresentanza dei comuni rispetto alle regioni dato che il Senato serve come luogo di confronto tra legislatori. Ma l’eccesso di critiche di principio ha allontanato la discussione sui difetti da emendare.

  3. Non condivido minimamente le critiche alla riforma del Senato: gli oppositori contestano
    la natura elettiva del Senato;non più’ eletto direttamente dai cittadini ed espressione delle
    autonomie locali. La ragione dell’opposizione e’ una sola: i senatori-oppositori rischiano
    di perdere in prospettiva il loro mandato; una minoranza di miracolati,che non hanno
    nessun rapporto con gli elettori e con i militanti del PD.
    E’ tutta qui la questione: ragionate in un mondo senza rapporto con la realtà’ dei cittadini
    e delle comunità’ locali!

  4. L’unica cosa su cui sono d’accordo con Guido è l’opportunità di un approfondimento. Per il resto mi sembra che l’opposizione interna al PD come al solito non ha dimostrato un comportamento adeguato. Su Mineo non si può non essere che totalmente d’accordo con Renzi; è un singolo che col suo comportamento non consente alla riforma di procedere. Comportamento del tutto scorretto e altrettanto inaccetabile. Nel gruppo dei senatori ci sono state infinite discussioni dunque è bene che anche Mineo segua la maggioranza. Chiti può avere ottime idee di merito (chiedo scusa di non averle lette), ma presentare una proposta di legge alternativa mi sembra qualcosa che vada al di là della disciplina di partito. Rimane il fatto che la grande obiezione è la non elettività dei senatori, il vero punto discriminante. Se il Senato è elettivo rimaniamo nel sistema bicamerale, che è quello che si vuole superare. Contrariamente a Guido, io penso che Renzi faccia bene a procedere deciso e questa minoranza di “sinistra” del PD è purtoppo rimasta indietro e è spesso una palla al piede. Da quella cultura oggi viene veramente poco, non c’è più spinta propulsiva, ma solo distinguo, riserve, rimpianti, resistenze.

  5. Nell’immaginario collettivo, (anche percentualmente parlando) il “fenomeno” Renzi funziona. Per ora. Come ha funzionato, a suo tempo, quello Berlusconi. Entrambi hanno saputo convincere di essere “nuovi” prima ancora che innovatori; entrambi hanno avuto il loro exploit in momenti particolarmente travagliatici e caotici per il Paese. Quando il Paese cercava disperatamente il “diverso da prima”. Si potrebbe osservare che anche De Gasperi seppe conquistare la fiducia degli italiani in un periodo non meno difficile e caotico. Ma capisco che proporre un confronto rischierebbe di suonare irriverente.
    Quanto durerà il “renzismo”, ben tratteggiato da Marc Lazar su Il Mulino online? Difficile dirlo con gli elementi a disposizione. Quanto durerà dentro il PD? Ancor più difficile dirlo. Renzi non ha un concetto di partito “costituzionale”, né di partito come storicamente declinato. Se mi è concesso attingere al gergo ecclesiastico, dirò che, a mio avviso, Renzi mutua ampiamente il suo modello di partito da quello di “Prelatura personale”. Da qui discende l’insofferenza per chi oltre ad esprimere osa sostenere idee diverse dalle sue e che, a suo avviso, intralciano o quantomeno rallentano l’attività del supremo manovratore. Se questo è vero, risulta utile, ma forse non così essenziale, domandarsi fino a che punto può estendersi quella ‘continuazione del processo di miglioramento del testo in gioco’. Non avendo, fino ad oggi, rispettato alcuna delle scadenze alle quali aveva legato le annunciate riforme istituzionali, mi sembrerebbe che il fattore tempo, la velocità e l’accelerazione appartengono più al piano della comunicazione (nel quale l’attuale Presidente del Consiglio è maestro) che a quello della realizzazione. Del resto la quantità e l’eterogeneità degli interventi annunciati dal giorno della sua nomina a capo del Governo sono tali che pochi sono in grado di accorgersi se, come e quali di essi vengono realmente realizzati. Anche per questo il “fenomeno” Renzi funziona. Per ora.
    Se mi è concessa qualche ulteriore battuta, vorrei condividere la seguente domanda: ci sono elementi sufficienti per affermare che Renzi è portatore e sta quindi perseguendo un progetto complessivo e coerente per provare a togliere il Paese dalle secche nelle quali l’ha trovato? Esiste, almeno sul piano economico, una sorta di “Renzinomics”? I diversi interventi annunciati dal Presidente del Consiglio sono tessere di un puzzle di cui è nota l’immagine che dovranno comporre, o sono belle tessere di un puzzle a fondo bianco?
    Condivido Guido Formigoni quando afferma che sulle questioni di governo della crisi i margini di azione dei Renzi sono risicati. Ma osservo che il tourbillon di annunci vuol far credere il contrario. E gli italiani ci stanno credendo. Ma se così fosse, il “fenomeno” Renzi rischierebbe di aver ancorato le sue fortune ad una sorta di ottundimento collettivo se non di addormentamento della ragione (forse per sublimare la paura in speranza). Ma il sonno della ragione, genera mostri.
    Anche a seguito di queste dinamiche mi sembra opportuno ribadire l’importanza e l’attualità del contributo che può venire dal cattolicesimo democratico. Che tradirebbe se stesso se si contentasse di sostenere il contrasto ai privilegi e l’efficientamento della macchina pubblica che il Governo Renzi porta avanti, seppur con interventi poco coordinati tra loro. “Prendere spunto dalla radicalità della crisi attuale per ripensare strutturalmente i modelli di sviluppo”, come ha ricordato qualche giorno fa Guido Formigoni, peraltro in piena sintonia con il messaggio di Papa Francesco, mi sembra un compito al quale siamo chiamati dalla nostra storia. E del quale, non solo nel Governo Renzi, ma in tutta l’unione europea fatico a trovare traccia.

    Augusto Airoldi

  6. caro Guido e cari amici,
    nemmeno io sono senza problemi circa, per esempio, la non eleggibilità del Senato e la Costituzionalità dell’innovazione. Tuttavia, sono stata deputata e credo che, per convalidare l’opzione monocamerale, valga ricordare che la legge contro la violenza sessuale – che non costava una lira allo Stato (spostava il reato di stupro dall’indecente reato contro la morale a “reato contro la persona”) e soddisfaceva) almeno il 52 % dell’elettorato (e inoltre gli uomini perbene) – richiese 20 anni e 7 legislature. Meglio dire no una volta e ripresentare la legge.

  7. Prendo la parola con timore reverenziale, dato il livello di chi mi ha preceduto, a partire da Guido Formigoni che fa parte dei miei punti di riferimento.
    Da semplice cittadino, estraneo alle stanze della politica, ritengo che l’art. 67 della Costituzione non si limita a tutelare la “libertà di coscienza” (espressione che mi ricorda le sofferte decisioni sulle questioni “eticamente sensibili”), ma affermi il principio generale che la sovranità popolare è delegata a persone determinate, in carne ed ossa, con la loro identità personale e politica, fatta di una propria capacità di valutare problemi e situazioni e di interpretare il bene comune, di una propria visione della realtà del paese; la norma dice anche che ogni parlamentare “rappresenta la Nazione”. E questo rapporto tra popolo sovrano e suoi rappresentanti non deve essere eccessivamente alterato dalla interposizione dei partiti, cioè di quelle strutture associative la cui legittimazione nasce dal rispetto dell’art. 49 Cost. (… con metodo democratico …!) e che per la loro pervasività continuano ad alimentare un diffuso sentimento “antipartito”. Una delle principali critiche al Porcellum è costituita dalla soppressione del voto di preferenza, che ha di fatto reso i parlamentari non più i destinatari primari della delega elettorale, ma – all’estremo – dei “pupi”, delle semplici comparse, delle figure intercambiabili, che devono interpretare al meglio gli orientamenti dei vertici dei partiti: legittimati, questi, dal “voto al leader”.
    La vicenda Mineo + 14 tocca anche questo problema (per me più importante della riforma del Senato), che resterà probabilmente senza una risposta adeguata, visto che le dirigenze dei partiti non hanno avuto il coraggio di privarsi dell’enorme potere che il Porcellum ha loro conferito.
    Infine: quanto più si dà prevalenza – in sede di legge elettorale – alla governabilità piuttosto che alla rappresentanza (che viene prima, perchè senza rappresentanza non c’è democrazia), tanto più la presenza di una seconda camera risulta utile ad evitare colpi di mano di una maggioranza parlamentare che potrebbe non corrispondere alla maggioranza del paese.
    Tutti questi problemi vanno insieme. Ne va di mezzo la democrazia.

    Condivido la critica al “mantra” del risparmio di spesa: la democrazia costa, ed è faticosa. Se vogliamo processi decisionali più rapidi e meno costosi, rinunciamo alla democrazia parlamentare. Possiamo affidarci ad un sito web.

  8. E’ difficile aggiungere qualcosa al ricco e lucidissimo testo di Armillei (alle cui argomentazioni Guido Formigoni non ha finora replicato). Ma qualcosa si può ancora dire su tre punti:
    1. Non è affatto vero che la riforma del Senato sia stata sostenuta dal governo e da Renzi solo con “la stucchevole accentuazione retorica della questione del risparmio dei costi”. La motivazione principale fornita è sempre stata (fin dal programma per le primarie 2012) quella di abbreviare i tempi di decisione del Parlamento. E si è anche detto a più riprese (io l’ho sentito dire da Padoan e da Morando, oltre che da un testimone ‘neutrale’ come Tito Boeri) che dalla capacità di velocizzare la nostra attività parlamentare, realizzando le riforme istituzionali, dipende il credito che gli investitori esteri ci daranno in futuro, con tutte le conseguenze sul lavoro nel nostro paese. Stupisce che uno studioso come Formigoni fornisca una versione così semplificatoria di un punto cruciale dell’azione del governo (inducendo ad esempio in errore il lettore Leonardi)
    2. Uno dei motivi per cui la proposta Chiti è veramente “un mero ostacolo messo di traverso sulla strada delle riforme” è costituito dalla richiesta di dimezzamento dei membri della Camera. Ed ecco una notizia: anche Renzi aveva proposto, nel programma delle primarie 2012, una riduzione dei membri della Camera. Se poi ha lasciato perdere è presumibile dipenda dalla considerazione seguente: dato che modificare una soltanto delle due camere si rivela così complicato, intervenire su entrambe rimanderebbe la decisione alle calende greche (allo stato 35 senatori sono pubblicamente contrari alla riforma del Senato proposta, pensate a quanti sarebbero i deputati contrari a una riduzione dei membri della Camera…)
    3. E qui veniamo all’ultimo punto: vedere nell’azione di Renzi soltanto la “fretta del risultato”, come se tutto dipendesse solo da un dato caratteriale o da una convenienza politica del presidente del Consiglio significa essere ciechi di fronte al contesto drammatico della situazione economica e sociale del paese, di fronte ai giovani e ai padri di famiglia senza lavoro. Anche per questo “la continuazione del processo di miglioramento del testo” (dopo decine di ore già svolte di discussione, come hanno ricordato Boschi e Speranza) deve avere dei limiti. Può darsi che Renzi voglia anche o solo una “conferma della propria immagine decisionista e fattiva”, ma forse – prima di scrivere giudizi così drastici e ingenerosi – occorrerebbe fermarsi un attimo a pensare quale sia il bene del paese, chi lo sta cercando e chi no.

    • Ad Armillei provo a rispondere in un altro post.
      A proposito di approccio “drastico e ingeneroso”, invidio la sua certezza su chi pensa al bene del paese e mi spaventa la sua categoricità a questo proposito.

      Nella sostanza, non siamo d’accordo su alcune cose:
      1. Sono convinto che il problema della “velocità nelle decisioni” sia un falso problema. Il problema vero è prendere decisioni appropriate ed efficaci. Ad esempio oggi non soffriamo di poca legislazione, ma di troppe leggi, perché il parlamento ne sforna di continuo, spesso a colpi di fiducia. Ma molte volte sono farraginose, contorte, difficili da applicare. Un po’ più di attenzione non guasterebbe affatto. O vogliamo parlare del destino di riforme costituzionali approvate “velocemente” negli ultimi anni? E comunque sarò contentissimo se qualche investitore straniero sceglierà l’Italia perché il Senato sarà stato riformato. Dubito molto però che possa succedere, suvvia…
      2. Sulla riduzione dei deputati non capisco perché sarebbe stato un elemento di debolezza, anzi! Avrebbe rafforzato il messaggio. Mi pare che comunque la discussione non sia solo sui numeri, ma sulle funzioni e sui ruoli del Senato. La proposta Chiti insiste su questi aspetti, legittimamente, oltre che sulla questione dell’elezione.
      3. Non vedo il collegamento tra riforma del senato e situazione drammatica del paese. Se il governo avesse accelerato in modo analogo su iniziative per contrastare la crisi, l’orizzonte sarebbe ben diverso! Il mio ragionamento partiva proprio da questo punto. Purtroppo dobbiamo essere coscienti che su questo vero e fondamentale terreno, ci sono pochi mezzi e (forse) altrettanto poche idee. Non certo per colpa solo di Renzi, ci mancherebbe.

  9. 1, Segnalo a Guido questo mio contributo sui decreti:
    http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0466_ceccanti.pdf
    il punto è che manca al governo una corsia preferenziale vera, di conseguenza l Govenro usa i decreti; quando si passa all’esame parlamentare i decreti lievitano mostruosamente perché ogni pezzetto di maggioranza in asse con varie lobbies le carica n modo abnorme. In questo senso c’è un problema di velocità, tant’è che nel ddl del Governo c’è il voto a data fissa bilanciato da limiti ai decreti.
    2, Sulla questione degli investimenti stranieri la cosa è verissima, ma in questo senso preciso, non generico: la seconda Camera rappresentativa dei legislatori regionali previene i conflitti davanti alla Corte con i quali per anni non si sa se in un territorio regionale vige la legge statale o quella regionale scoraggiando con questa incertezza e imprevedibilità i potenziali investitori.

  10. Sul rapporto riforme istituzionali/situazione economica, segnalo una recentissima opinione di Sergio Romano (“Il pianista e i pastori”, Corriere della Sera, 5.7.14), che si aggiunge – evidentemente secondo una modalità più generica e tecnicamente meno precisa, ma anche, mi sembra, con una portata più generale – all’ultima osservazione di Ceccanti. Eccola: “…capire che la fine del bicameralismo perfetto e una nuova legge elettorale non sono meno utili, per il futuro del Paese, di quanto siano altre riforme destinate a ridurre la spesa e il debito pubblico. Spesa e debito sono anche il risultato di un sistema in cui i tempi della politica sono infiniti e ogni decisione viene presa alla fine di una tortuosa via crucis costellata di patteggiamenti e compromessi”.
    Non molto dissimili erano le osservazioni che avevo sentito dal viceministro per l’economia Morando durante il City Act del 31.3.14 alla sala Alessi di Palazzo Marino. Se riuscirò a reperirne una versione scritta lo segnalerò.

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