Polonia, Stato di diritto, aborto

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  1. Un gioco di ricatti

È giusta indignazione quella che ha accomunato la grande maggioranza dei Paesi europei di fronte al blocco al bilancio dell’Unione, imposto da Polonia e Ungheria, proprio in un momento in cui sanità ed economia sono dappertutto prostrate a causa della pandemia. La mossa dei due governi è stata peraltro studiata abilmente, in modo da poter sfruttare l’eventuale ritiro del veto come merce di scambio per far cadere una clausola di un’altra delibera, assai imbarazzante per i paladini del “sovranismo”: quella che condiziona la corresponsione del “Recovery fund” (volto a fronteggiare le conseguenze socioeconomiche del coronavirus) al rispetto, da parte di ogni Paese beneficiario, dei princìpi dello Stato di diritto. È noto infatti che in questi anni proprio la Polonia e l’Ungheria, oltre a segnalarsi tra i più duri fautori di un’intransigente chiusura all’immigrazione, hanno via via ristretto, sino alla soppressione pressoché totale, buona parte di quanto costituisce appunto il corpo essenziale di quei principi, o, come si dice preferibilmente nel mondo, della rule of law: così per quanto concerne il principio del bilanciamento tra i poteri, e dunque la garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia dell’ordine giudiziario, nonché a proposito della libertà e dal pluralismo dei media.

A questo punto vengono spontanee anzitutto alcune considerazioni di ordine generale, anche se mettono in evidenza difficoltà e contraddizioni più che suscitare fiducia. Da un lato, certo, non si potrebbe accettare che il tutto si risolva in un compromesso al ribasso proprio in relazione a una delle architravi su cui si è retta l’idea stessa dell’Unione europea, come si ricava immediatamente dalla lettura dell’art. 2 del Trattato istitutivo.

D’altro canto, però, bisogna constatare che anche sotto questo profilo l’impianto di base dell’Unione si rivela troppo debole: logica vorrebbe infatti che quantomeno alle più gravi e persistenti violazioni di princìpi fondamentali come quelli che danno sostanza alla rule of law si potesse e si sapesse reagire direttamente, tempestivamente ed efficacemente, anzitutto non trascurando come via maestra il ricorso alla Corte europea di giustizia (quella che ha sede in Lussemburgo) e comunque senza affidarsi a vie tortuose come quella escogitata con la clausola di cui si è detto, che nel complesso incrocio dei meccanismi procedurali, e con l’accavallarsi di regole sull’unanimità e sulle maggioranze qualificate dei consensi, ha finito col prestarsi a un gioco reciproco dl ricatti.

Ma non sarà anche che una certa timidezza al riguardo ha, tra i sottaciuti presupposti, anche la consapevolezza del fatto che, pur senza raggiungere le dimensioni di violazioni cui si sono spinti i due Stati dell’Est europeo, nemmeno tutti gli altri Stati dell’Unione possono dirsi del tutto immuni da problemi di compatibilità con questa o quella componente della rule ofl law?  Non dicono nulla, tra le ultime, le recentissime vicende francesi a proposito della “loi de sécurité globale”?

 

2. Un’assimilazione forzata

C’è però anche un’altra considerazione da fare, più specifica e se vogliamo più eccentrica, ma a mio parere non meno inquietante. Riguarda la tendenza che sui media, anche nostrani, è subito venuta alla ribalta, facendo assurgere a dato indiscutibile una connessione tra il riferimento alla rule of law contenuto nella clausola in questione e la collera esplosa in Polonia a seguito della sentenza della Corte costituzionale che ha fortemente ristretto la liceità dell’aborto in quel Paese. Ed è ora lo stesso Parlamento europeo, in una formale risoluzione, a far propria tale tendenza.

Orbene, è innegabile che da un certo punto di vista la connessione esista. La sentenza in questione è invero frutto di una Corte in composizione del tutto alterata ad opera del Governo polacco: in palese spregio, appunto, di quell’indipendenza di cui i giudici, e a maggior ragione quelli supremi, devono godere, conformemente ai princìpi dello Stato di diritto, nei confronti di chi detiene il potere politico.

Le immagini delle proteste divampate in Polonia sono però state occasione, nel merito, di una semplificazione che non stupisce, in quanto riflette un modo ormai abituale di presentare certi problemi, ma che non può non preoccupare, anche a prescindere – e forse prescindere non si dovrebbe – dal fatto che le proteste siano sfociate in manifestazioni intolleranti o addirittura violente. Il “diritto all’aborto” viene descritto come diritto fondamentale e oggetto, nella massima estensione possibile, di un’assimilazione, senza “se” e senza “ma”, a quelli protetti in uno “Stato di diritto”; e a pensarla diversamente – ad ascoltare interviste, analisi e commenti di più di un telegiornale – sarebbero soltanto, in Italia come in Polonia e altrove, degli anacronistici “ultraconservatori”, cattolici o meno, fondamentalisti e tradizionalisti… E insieme si dà per scontato ciò che, almeno fino a ieri, scontato non era: ossia che la libertà di aborto sia menzionata, nei documenti normativi e giurisprudenziali, tra le irrinunciabili componenti di una “lista” di princìpi della rule of law, tuttora riconosciuta come credibile almeno negli Stati di cultura demoliberale.

 

3. Non lasciare un valore ai fondamentalisti e ai loro alleati

Personalmente so di non avere un bagaglio di notizie sufficienti per giudicare la legge polacca nei suoi dettagli e nel suo contesto. Tantomeno riesco a orientarmi nella geografia degli schieramenti politici, al di là di quanto sia difficilmente contestabile, e cioè che il partito al potere sia andato molto avanti sul cammino di un’involuzione illiberale e  autoritaria, denunciata persino dall’ex-presidente della Polonia e già indiscusso leader di “Solidarnosc”, Lech Walesa. Ho semmai presente, come tanti, il peso dell’influenza esercitata tuttora, in quella nazione, dalla gerarchia cattolica: con una larga parte della popolazione che ancora le si stringe vicino, memore dei meriti acquisiti dal clero anche nella resistenza alla dittatura comunista, ma con un’altra parte non più disposta ad accettare dei diktat, per quanto (anzi, forse specialmente se) direttamente o indirettamente riconducibili a veri o supposti imperativi religiosi trasposti poi, in varia misura, nelle leggi civili.

Aggiungo di essere convinto che la Chiesa universale debba ancora percorrere molta strada per affrontare nel modo più adeguato, alla luce del Vangelo, quei settori dell’area dell’etica, la cui problematicità si è cercato di liquidare con la formula dei valori “non negoziabili”, rispettabile e stimolante come appello a sensi non superficiali di responsabilità ma di per sé non risolutiva di tutte le questioni che concretamente si pongono; e fuorviante se tradotta nell’assolutezza di regole rigide cui obbedire a priori come vincolanti, oltreché per il comportamento dei singoli, per le scelte dei cattolici impegnati in politica e in particolare per quelle di chi sia chiamato ad esercitare il potere-dovere di governare e legiferare. Per nulla convinto che in quell’ambito sia necessario dimenticare i fondamenti di fede e di etica da cui ci si sente ispirati, ritengo che sia però indispensabile muovervisi nel più autentico e leale confronto e dialogo con tutti, compreso chi vive diverse e opposte ispirazioni ideali, religiose o meno, e sapendo che non è lecito imporre ad altri, attraverso le leggi, tipi di condotta che pur siano da considerare moralmente opportuni o addirittura vincolanti per se stessi.

Soprattutto mi auguro un sempre più netto distacco dall’abitudine a trattare un problema come quello dell’aborto nell’ottica esclusiva di un crimine da reprimere, canonicamente e civilmente, avendo per la donna che lo viva la sola considerazione che può aversi per il docile veicolo di una vita altrui: destinataria, dunque, soltanto di divieti e di scomuniche tra le più gravi. Passi in diversa direzione se ne sono fatti, prendendo corpo anche in qualche significativo gesto di Papa Francesco, pur giustamente fermissimo nel respingere le sollecitazioni ad autorizzare dei tranquillanti “laissez-faire” in argomento, ma non sordo ad angosciosi interrogativi. La strada mi sembra ancora lunga; e ritengo che non possa essere percorsa credibilmente se nel cammino non sarà visibile un coinvolgimento pieno ed effettivo del mondo femminile: l’unico, oltretutto, capace di esprimere fino in fondo tutta la gamma di “vissuti” quale comporta la prospettiva, e poi la realtà, di un’interruzione di gravidanza.

Attenzione, però, a non cedere alla deriva opposta, accettando come ineluttabile il progressivo avanzare di una mentalità troppo frettolosamente garantita come “liberal” e, più o meno consapevolmente, accodandovisi magari in nome di una versione spuria della cultura della mediazione. Mentalità che rischia di sedurre anche molti sinceri democratici del nostro Paese, inclusi non pochi tra quelli che non fanno mistero di una fede vissuta e dell’ispirazione cristiana quale base del loro impegno civile e politico.

Forse è pure a causa di questo che degli apprendisti autocrati e i loro sodali di casa nostra, sventolando più o meno sinceramente la bandiera della difesa di valori rivendicati come tradizionali, riescono a guadagnare consensi anche tra persone – credenti o non credenti – che non hanno nulla contro la rule of law e contro i fondamenti di una democrazia autenticamente liberale.

 

Mario Chiavario

 

 

 

 

 

 

 

One Comment

  1. importanti considerazioni da parte del vecchio amico Chiavario. Alle quali però aggiungerei un pensiero sull’eccessiva espansione della specie umana. La quale in 75 anni, cioè dalla fine della seconda guerra mondiale si è moltiplicata per 4, da circa 2 a circa 8 miliardi, e ha -almeno- moltiplicato per 4 i consumi procapite: insomma , ci stiamo mangiando il pianeta a un ritmo aumentato di 16 volte in meno di un secolo, e c’è quasi da pensare che l’attuale pandemia sia una reazione della natura all’eccessivo sviluppo di una specie dannosa…

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