Per favore non torniamo al partito delle tessere

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Lo sapevo, lo temevo. Nel Partito democratico si alza forte la voce di chi dice: “basta con le primarie!”. Osservazione che nasce, a mio avviso da tre premesse che, però, con il metodo contestato per la scelta del proprio leader, non mi sembra abbiano molti agganci.

Primo, nasce dallo scossone preso per un’aspettativa delusa: quella di vincere le elezioni con il leader scelto proprio con splendide e incoraggianti primarie per poi insediarsi alla guida del “governo di cambiamento” che questo Paese aspetta da tempo.

Secondo, la mancata fedeltà dei deputati in occasione delle elezioni presidenziali nella doppia scelta fatta dal gruppo dirigente, tradimento secondo alcuni attribuibile (ma qui la logica mi pare assai debole) al fatto che molti parlamentari, essendo scelti con le primarie, devono poi rispondere ai propri elettori che in quei giorni li hanno tempestati con messaggi istantanei grazie ai social network (seppure dovesse valere nel primo caso, la mancata elezione di Marini, non mi pare proprio sia valsa nel secondo con la proposta Prodi).

Terzo: un partito ha bisogno di una guida forte, scelta dai suoi iscritti e non ci si può fare condizionare da chi iscritto non è. Se proprio vogliamo fare le primarie – dicono i più tolleranti – facciamole per la scelta del candidato alla Presidenza del Consiglio, ma per il segretario, il coordinatore, il leader o come lo si voglia chiamare, intanto separiamolo dalla guida del governo, e poi facciamo che la scelta sia appannaggio di chi fa vita di partito e quegli ideali e quella struttura condivide fino a tesserarsi e partecipare alla vita interna.

Personalmente, ho sentito questo ragionamento più volte, perché ho fatto anche la precedente battaglia congressuale su questi temi, ma lo considero ormai superato dai tempi e destinato alla sconfitta.

Perché pensare il Partito come cosa “appartenente” a chi si iscrive è palesemente condannato dagli ultimi anni in cui la “fine di partito” (così il titolo di un libro recente di Marco Revelli) è solo il precipitato storico e sociale di una crisi forte di rappresentanza. Le organizzazioni strutturate, a tutti i livelli, se vogliono sopravvivere (ma anche solo vivere) suscitando un minimo di interesse in chi non ne fa parte, (e quindi, a maggior ragione, i partiti che in fatto di credibilità stanno a zero – e forse qualcosa di meno -), devono aprirsi, dialogare con chi si interessa di politica, di temi (di politiche, come ha sottolineato Letta), di singole istanze e prospettive, ma non per questo vuole iscriversi. Devono essere come spugne porose, non mattoni di cemento. Devono accogliere e rischiare di perdere, ragionare e convincere, accompagnare e indicare. La struttura rigida o ha un capo assoluto e un vertice assolutamente incontestabile (facile fare esempi), oppure non funziona, e la strada da scegliere è un’altra.

Ho spesso fatto questa domanda, raccogliendo però sorrisi beffardi: chi è più interessante, per un partito, chi fa vita, collabora, spende il suo tempo le sue energie le sue idee, magari solo su argomenti che gli interessano, e poi però non si iscrive, o chi paga il suo obolo, riceve il suo pezzo di carta, ma poi lo butta in un cassetto e se ne disinteressa, o, peggio, alla prima delusione lo brucia?

La risposta non è facile, lo so, perché viene spontaneo obiettare che nessuna ditta si fa scegliere il suo capo da quelli che simpatizzano per la ditta concorrente. Obiezione che ho sentito spesso e che però mi fa pensare che il fatto è che spesso non si riesce a capire che aria stia tirando…

In sintesi, forse estrema ma necessaria per non appesantire il ragionamento: il senso di appartenenza è sempre più debole per tutti; le appartenenze che si vivono nel corso della propria vita spesso sono multiple e distribuite su diversi fronti; il tempo e le risorse da dedicare alle organizzazioni strutturate e chiuse (che vivono l’appartenenza come un club esclusivo e riservato) sono poche; la democrazia non può sopravvivere senza la partecipazione del più ampio fronte possibile di cittadini. Ergo, che facciamo? Torniamo ai partiti delle tessere perché in molti casi le primarie hanno dato una prova di metodo non brillante? E già, ma poi non lamentiamoci dell’impetuoso successo di alcuni movimenti…

Altro discorso è ragionare su regole e sistemi trasparenti e sicuramente migliorabili per le primarie. Ma sarà una discussione che nasce bene solo se parte dal presupposto che le si voglia seriamente e le si consideri uno strumento positivo. Altrimenti, un’eventuale infiocchettatura di facciata sarebbe un inganno che l’elettore capirebbe e condannerebbe.

 

Vittorio Sammarco

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  1. Caro Vittorio,
    ho letto la tua lettera sulle primarie, condivido diversi tuoi passaggi, ma sono certo che con questa risposta sarò definito tifoso delle oligarchie e degli apparati. Se non innamorato delle èlite o della partitocrazia!
    Ma tu sai bene che non è così! Così come sai che credo nella indispensabilità del partito politico, e nel primato della politica quando viene intesa come “forma di carità cristiana” e di “servizio al prossimo”.
    Chiarito ciò, non è da ora che sostengo, in buona compagnia grazie a Dio, che fidarsi dalla società civile buona, contrapponendola a quella politica cattiva, è una strada piena di insidie per le sorti della democrazia politica.
    Così come puntare sulle primarie risolutrici, specie su quelle “aperte”, rappresenta secondo me giocare a tombola su un metodo che nella sua formale parvenza di democrazia ultrapartecipata, nasconde viceversa contraddizioni serie. Non escludendo l’indebolimento dell’idea di partito così come è sempre esistita nella storia e nella tradizione europea.
    La mia convinzione allora è che il partito politico in quanto organizzazione, in quanto associazione, deve avere una sua struttura riconoscibile, con i suoi organi di responsabilità politica individuabili.
    E qui nasce il primo dubbio perché a guardar bene le primarie non danno nessuna risposta a questa necessaria esigenza organizzativa. Tutto rimane nel transeunte: entro io ed esci tu perché così ha deciso “…il popolo”. E tutto viene racchiuso nella cultura della rottamazione, che come sai non mi appartiene, perché cosa molto diversa dalla rotazione delle cariche, dalle porte aperte per un fisiologico ricambio generazionale, permettendo così ai cittadini una volta associati di concorrere “…a determinare la politica nazionale”.
    Ma la domanda principale è ancora un’altra, e riguarda proprio la sorte del partito politico.
    Può l’uso ripetuto ( qualche vota truffaldino, spesso retorico, certamente enfatizzato ) delle primarie a tutti i livelli, far retrocedere il partito dietro le quinte dell’insignificanza e della inutilità ?
    A questa domanda mi sono spesso risposto che il rischio che corre il partito politico con le primarie aperte è proprio questo : l’inutilità!
    In America, patria delle primarie, il partito è superfluo! Non esiste. C’è solo nel voto periodico. Per la raccolta dei fondi e per le grandi cene . Ed è solo nelle mani delle potenti lobby.
    Temo allora che se non prendiamo le precauzioni opportune noi ci siamo vicini. Temo cioè che stiamo maturando l’idea che i partiti siano un pleonasmo. Che non siano cioè più necessari. Un sovrappiù della democrazia. Facendo in questo modo contento certo pensiero liberista di scuola austriaca, per il quale nessun soggetto collettivo – lo Stato, il partito politico, il Parlamento, la politica, la stessa famiglia – deve costituire argine al libero sprigionarsi delle azioni individuali e allo spontaneo equilibrio della società e del mercato.
    Succede però che quando si vive in società complesse come la nostra dove il capitalismo finanziario domina ormai indisturbato la scena sociale con la politica non più primato ma sua ancella servile, succede dicevo che il naturale pluralismo culturale, politico, economico, gli interessi e i valori, le attese e i bisogni diffusi non possono essere lasciati nelle mani dell’autodeterminazione e delle individuali e disperse intenzionalità. Né possono essere lasciati al caso delle primarie. Devono essere coordinati per prestarsi a sintesi politiche oggi difficili per i cui scopi occorrono sicure competenze e a volte padronanza di tecniche specialistiche e di meriti acquisiti sul campo con l’esperienza. Non è invocare professionismo politico il mio, ma più semplicemente consapevolezza di potere e sapere affrontare problemi difficili, politici ed economici, di una globalizzazione in pieno sviluppo, a fronte dei quali l’Europa politica rappresenta il primo passo. E io credo che il partito una volta che incanala una specifica domanda di cambiamento serva a questo. E a questo serve la sua classe dirigente. E aggiungo che oggi a questo servono anche i rappresentanti del popolo che eleggiamo al Parlamento.
    Occorrono dunque centri visibili e noti in cui specchiarsi. Soprattutto occorrono responsabili con competenze e conoscenze da mandare a casa quando si dimostrano incapaci. E se non vengo frainteso aggiungerei che occorrono professionisti dello stato moderno e della politica. Non è la “guida forte” né sentirsi proprietari del partito solo perché si ha la tessera, come tu dici bene, questo. Ma è un fare i conti con la complessità del fare politica in questi nostri tempi, segnati, ahimè, da un dilettantismo passionale che comincia a fare paura.
    Il resto lasciamolo all’improvvisazione. All’anarchia delle “Favola delle api” di Mandeville e al laissez-faire.
    Può l’antica democrazia diretta ateniese da sola dare risposte a queste domande ? Osservo solo che oggi la vogliamo caparbiamente recuperare e riproporre con pericoloso populismo piazzaiolo, con l’aiuto delle primarie 2.0, e del web inaffidabile: procedure e strumenti che con l’autentico scopo del ricambio e selezione della classe dirigente hanno poco da fare. E che possono essere complementari ma non sostitutivi di una vera democrazia delle responsabilità e delle competenze, senza dimenticare la democrazia dell’etica e del servizio al bene comune.
    Affidarsi per questi scopi, al caso, alla lotteria, a sconosciuti, lavandosi le mani come Pilato, mettersi nelle mani della “gente”, nei gazebo, nelle strade e nelle piazze, perché in fondo la democrazia rappresentativa ha bisogno della strada e della piazza, non è il migliore metodo per avere un partito leggero e trasparente. Ma è sicuramente il viatico per un partito-club, un partito-conviviale. Certamente un partito a tempo senza idee e progetto di futuro, trasformato in comitato elettorale una tantum. Senza nessuna esigenza di formazione permanente etica, culturale, sociale e politica di nuove leve, di militanti e simpatizzanti.
    Ma anche nella selezione al proprio interno di competenze e di meriti, “…con metodo democratico” ( come recita l’art.49 della nostra Costituzione) che certamente non è il metodo delle primarie.
    Le primarie potrebbero solo aiutare ma non sostituire le responsabilità della selezione della classe politica. Una selezione che sicuramente sarà aiutata da una buona legge elettorale che consenta all’elettore di esercitare il suo pieno e libero diritto di scelta con il voto.
    Un cordiale saluto, Nino Labate

  2. Caro Nino, sai bene che non metto in discussione l’utlità dei partiti per una democrazia vera. Solo che penso debbano saper ascoltare i tempi, per essere capaci di rispondere ad una crisi enorme, di legittimità, di convinzioni, di eticità, di desideri/obiettivi e di regole.
    Ma “mettersi nelle mani della gente”, come dici tu, non è la sostanza di ogni democrazia? Chiamarla al voto, a partecipare, ad esprimere le proprie scelte e indicazioni, non è “caso”, “lotteria” “partito-club”. E’ tutt’altro che “lavarsi le mani come Pilato”, è l’esatto contrario. Se non rischiamo “coinvolgendo”, non ce n’è più per nessuno. Formazione, selezione, art 49, norme per diritto di voto: per i cittadini che guardano con disprezzo i partiti, possono solo rappresentare trucchi per gestire sempre la cosa tra pochi addetti ai lavori. Dobbiamo far capire che non è più quel tempo. Bisogna fare inmodo che tutti ci mettano la faccia (noi Cristiano sociali abbiamo ripreso la parabola dei talenti, ognuno restituisca quello che ha e non pensi di sotterrarli solo perché ha paura…).
    Secondo me c’è solo un modo, credimi: aumentare la partecipazione, non diminuirla. Forse abbiamo attuato poco (e male) il criterio delle primarie. Dovremmo farne di più. Ma se non ci crediamo più d’accordo: facciamo pure che a fare politica sia solo chi ha intenzione di occuparsi del numero di tessere che riesce a portare al congresso. Per poi contarsi e contare…

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