L’ordine globale della diseguaglianza

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Pierre Carniti, in www.eguaglianzaeliberta.it – 25 febbraio 2012.

Dove stiamo andando/1 – Le cifre impressionanti dei divari fra mondo ricco e povero e fra Stati. Le teorie dei filosofi e le situazioni reali. E’ possibile pensare a una “giustizia globale? (Primo articolo di una serie)

La diseguaglianza

Non viviamo in un mondo giusto. Per di più non esistono istituzioni e progetti politici sufficientemente condivisi in grado di porvi rimedio. Persino sulla questione più dibattuta degli ultimi tempi: quella dei debiti sovrani, le diseguaglianze stanno diventando allarmanti. Non c’è bisogno delle parabole francescane e nemmeno della retorica del libro Cuore per rendersi conto che i poveri si comportano meglio dei ricchi. Basta dare una occhiata agli studi del Fondo Monetario Internazionale e prendere in considerazione la spaventosa somma del debito mondiale: quasi 40 mila miliardi di euro. Una fortuna immensa e pesantissima. Eppure inesistente. Dato che si tratta di soldi spesi, ma non disponibili. Il dato che balza agli occhi è che l’84 per cento del debito l’hanno contratto i paesi industrializzati. Vale a dire Europa, Stati Uniti e Giappone. Posti dove il debito raggiunge e supera quasi sempre il 100 per cento del Pil. In Africa, in Asia ed in altri paesi ai margini della ricchezza mondiale, invece il debito pubblico ammonta a circa un terzo del Pil (33 per cento). In soldoni i poveri hanno qualche chance di pagare i loro debiti. I ricchi no. Per  lo meno non tutti.

Eppure nel 2007 questo straordinario debito mondiale ammontava alla metà. Ciò significa che in particolare gli Stati ricchi hanno raddoppiato il ricorso al credito in pochissimi anni. Innescando una spirale che ora non si sa bene come bloccare. Cosa ha portato a questa situazione? Semplice. In primo luogo l’uso di ingenti risorse pubbliche per “socializzare le perdite” di chi aveva attivato la più gigantesca ed irresponsabile speculazione, salvando banche ed intermediari finanziari che su quei traffici avevano realizzato enormi profitti. Poi la convinzione di poter comunque contare su una crescita ininterrotta e costante, attraverso l’accaparramento del grosso delle risorse naturali esauribili e senza nessuna remora per le conseguenze in termini di inquinamento e cambiamento climatico.

Per riuscire a farvi fronte tutti hanno contratto nuovi debiti (in proposito la parola magica è: “rifinanziamento”) per pagare i debiti precedenti. Risultato: quando la crisi finanziaria è diventata (come c’era da aspettarsi) crisi dell’economia reale il meccanismo si è inceppato ed ora il problema non più è solo quello del debito accumulato, ma ad esso si somma quello dell’interesse sul debito, in un quadro di crescita rallentata e per alcuni addirittura negativa. Basti pensare che l’Italia spende per i soli interessi l’11 per cento delle sue entrate fiscali. La media europea è del 6,7 per cento. Che già non sarebbe poco.

Naturalmente avere dietro il debito uno Stato forte, capace di difendere la propria moneta non è un dettaglio. Lo dimostrano assai bene il Giappone (dove il rapporto tra debito e Pil è il più alto del mondo, addirittura il 233 per cento) e gli Stati Uniti (110 per cento). Mentre soffre moltissimo l’Unione Europea (88,6 per cento), dove la moneta unica deve fare i conti con oltre una ventina di piccole economie nazionali, legislazioni, politiche fiscali, sistemi bancari, sistemi politici tendenzialmente autarchici. Nel 2012 tra debiti statali e debiti bancari, l’Europa dovrà cavare dal portafoglio la bellezza di 1.900 miliardi. Che non ci sono. Perché chi ha la bilancia dei pagamenti in attivo non è disponibile a metterceli e chi l’ha invece in passivo non sa dove trovarli. Questo spiega perché l’euro e l’Europa sono seriamente a rischio di implosione.

Per affrontare con qualche possibilità di successo i nuovi problemi servirebbero istituzioni e progetti politici all’altezza delle sfide. Così come servirebbe una cultura politica sufficientemente persuasiva per dare una risposta alla questione della “giustizia globale”. Con la grande trasformazione geopolitica, seguita al collasso dell’edificio del socialismo reale nella sua versione sovietica e la fine della guerra fredda, nell’ultima manciata di anni del secolo scorso, il dibattito politico-culturale ha messo in luce il bisogno di una teoria della giustizia globale. Una teoria in grado di rispondere alla domanda di “un mondo più giusto”. Fondato cioè sul rispetto della libertà, la democrazia, i diritti umani, il miglioramento delle condizioni di vita, la riduzione delle diseguaglianze. In buona sostanza capace di misurarsi concretamente con l’ingiustizia della terra.

Questa necessità è rimasta però irrisolta. Sia sul piano della dottrina che, ed ancora di più, sul terreno della pratica politica. Sul piano teorico, perché è tutt’altro che chiaro che cosa la giustizia significhi su scala mondiale e poi che cosa la speranza di giustizia ci dovrebbe indurre a volere nella sfera delle istituzioni internazionali o globali. Così come per quanto riguarda le condotte politiche degli Stati che sono maggiormente in grado di influire sull’ordine mondiale. Per altro le questioni teoriche e normative sono strettamente connesse ai problemi pratici relativi alla via legittima da intraprendere per arrivare ad un governo del mondo. Tanto più  che tale questione riguarda istituzioni che in gran parte non esistono ancora. Mentre, seppure in modo imperfetto e persino sempre più insoddisfacente, lo Stato-nazione rimane tuttora la sede principale di legittimità politica. Questo spiega perché, quando ci troviamo di fronte al proposito od al tentativo di una azione collettiva su scala globale (come hanno cercato di fare: “Occupy Wall Street, la City e tutti i simboli del denaro, il movimento del 99 per cento che si oppone alle ricchezze, ai privilegi, alle stock option dell’1 per cento considerato classe globale, gli “Indignati”, ecc.) non è affatto chiaro se ci sia, o sia ipotizzabile, qualcosa capace di giocare un ruolo paragonabile a quello dello Stato-nazione.

Tenuto conto che questo è lo stato dell’arte non possono essere eluse due questioni cruciali. La prima riguarda la relazione tra giustizia e sovranità. La seconda attiene all’ampiezza ed ai limiti dell’eguaglianza, in quanto richiesta di giustizia. Si tratta di due questioni connesse ed entrambe hanno importanza fondamentale per determinare se si possa anche soltanto dare forme ad un ideale comprensibile di giustizia globale. La questione della giustizia e della sovranità è stata affrontata in modo limpido da Thomas Hobbes nel “Leviatano”. Come è noto, nel suo trattato Hobbes sostiene che, per quanto i veri princìpi della giustizia si possono scoprire anche affidandosi solo al ragionamento morale, la giustizia effettiva non si può raggiungere se non tramite uno Stato sovrano. E poiché l’uomo allo stato di natura ha come fine la propria autoconservazione, ne consegue una inevitabile lotta per la sopravvivenza che comporta la guerra di ciascun uomo contro tutti gli altri  (homo homini lupus). Perciò per fare in modo che le relazioni fra esseri umani siano giuste è necessario che ci sia un governo. Allo tempo stesso, ed in base alla medesima considerazione, Hobbes trae la conseguenza che, nel contesto internazionale, i vari sovrani siano inevitabilmente contrapposti fra loro in uno stato di guerra. Dal quale sia la giustizia che l’ingiustizia sono assenti.

A sua volta la questione della giustizia e dell’eguaglianza è stata posta con particolare chiarezza da Rawls (in “Una teoria della giustizia”). Rawls ha sostenuto che i requisiti della giustizia liberale includono una forte componente di eguaglianza fra i cittadini. Quest’ultima, tuttavia, è una richiesta specificatamente politica, applicabile quindi sulla base di una struttura di Stato-nazione (unificato). Non si applica invece alle scelte personali degli individui che vivono nella società in questione. Perché costituiscono preferenze non politiche. Né si applica alle relazioni fra l’una e l’altra società, o fra i membri di società differenti. In sostanza la giustizia egualitaria costituisce un requisito che può essere imposto alla struttura politica, economica e sociale interna agli Stati-nazione e non è invece possibile estendere a contesti diversi, che richiedono criteri differenti. Ne consegue che, quali che siano i princìpi impiegati per stabilire diritti od opportunità eguali nell’ambito nazionale, essi non appaiono applicabili anche alla sfera globale.

Ora, se Hobbes ha ragione, l’idea di una giustizia globale senza un governo mondiale è una chimera, o un miraggio. Se invece avesse ragione Rawls, l’ideale di un mondo giusto dovrebbe o potrebbe al massimo coincidere con un mondo di Stati e società  più  giuste al loro interno. Per entrambi dunque la possibilità di perseguire una giustizia globale risulta una specie di “fata morgana”. La realtà conferma questo loro scetticismo. In quanto le istituzioni internazionali oggi esistenti (o, forse, persino ipotizzabili in futuro), la cui funzione deriva dal potere delegato da Stati diversi con interessi contrastanti e perciò tendenti alla neutralizzazione reciproca, non sono in grado di darsi e di assolvere ad un tale scopo. Il risultato quindi è che non sussistono le condizioni per un governo mondiale capace di assicurare la giustizia ed in compenso nemmeno le società nazionali sono risultate (almeno negli ultimi tre decenni) particolarmente impegnate a ridurre le diseguaglianze ed a perseguire una maggiore giustizia al loro interno.

In effetti, mentre si discute (accademicamente) di un “nuovo ordine mondiale” l’ingiustizia continua a dominare il mondo. In proposito è sufficiente ricordare che i 900 milioni di persone privilegiate dalla fortuna di essere nate in Occidente hanno finora beneficiato  dell’86 per cento dei consumi mondiali. Inoltre esse consumano il 58 per cento dell’energia mondiale e dispongono di quasi l’80 per cento del reddito mondiale e del 74 per cento di tutte le connessione telefoniche. Al quinto più povero della popolazione (1,2 miliardi di persone)  tocca l’1,4 per cento dei consumi globali, il 4 per cento dell’energia e l’1,5 per cento di tutte le connessioni telefoniche. E’ facile capire che i ricchi trovino giusto il loro benessere e tendano a difenderlo. Ma come è possibile che i poveri emarginati e dominati possano accettare tutto ciò? Max Weber aveva legato la stabilità del disordine e della diseguaglianza alla questione della legittimazione. Ma quale “fede di legittimità” garantisce l’accettazione, da parte dei poveri e degli esclusi su scala globale, della diseguaglianza della società mondiale? Dove la metà della popolazione (e la maggioranza dei bambini) soffre la fame? Al quinto della popolazione mondiale al quale le cose vanno peggio (ricordiamo che messi assieme essi hanno meno soldi dell’uomo più ricco del mondo), manca tutto: cibo, acqua potabile ed un tetto sulla testa. Ed allora, cosa rende legittimo e stabile questo “ordine globale” della diseguaglianza?

(segue)

 (25/02/2012

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