Legge elettorale. Il terrore di perdere, anziché l’ambizione di vincere

| 0 comments

C3dem apre un dibattito su uno degli aspetti che riteniamo cruciali dell’attuale momento politico: come si possono tenere assieme governabilità (necessaria perché i governi possano durare il tempo di una legislatura) e rappresentatività (necessaria perché tutte le posizioni politiche di qualche rilievo possano aver voce). Apre il dibattito il senatore Franco Monaco, già presidente dell’Ac ambrosiana dal 1986 al 1992 e di “Città dell’uomo” dal 1993 al 1996, fondatore con Romano prodi del movimento politico “I Democratici-l’Asinello”, deputato dal 1996 al 2008, eletto senatore nel febbraio 2011 subentrando al posto di Umberto Veronesi.


Quella della legge elettorale è materia complessa, che implica una certa tecnicalità. Gli addetti ai lavori ci avvertono che talvolta decisivi sono i dettagli. E tuttavia proverò a stare alla sostanza politica, semplificando le cose.
Le leggi elettorali sono mezzi atti a trasformare i voti in seggi. Dunque, sono mezzi, non fini. Il fine è la rappresentanza da coniugare con le esigenze della governabilità. Mezzi relativi al contesto politico cui si applicano. Non ci sono leggi elettorali buone o cattive in sé, ma appunto in relazione al concreto sistema politico. Non a caso il vecchio Sturzo fu prima per la proporzionale e poi per il maggioritario, in due diverse stagioni della sua esperienza politica.
Personalmente sono per soluzioni di stampo maggioritario per la fase politica dell’Italia di oggi e proverò a spiegare il perché. Ma se fossi in Germania sarei decisamente per la proporzionale. Lì infatti l’elemento di stabilità e di buon funzionamento del sistema è rappresentato da un quadro politico che fa perno su due grandi partiti (più un paio di dimensioni medio-piccole), con una base ideologica riconoscibile e con un radicamento storico e sociale. Il caso italiano è affatto diverso: un sistema straordinariamente frammentato e molti partiti piccoli o medio-piccoli. Basti dire che il più grande o il meno piccolo sarebbe il PD che si aggira intorno al 25 %. Il nostro problema è dunque quello di contrastare la frammentazione, di favorire il costituirsi di maggioranze di governo e, prima ancora, di incoraggiare la formazione di partiti di dimensioni paragonabili a quelle delle altre democrazie mature. Partiti di cui ancora non disponiamo.
Certo, il problema oggi più sentito dai cittadini è quello che si restituisca loro il diritto-potere di scegliersi i propri parlamentari, che è stato usurpato dal porcellum. Per farlo ci sono due strade: le preferenze e i collegi uninominali, come quelli del mattarellum che ha preceduto il porcellum. Io sono per la soluzione dei collegi, che ristabiliscono un rapporto tra gli eletti e il territorio e spingono le liste ad aggregarsi. Le preferenze furono foriere di corruzione a motivo dei costi già allora alti delle campagne elettorali (costi che oggi, venti anni dopo, salirebbero alle stelle) e, di più, esse scatenerebbero una forsennata competizione tra candidati della medesima lista. Il mitico Fiorito è figlio delle preferenze.
Ma perché sono per soluzioni di impianto maggioritario? Perché quelle cui si sta confusamente lavorando nei vari tavoli negoziali condurrebbero quasi certamente al pareggio o comunque non produrrebbero maggioranze di governo lealmente sottoposte, prima del voto, al vaglio del giudizio dei cittadini. I governi, come nel tempo della decadenza della prima Repubblica, sarebbero confezionati attraverso oscure transazioni tra i vertici di partito a urne chiuse. Domando: davvero si pensa di poter tornare indietro a questi riti nel tempo in cui dilaga l’antipolitica? Di più: una tale regola elettorale, con alta probabilità, condurrebbe a due esiti che non si escludono a vicenda: un nuovo governo tecnico (per il quale Monti ha già annunciato la sua disponibilità) e/o un governo di grande coalizione. Cioè, dal mio punto di vista, la reiterazione della rinuncia a un ben inteso primato della politica, la riproposizione di una logica emergenziale, l’archiviazione di una democrazia competitiva e dell’alternanza. Non è solo un problema di modello politico, ma di sostanza programmatica. Esemplifico: su equità, fisco, informazione, giustizia, legalità possiamo rassegnarci ad avere di nuovo le mani legate da una maggioranza eterogenea e ancora ipotecata dal conflitto di interessi di un Berlusconi che starebbe di nuovo in maggioranza? Che lui, votato alla sconfitta, sia pronto a mettere una firma in calce a un pareggio mi torna. Non capisco o forse capisco sin troppo bene perché dovremmo mettercela noi, complice le varie bozze Violante che sembrano concepite a quel fine.

Sullo sfondo si intuisce una tentazione: quella di contentarsi di riportare in parlamento il personale politico di partito, rilasciando ai tecnici l’onere e la responsabilità del governo, mai come oggi impopolare. La sostituzione della democrazia con la tecnocrazia, solo preoccupati della sopravvivenza del ceto politico. In sostanza, una legge elettorale la cui “ratio” non è l’ambizione di vincere e governare, ma la paura di perdere le proprie rendite di posizione. Una legge grazie alla quale nessuno vince ma soprattutto nessuno perde. Al modo di Scalfaro direi: non ci sto!
Franco Monaco

 

Lascia un commento

Required fields are marked *.