L’attualità dell’appello ai liberi e forti

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Intervento svolto alla Tavola Rotonda di presentazione del libro “Elogio dei liberi e forti. La responsabilità politica dei cattolici” scritto da Lucio D’Ubaldo, con una sezione di attualità redatta da Giuseppe Fioroni, per l’editore Giapeto. L’incontro si è tenuto nella sede dell’ANCI Lombardia, a Milano, il 13 dicembre 2018, alla presenza anche di Marco Tarquinio e Guido Formigoni.

 

Perché l’odierna rievocazione?

Perché per una straordinaria coincidenza di tempi e di clima culturale l’Appello di un secolo fa palesa caratteri di singolare lucidità e tempestività, anche per i problemi dell’oggi. Cioè, con riguardo all’odierna forma democratica e sociale.

L’Appello ai Liberi e Forti presenta all’opinione pubblica del primo dopoguerra la proposta politica non del partito dei cattolici o di un partito cattolico, ma quella di un gruppo organizzato di persone che prendono ispirazione dalla loro fede e dal Vangelo per candidarsi, in autonomia dalla Chiesa e dalla gerarchia, al governo del Paese. Esso costituisce una delle vette culturali et politiche dell’avventura dei cattolici italiani sulla scena civile, economica e sociale del Paese nell’arco degli ultimi 150 anni.

L’Appello, per la sua novità e il suo spessore, è paragonabile solo:

  • alla eccezionale stagione di presenza “militante e formante” che si manifestò nell’Assemblea costituente dal giugno ’46 al gennaio ’48; che durò però solo 18 mesi;
  • alle scelte di De Gasperi: a) lungimiranti in politica estera, sia con riguardo alla scelta del campo occidentale, sia per la visione europea; b) capaci di fredda e ragionata diagnosi dopo l’eccezionale vittoria del 1948; c) nella costante ricerca di una alleanza larga e laica, tale da consentire una democrazia governante;
  • al pungolo critico, culturalmente alto ed eticamente esigente, svolto con tenacia e passione riformatrice da Dossetti e dalla corrente di Cronache sociali (La Pira, Lazzati, Fanfani, Mortati, Amorth ecc.) perché non andasse smarrito il senso profondo della presenza dei cattolici in politica, giustificato dalla ricerca di una certa aequitas nei rapporti tra persone, anzi la giustizia sociale, avendo come meta l’uguaglianza sostanziale tra le persone e, in definitiva, la sanatio della politica stessa. Tale strenuo impegno ebbe però la durata di soli cinque anni (1946-1951);
  • alla grande visione morotea, che si sviluppò tra l’apertura a sinistra (discorso di Moro al Congresso di Napoli del 1962) e l’ultimo discorso ai gruppi parlamentari della DC del 28 febbraio 1978: quello della Terza fase, in divenire verso una “democrazia compiuta”.

 

Una voce autorevole e di grande spessore è quella di Federico Chabod, con la sua impostazione laica e rigorosa, il quale, nelle Lezioni di Storia contemporanea tenute a Parigi nel 1950, dichiara espressamente che l’Appello è un “fatto di estrema importanza; … l’avvenimento più notevole della storia d’Italia del ventesimo secolo” (così a pag. 43 delle Lezioni pubblicate da Einaudi nel 1961 col titolo L’Italia contemporanea (1918-1948)).

Per queste ragioni l’Appello è stato considerato – e merita di essere valutato – come una risorsa o meglio un modello di equilibrio/conciliazione di idee e forze adatte e pronte a governare il Paese e, al tempo stesso, appresta una riserva di senso e di impegno per i tempi delle crisi, come accadde l’ultima volta 25 anni fa quando il fondatore del Nuovo Partito Popolare Mino Martinazzoli riunì all’Istituto Sturzo di Roma, il 18 gennaio 1994, colorò che si sentivano di rispondere 75 anni dopo al medesimo Appello. Risorsa, peraltro, non generica ed emozionale, ma fornita di un chiaro e distinto programma.

L’antecedente lontano, ma non remoto, dell’Appello, era pur sempre la Rerum Novarum di Leone XIII del 15 maggio 1891, che, pur col suo linguaggio datato e ultramoderato, aveva inteso rivitalizzare il mondo del lavoro e le antiche associazioni professionali corporative, spronando le classi subalterne ad una collaborazione con il padronato, restando peraltro dentro lo schema organicista: “no alla lotta di classe”.

Anche con questi evidenti limiti l’Enciclica aveva aperto un varco e fatto palpitare il giovane parroco di Ambricourt (così Bernanos nel suo Diario di un curato di campagna) lasciando intravedere un cristianesimo meno remissivo sul piano sociale. Ne era scaturita la tumultuosa stagione del modernismo, seguita poi dalla gelata di Pio X e dalla condanna di Romolo Murri e del movimento che si richiamava al suo nome, verso la cui testimonianza si avverte una simpatia di Lucio D’Ubaldo che lo segnala come precursore già nel titolo che dà a uno dei suoi capitoli: “Attraverso la sconfitta di Murri”. Egli era stato capace di accendere l’idealità e le speranze di molti giovani, tra i quali si segnalavano quelli torinesi capitanati da Franco Invrea.

In quei primi anni del Novecento si consuma la vicenda dell’Opera dei Congressi (1904), mentre avanza il protagonismo di due eminenti figure: una lombarda, l’avvocato milanese Filippo Meda – ed anche a lui va la simpatia di D’Ubaldo – il quale si presenta come alfiere di una nuova stagione “riformista e moderatamente progressista”, e l’altra siciliana, il calatino don Luigi Sturzo, che dopo aver esordito con un grande discorso a Caltanissetta nel 1902 – “Il programma municipale dei cattolici italiani” – prosegue alla vigilia del Natale del dicembre 1905 con “I problemi della vita nazionale dei cattolici”. È questo un discorso che segna lo spartiacque tra la vecchia esperienza dei cattolici papali, obbedienti al non expedit, inquadrati nell’Opera dei Congressi, e la nuova fase storica che apre la strada alla formazione di un partito laico, democratico e costituzionale di ispirazione cristiana.

Filippo Meda è lo stesso personaggio che sarà il primo tra i cattolici che operano in politica a giurare come Ministro delle Finanze nel Gabinetto di guerra Boselli nel giugno 1916.

Per inciso, Meda non è tra i firmatari dell’Appello, anche se aderirà al nuovo partito pochi mesi dopo. Altre due firme illustri mancano, quelle di Alcide De Gasperi e di Giovanni Gronchi, e, purtroppo, tra le undici che ci sono, alcune sono di personaggi che, schierati inizialmente nella destra cattolica, passeranno molto presto al fascismo: il conte Grosoli, il conte Santucci e soprattutto, in negativo, si segnala Stefano Cavazzoni. Costoro, con modalità varie, ruppero la disciplina di partito imposta dal segretario Sturzo favorendo apertamente Mussolini al momento dell’approvazione della legge elettorale liberticida che prendeva il nome da Acerbo, provocando così, indirettamente, le dimissioni di Sturzo (10 luglio 1923). Le elezioni dell’aprile 1924 pure videro un discreto successo dei popolari che ottennero 39 seggi nelle proibitive condizioni sia normative che di fatto che circondarono l’evento. L’esilio del fondatore del PPI si concretò nell’ottobre dello stesso anno, dietro perentorio invito del cardinal Gasparri, il Segretario di Stato vaticano.

 

Tutto ciò è ben descritto nel libro di D’Ubaldo che arriva al diapason della narrazione con la vicenda dell’Appello, sulla cui portata è sufficiente riportare il giudizio di Chabod, che ho già dato all’inizio. Mi sono prima soffermato sull’importanza di due elementi politicamente moderni: un partito organizzato, “rigido” lo chiama Chabod adoperando il linguaggio del tempo e alludendo ad un partito non malleabile ma strutturato. Soprattutto, grande era la novità di un programma chiaro, netto e dettagliato.

Fra i dodici punti mi limito a sottolineare un elemento cruciale in tema di autonomie (al plurale) essendo il programma tutto volto a favorire l’autonomia e il regionalismo, contro i prefetti giolittiani e la burocrazia ministeriale, prona e obbediente ai voleri romani ma cieca e sorda alle istanze popolari. È stato un errore – sostiene Sturzo – accentrare tutto nelle mani del potere politico governativo, eliminando ogni funzione di autonomia dei  Comuni [accentuata poi dal fascismo con la nomina governativa del Podestà e successivamente del Preside nelle Province] e non aver messo al primo posto il compito di dare consapevolezza e responsabilità alle masse, istruendole alla vita civile ed educandole alla politica, a partire dall’amministrazione locale.

È rilevante la presa di posizione a favore di una entità regionale alla quale attribuire pezzi importanti della legislazione e dell’amministrazione: agricoltura, artigianato, scuole professionali, assistenza sociale specialmente alle famiglie, acque e miniere eccetera; venendo incontro – in generale – alla necessità di sviluppo della vita locale nei diversi territori.

Molto bella e profonda la lettera inviata da don Luigi agli amici popolari dall’esilio londinese nel gennaio 1926 per celebrare il 7° anniversario della fondazione del PPI e pubblicata in Appendice da D’Ubaldo che riporta la riflessione dell’esule secondo la quale, ricordando Dante, “Quando si parte il gioco de la zara, / colui che perde si riman dolente, / repetendo le volte, e tristo impara, / con l’altro se ne va tutta la gente.” (Purg. VI 1-4)

Quanta attualità nell’amara constatazione di Sturzo:  “la gente, tutta la gente, va appresso al vincitore: lasciamo che vada”.

Valido anche per l’oggi il seguente passo, pensato un secolo fa: “il Partito popolare non è sorto né per un giorno, né per una situazione transitoria, né per una questione particolare: è sorto per esprimere sul terreno politico un programma vasto, coerente, realistico, utilissimo al paese. I motivi ideali di questo programma non sono venuti meno, anzi sono aumentati. Anche i motivi morali, anzi specialmente i motivi morali. Né alcuno che sia in buona fede può non guardare con tristezza e preoccupazione il tentativo del Governo di coinvolgere la Chiesa col regime fascista e rendersela solidale, attraverso favori e vantaggi.” Mancano soli tre anni alla Conciliazione del febbraio 1929, che valse molto al fascismo per il suo rafforzamento tra le masse.

Propongo, per concludere, due soli esempi, tratti dal programma popolare che si sviluppa in dodici punti ed è concretissimo: “V – Organizzazione di tutte le capacità produttive della nazione con l’utilizzazione delle forze idroelettriche e minerarie, con l’industrializzazione dei servizi generali e locali. Sviluppo dell’agricoltura, colonizzazione interna del latifondo e coltura estensiva. Regolamento dei corsi d’acqua. Bonifica e sistemazione dei bacini montani. Viabilità agraria. Incremento della marina mercantile. Risoluzione nazionale del problema del mezzogiorno e di quello delle terre riconquistate delle province redente.”

Il leitmotiv è autonomistico come nessun altro; il programma va più a fondo, ed è meglio espresso rispetto a quello del socialismo municipale, che pure era nobile ed elevato:

VI – Libertà ed autonomia degli enti pubblici locali. Riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione, in relazione alle tradizioni della nazione e alla necessità di sviluppo della vita locale. Riforma della burocrazia. Largo decentramento amministrativo ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro.”

Questo è un programma politico, capace di fissare l’ideale ma, al tempo stesso, concreto.

C’è ancora molto da imparare e da far nostro per i giorni avventurati che ci è dato di vivere.

 

Enzo Balboni

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