La politica e la cittadinanza

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Il testo, fatto proprio dalla rete c3dem, è stato redatto dall’autore in preparazione del II Forum Etica Civile che si terrà a Milano nei giorni 1 e 2 aprile 2017. Il forum è un percorso di partecipazione che parte da tante pratiche civili già attive – di cura del territorio o del sociale, di economia attenta alle persone, etc. – e che intende metterle in dialogo per individuare prospettive di bene comune. Promotori del forum sono una rete di soggetti della società civile (Associazione Cercasi un fine, Centro Studi Bruno Longo, Fondazione Lanza, FOCSIV, Istituto Arrupe, Rivista Aggiornamenti Sociali, Rivista Incontri, Rivista Il Regno) cui la rete c3dem ha aderito.

 

Nell’ampio dibattito di questi anni sulla politica e la cittadinanza, ci sono, tra i tanti, tre temi che vorrei far presente: formazione e selezione del personale politico; rappresentanza; partecipazione attiva e controllo (solo un accenno).

  1. Formazione alla politica e selezione del personale politico

Da tempo viene evidenziata la necessità, se non l’urgenza, di luoghi di formazione alla politica, in particolare per i giovani. A livello ecclesiale, l’esperienza di scuole di formazione sociale della chiesa italiana degli anni ’90 e 2000 (organizzate peraltro con forme e modalità molto diverse da diocesi a diocesi) e che ormai – se non erriamo – sopravvive solo in poche realtà non sembra essere stata analizzata nello suo svolgimento e ei suoi esiti e non pare a chi scrive che ne sia stato fatto un bilancio complessivo. L’impressione – del tutto superficiale e personale – è che da un lato sia da riconoscere uno sforzo generoso e spesso appassionato che certamente ha arricchito le persone che hanno frequentato questi “corsi”; dall’altro, la speranza, coltivata da alcuni promotori, che i partecipanti potessero formare una nuova classe dirigente in grado di conquistare (in senso buono) rapidamente spazi nella politica, si è rivelata ingenua e irrealistica. Del tutto poi fuori la realtà l’obiettivo,  accarezzato forse da qualcuno, che da questi corsi potesse riprendere vita un partito cattolico o di ispirazione cristiana capace di un largo consenso nella società italiana.

Esistono certamente casi di persone che dal percorso formativo hanno fatto il “salto” in politica ma si tratta di singole esperienze. D’altra parte, l’obiettivo di un “pendant” scuole-politica attiva non era nemmeno del tutto condiviso nel mondo ecclesiale, tanto che per evitare fraintendimenti le scuole nel loro titolo quasi sempre richiamavano l’aggettivo “sociale”, più che “politico” (o abbinando i due termini), a voler sottolineare la distinzione (se non la distanza) dalla “politica partitica”. Questa distinzione, in fondo condivisibile dal punto di vista del principio, per evitare indebite e pericolose confusioni, ha però finito molto spesso per rendere queste scuole di formazione occasioni di approfondimento prezioso sui temi generali ma meno incisive rispetto alla realtà concreta dell’agire politico e soprattutto amministrativo.

In ogni caso, va riconosciuto che in quei decenni la chiesa cattolica è stata forse una delle poche realtà organizzate, insieme ad alcune associazioni, a cercare di offrire in modo ampio e capillare occasioni di formazione all’impegno civile ai giovani.

Solo negli ultimi anni alcuni partiti e i movimenti – anche rendendosi conto della complessità dei problemi che oggi chi fa politica deve affrontare – hanno riscoperto l’esigenza di percorsi formativi, con iniziative e metodi che meriterebbero un’analisi. Allo scrivente risultano soprattutto le iniziative organizzate a vario titolo all’interno del PD, quelle del Movimento 5 stelle e, in modo più limitato, di Forza Italia. Naturalmente ce ne saranno altre ma, mi sembra, meno note e partecipate. Per queste esperienze, molto di più che per le scuole di matrice ecclesiale, rimane aperta la domanda sul rapporto tra partecipazione a tali percorsi e possibilità concreta di ingresso nella vita politica. E’ evidente infatti che l’acquisizione di competenze (che deve essere accompagnata ovviamente da altre qualità personali) non è sufficiente a conquistare un proprio spazio; e non va dimenticato che c’è un fondo di verità anche nel tradizionale motto “la politica si impara facendola”. Quindi la possibilità di “carriera” politica, come tutti sappiamo, è collegata a molti altri fattori interni alla vita dei partiti e dei movimenti, in cui l’eventuale formazione ricevuta gioca, per ora, un ruolo marginale o comunque non decisivo.

Nonostante questi limiti, rimane vero che è anche ampliando e irrobustendo questi spazi di formazione (sia a livello di realtà prepolitiche che di soggetti politici), che si può sperare di alimentare il sorgere di un certo numero  “vocazioni sane” alla politica che poi, usando gli strumenti che sono propri di essa, potranno praticarla e  renderla migliore.

In poche parole, se non ci si può illudere di un passaggio diretto tra formazione e “carriera” politica o amministrativa, nondimeno la creazione di occasioni di formazione, confronto e approfondimento, a livello parrocchiale, associativo (ecclesiale e laico), civile, partitico può dare un contributo significativo, se non altro per evitare il distacco delle giovani generazioni dall’impegno politico.

Occorre dunque avere il coraggio di proporre e organizzare iniziative di questo tipo, superando- qui mi riferisco all’ambito cattolico  –   una certa preoccupazione sul fatto che esse possano risultare “divisive” della comunione ecclesiale. Si deve infatti maturare una sana capacità di confronto nel rispetto dell’altro, che sappia gestire in modo maturo le situazioni potenzialmente “conflittuali” e le differenza di opinioni politiche seppure nella stessa comunità di fede.

Sono quindi  da apprezzare, valorizzare, diffondere, sostenere le iniziative formative (seminari, laboratori, scuole estive, ecc.) già in atto, tra cui quelle portate avanti da associazioni che si riconoscono nel mondo “cattolico democratico” , in specie quelle della ReteC3Dem.

 

La questione della selezione del personale politico non è in ogni caso riducibile, come abbiamo detto, alla sola tematica della sua formazione. In molte occasioni abbiamo sentito critiche e lamentele circa la scarsa capacità di partiti e movimenti di portare avanti persone qualitativamente valide ed eticamente rette. Tale critica ha delle sue ragioni ma rischia di essere nel contempo troppo generale e ingiusta, non tenendo conto delle  tante persone oneste che si dedicano alla vita amministrativa e politica con passione e dedizione. Soprattutto, occorre considerare che il personale amministrativo e politico non nasce dal nulla e quindi un certo grado di attenzione e vigilanza andrebbe tenuto fin dal livello sociale e pre-politico. Pur considerando l’esistenza diffusa di pratiche cooptative, non va dimenticato che molto spesso persone che, come “politici”  non valutiamo abbastanza degne o capaci, hanno avuto dalla loro consensi e simpatie sia all’interno del loro partito/movimento, sia (spesso) all’esterno; alcune hanno percorso una carriera esclusivamente interna, altre hanno fatto il passaggio alla politica in quanto già affermate nel loro ambiente professionale o lavorativo o sociale. In poche parole, se da un lato occorrono ovviamente regole e controlli severi internamente alle forze politiche e spetta innanzitutto ad esse e ai  loro vertici vigilare sul proprio personale politico,  dall’altro occorre richiamare alla responsabilità le molte persone che consentono col loro sostegno (o con la loro indifferenza) l’ascesa di figure non all’altezza (in vari sensi) del ruolo che vanno a ricoprire; talvolta, addirittura vedendo la possibilità di un qualche tornaconto personale. Insomma, non basta fare “processi” alla classe politica se nel contempo non ci si interroga sulla responsabilità della cosiddetta “società civile”.  Precisato che occorre essere inflessibili in tema di illegalità e corruzione, occorre peraltro fuggire dall’ossessione di una purezza manicheistica, che non tiene conto delle situazioni a volte complesse in cui si può trovare chi esercita un ruolo pubblico e con gli ampi poteri affidati all’apparato amministrativo.

 

  1. Un secondo tema è quello della rappresentanza.

Ci sarebbe molto da dire sulle trasformazioni subite da questo ambito nel corso del tempo, anche grazie alle nuove tecnologie: si pensi alla “verticalizzazione” del rapporto tra leader ed elettori. Ma non è su questo che vorrei soffermarmi, anche se “tutto si tiene”, quanto – in modo  sicuramente abbozzato e insufficiente –  sulla questione specifica delle assemblee rappresentative, che si pone ormai da diversi anni ma che non sembra avere trovato ancora assetti soddisfacenti.

Partiamo dal livello locale. Con l’elezione diretta dei sindaci (e dei presidenti della provincia, anche se questo è un aspetto ormai del passato) – riforma che personalmente ho condiviso – il ruolo del Consiglio comunale e dei singoli consiglieri ha subito un forte ridimensionamento. Sia chiaro: non è da rimpiangere il fatto che in diverse situazioni  questo ruolo si giocasse facendo e disfacendo, sindaci, giunte e maggioranze alla faccia degli elettori. Ma è indubbio che una riflessione va fatta sul ruolo dei i consiglieri comunali: su quelli di maggioranza, spesso schiacciati dall’esigenza dell’appoggio incondizionato all’esecutivo e quindi, paradossalmente, limitati nello svolgere  un  ruolo più autonomo e originale; ma, soprattutto, quelli di minoranza, che dovrebbero disporre di spazi, mezzi e strumenti (regolamentari e pratici) per svolgere una loro funzione di controllo, di proposta, di critica.

Una simile problematica vale anche per i Consigli regionali, anche se il problema di queste figure (lasciando da parte qui gli scandali in alcune situazioni degli anni scorsi) non è tanto e non solo quella di una funzione all’interno dell’istituzione quanto di una “riconoscibilità” della loro “utilità” (se così ci possiamo esprimere) da parte dell’opinione pubblica, stante che il lavoro legislativo regionale, pur con tutti gli sforzi di comunicazione da parte delle Regioni, non è immediatamente percepibile ed è in qualche modo “oscurato” dalla preminenza del Presidente della Regione, anch’egli eletto direttamente, e, diverse posizioni più sotto, di quella dei singoli Assessori.

Riguardo al Parlamento, se passerà la riforma, occorrerà ragionare sulle nuove funzioni della nuova Camera e del nuovo Senato, cogliendo questa occasione per un “rilancio” del ruolo della Camera e spingendo perché lo statuto delle opposizioni sia normato in modo serio. Se non passerà, rimane da chiedersi come ridare legittimità e forza a un istituto, quello parlamentare, che proprio per la sua conformazione e le tempistiche che richiede, rischia di vedersi bypassato dall’esecutivo.  In questo senso, si potrebbe tornare a riflettere sui regolamenti parlamentari.

Una delle conseguenze della difficoltà a vedere riconosciuto un proprio ruolo – anche da parte dei media – porta i rappresentanti nelle assemblee, a tutti i livelli, a dedicare energie a questioni di più immediato impatto sull’elettorato. A volte si tratta di questioni concrete ma importanti; a volte, invece, si rischia di inseguire temi che fanno presa per attirare l’attenzione, senza una vera progettualità positiva e costruttiva. Alla lunga, tale metodo rischia di premiare, non solo dal punto di vista della notorietà ma anche da quello elettorale, non chi lavora seriamente sui contenuti ma chi si fa più notare per spirito polemico o argomenti di facile ascolto.

Sulla partecipazione attiva e le forme di controllo dal basso c’è già un’amplissima riflessione e pubblicistica. Volevo solo segnalare l’importanza del tema e qui mi limito solo ad alcuni piccoli richiami di dettaglio.

  • Troppe volte l’introduzione di sistemi di controllo partecipato sono lasciati alla buona volontà di questi o quegli enti; spesso riguardano questioni molto grosse e complesse (tendenzialmente per superare l’effetto NIMBY), il che è comprensibile; ma c’è tutto uno spazio di micro-partecipazione meno esplorato e potenzialmente fruttuoso per questioni meno controverse ma altrettanto sentite (dalla sanità, al verde pubblico, alla scuola, al sociale). Un altro esempio: le rilevazioni di customer satisfaction (citate in ormai tutti i manuali di comunicazione pubblica), quanto sono praticate (non necessariamente con complessi questionari scientifici ma magari anche con strumenti più immediati e semplici)?
  • Nel nuovo codice degli appalti Codice degli Appalti (D.Lgs 50/2016), c’è un articolo specifico, il n. 22, riferito “Trasparenza nella partecipazione di portatori di interessi e dibattito pubblico”. Si fa cioè facendo strada anche in Italia, prima con esperienze sul campo, poi con leggi regionali sulla partecipazione (cfr. ad esempio Emilia-Romagna e Toscana), adesso anche con leggi nazionali, l’idea che si possa e si debba progettare interventi pubblici con strumenti di condivisione e partecipazione. Occorre quindi vigilare perché siano implementati.
  • E’ necessario impegnarsi per far diffondere le buone pratiche di cittadinanza attiva e partecipazione, in modo che persone, gruppi, associazioni abbiano modelli ed esempi virtuosi a cui ispirarsi

 

Sandro Campanini

 

2 Comments

  1. Mi interessa poter assistere al Forum Etica Civile che si terrà a Milano nei giorni 1 e 2 aprile 2017.
    Posso farlo a titolo di ex docente di Etnografia Urbana al Politecnico e/o di singola professionista con notevole esperienza in politiche partecipative e anche libri con racconti di esperienze sull’argomento.
    ( se cercate Marianlla Sclavi sul web, trovate tutto ..)

    Motivo, mi interessa ampliare la mia casistica di esempi di buone pratiche e riflettere su come riescono a diffondersi ( o no )

    Come faccio a farmi invitare ?

    Marianella Sclavi

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