La miseria a Roma nel secondo dopoguerra. Una testimonianza

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Nel corso di un interessante seminario di studio sull’inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia condotta nei primi anni ’50 del secolo scorso, organizzata dalla Società per la Storia del Servizio Sociale e dall’Archivio storico della Camera dei deputati lo scorso 21 ottobre, è intervenuta Marisa Cinciari Rodano, che della Commissione parlamentare d’inchiesta fu una delle quattro donne chiamate a farne parte. La sua è stata una testimonianza sulla povertà del secondo dopoguerra a Roma e sulle iniziative per combatterla a cui ella partecipò in quegli anni.

Nata nel gennaio del 1921, Marisa Rodano è stata esponente del Partito Comunista, deputata, senatrice e parlamentare europea. Ha partecipato alla Resistenza nelle file del Movimento dei Cattolici Comunisti. Nel ’44 è stata tra le fondatrici dell’Unione Donne Italiane e, al 1963 al 1968, vice presidente della Camera dei deputati.

 

Prima di venire al merito del tema oggi in discussione, mi si consenta una premessa.

Il mio interesse per il CEPAS e, più in generale per le attività di servizio sociale è nato senza dubbio dalla azione che svolgevo, negli anni 1950, in quanto parlamentare e in quanto militante del Partito Comunista Italiano, nelle borgate più povere e nelle periferie disastrate di Roma. Ma sorgeva anche dal fatto che, già durante gli  studi all’Università, avevo conosciuto il professor Calogero e che ero amica di una compagna del Movimento dei  Cattolici Comunisti (nel quale avevo militato durante la Resistenza): Lucia Corti Aymone Marsan, che , dopo la liberazione del nord, era stata nominata, dal CLN Alta Italia[1], Alto Commissario per l’Assistenza ai reduci  e gestiva a Milano il Centro di assistenza e prima accoglienza ai reduci”. Maria Calogero, invece, devo averla conosciuta all’UDI: fece parte della delegazione delle donne italiane al primo “Congresso Internazionale delle donne” che si tenne a Parigi nell’ottobre del 1945. Fu tra le poche, che, a ragione, non erano favorevoli alla decisione dell’UDI[2] di entrare nella “Alleanza femminile del Fronte Democratico Popolare” alla vigilia delle elezioni politiche del 1948.

Un’altra persona, impegnata nel Servizio Sociale (che faceva parte anche lui del Movimento dei Cattolici Comunisti) era Giorgio Ceriani Sebregondi. Giorgio durante la Resistenza stava a Roma e viveva “legalmente” perché era, se non ricordo male, funzionario dell’ANNONA. Quando io mi sposai, durante la clandestinità, Giorgio  ospitò a casa sua a Via Reno me e mio marito, (e fu quello il mio viaggio di nozze). Poi Sebregondi era partito per Milano per andare a organizzare il nostro Movimento al nord. I rapporti con Sebregondi si interruppero quando, alla vigilia delle elezioni comunali di Roma nel 1952 (se non ricordo male) sottoscrisse assieme ad altri, una lettera all’Osservatore Romano nella quale annunciava la sua uscita dal PCI per motivi religiosi. E ovviamente conoscevo Adriano Ossicini.

Desidero in secondo luogo scusarmi con gli autorevoli relatori, se il mio intervento sarà assai colloquiale e privo di corredo scientifico. Ciò premesso, vengo alla mia vicenda personale, a cominciare dal mio primo contatto con la miseria nella Capitale.

Rammento che fin dai primi anni di Università mi recavo assieme a Silvia Pintor  a distribuire nel borghetto Prenestino, per conto della Conferenza di S. Vincenzo della FUCI[3], i buoni del pane e del latte. Una esperienza che mi aveva reso consapevole della palese insufficienza di quelle limitate misure assistenziali  a risolvere i problemi della miseria,  e mi aveva spinta a impegnarmi per combatterla. Durante la Resistenza poi avevo frequentato, per ragioni di lotta contro l’occupazione nazista, quelle stesse zone, nelle quali  si era sviluppato un forte movimento delle donne per rivendicare la distribuzione del pane; per richiedere la liberazione degli uomini presi dai nazisti allo scopo di  mandarli a scavare le trincee sui fronti di Anzio e di Cassino; e per chiedere che Roma fosse “città aperta”, cioè liberata dalla presenza di forze militari.

Merita soffermarsi sulla situazione di Roma nel 1945 all’indomani dell’ingresso delle truppe alleate.

Nelle case non arrivava l’acqua dell’acquedotto, danneggiato, (si doveva andare ad attingere l’acqua alle fontanelle pubbliche); non c’era il gas, perché i nazisti in ritirata avevano fatto saltare il gasometro; non c’erano mezzi di trasporto pubblici, perché l’esercito tedesco aveva portato via tutti gli autobus; (rammento che lungo la Via Cassia era un susseguirsi di autobus semidistrutti dai bombardamenti). A Roma per spostarsi c’erano solo camionette private, fatiscenti, nella quali si viaggiava in piedi. La luce veniva erogata a giorni alterni. In grandi quartieri (quali Prenestino, Tiburtino, Appio Latino,) numerosi fabbricati (case popolari o case dell’INCIS) colpiti dai bombardamenti erano in parte crollati.

Molte persone erano rimaste senza casa e stavano stipate negli edifici scolastici. Inoltre erano confluite a Roma, dalle zone di Anzio, di  Cassino e dei Castelli Romani, colpite dalla guerra, migliaia di famiglie, che, a causa della legge fascista contro l’urbanesimo (Legge 6 luglio 1939, n. 1092) ancora vigente, non potevano essere iscritte all’anagrafe e di conseguenza  neppure  avere un lavoro regolare; e quindi facevano parte dell’esercito dei lavoratori in nero, ovviamente sottopagati. Si erano accampate sotto gli archi degli acquedotti romani o in borghetti di baracche di lamiera.

I bambini passavano la maggior parte del loro tempo per strada. A Roma e nel Lazio centinaia e centinaia di bambini, tra il 1946 e il 1952, erano rimasti uccisi, feriti o mutilati dalla deflagrazione di granate, mine anticarro e altri ordigni  residuati di guerra. Nel marzo del 1952, 10 bambini erano rimasti uccisi dall’esplosione di un ordigno bellico nei pressi di Velletri. Il 14 aprile dello stesso anno una bimba era morta e tre bimbi erano rimasti feriti nello scoppio di una bomba a mano a Via Torricola, alla periferia di Roma.

Questo era il contesto nel quale, in quanto dirigente dell’UDI di Roma, e, dopo il 1948, eletta deputata, avevo ripreso a frequentare la periferia di Roma (oltretutto devastata nel 1946 da una alluvione del Tevere e dell’Aniene, che avevano allagato borghetti e baracche.)

Nella Capitale, fin dall’inizio della vita legale, l’UDI si era occupata delle vacanze estive dei bambini delle borgate. Tale attività costituiva in qualche modo lo sviluppo o se si vuole l’istituzionalizzazione della grandiosa operazione di far svernare migliaia di bimbi di Roma, di Cassino e  del Mezzogiorno in Emilia e in altre regioni del nord, organizzata dal PCI nell’inverno 1945-46.[4]  Da Roma, erano partiti tre treni, il primo il 19 gennaio del 1946. E’ stupefacente la rapidità con cui essi vennero organizzati. A Roma si era costituito un Comitato, presieduto dal principe Doria Pamphili, Sindaco nominato dal CLN[5] e anche L’UDI era entrata nel Comitato. All’operazione aveva collaborato, sia pure con diffidenze e malintesi, la Croce Rossa.

Nel 1948, perciò,  per migliaia di famiglie delle borgate l’UDI era diventata un punto di riferimento per le vacanze estive dei bimbi: da un documento della Segreteria della Federazione Romana del PCI risulta che quell’estate del 1948 nelle colonie estive dell’UDI di Roma erano ospitati 15.000 bambini

Tuttavia, organizzare colonie estive era un impegno molto complesso: se l’operazione “ospitalità ai bambini del sud”, pur tra innumerevoli ostacoli, si era svolta ancora in un clima di unità, con la presenza dei comunisti nel governo, ormai nel 1948 anche l’organizzazione delle colonie estive si collocava sotto il segno della divisione e dello scontro.

Nel 1947 era stato soppresso il Ministero dell’Assistenza postbellica, diretto, nelle precedenti compagini governative unitarie, da comunisti o uomini di sinistra: le competenze erano state trasferite al Ministero degli Interni. Dopo la crisi del governo tripartito, nel 1947,  il nuovo governo  lesinava i fondi e li concentrava sulle colonie del CIF e soprattutto della POA (Pontificia Opera di Assistenza). Nel 1949, per ottenere il finanziamento delle colonie dell’UDI si era dovuta organizzare una manifestazione di donne e bambini: giunto sotto la prefettura il corteo era stato aggredito a manganellate dalla Celere; comunque  si erano strappati dei fondi.

Al problema del finanziamento si sommavano quelli di assicurarsi i viveri erogati dall’Amministrazione Aiuti Internazionali e del reperimento dei locali: ogni anno si dovevano individuare edifici scolastici idonei e disponibili in località marine e montane per ospitarvi i bambini, ottenerne dai Comuni l’assegnazione, procurarsi le autorizzazioni dell’autorità sanitaria, attrezzarli con lettini, cucine, materiali per la mensa e così via e, soprattutto reclutare il personale. In genere si cercavano insegnanti elementari o maestre giardiniere, che, nella grande maggioranza dei casi, non avevano però alcuna esperienza come ‘monitrici‘ di colonia.

Ci sforzavamo di dar loro un’infarinatura, anche ricorrendo al Centro per la Formazione ai Metodi di Educazione Attiva, diretto del professor Cecrope Barrili, un mio primo contatto con le Istituzioni di Servizio Sociale. Ma ci sarebbe voluto ben altro: ricordo la partecipazione di nostre monitrici a un corso svoltosi preso il Castello di Sermoneta. Barrili pretendeva che le monitrici imparassero a correre nei campi, a arrampicarsi su scarpate, a giocare a palla prigioniera, insomma a mettersi al livello di ragazzi tra i 6 e i 12 anni, che non stavano in classe, ma in vacanza. Ma le nostre maestre – come la maggioranza delle ragazze di modesta estrazione in quegli anni – non avevano la benché minima attitudine o preparazione sportiva ed erano venute al corso  con scarpette coi tacchi e gonne strette, vestite insomma come usavano per andare a scuola: si rifiutavano esterrefatte di scapicollarsi come avrebbe voluto Barrili.  Per  la preparazione del vitto e per le pulizie era  stato invece facile trovare esperte madri di famiglia.

Oltretutto i bambini delle borgate romane venivano da ambienti degradati, erano usi alla vita della strada, alcuni avevano esercitato il “mestiere” di “sciuscià”, spesso facevano parte di vere e proprie “bande”, erano ovviamente insofferenti a qualsiasi sia pur modesta disciplina; a volte davano luogo a vere e proprie rivolte che rendevano impotenti gli inesperti direttori delle colonie e il personale. Sempre erano denutriti, sporchi, sovente senza nemmeno quel minimo di biancheria di ricambio, che chiedevamo alle famiglie di dar loro, persino senza scarpe, talora infestati da insetti.

Noi dirigenti dell’UDI a Roma poi non avevamo specifica capacità organizzativa e amministrativa né professionalità nel campo dell’assistenza all’infanzia. Soccorrevano molto entusiasmo, il desiderio che i bambini stessero bene, mangiassero a sazietà, venissero controllati dal medico, oltre a una gran volontà di non lasciare tutta l’assistenza in mano alla DC e alla convinzione  di esser impegnate – ed era vero – non solo in una meritoria azione di solidarietà, ma anche in una battaglia politica. Tener quotidianamente sotto controllo una simile organizzazione, vigilare sulle colonie, far fronte a tutti gli incidenti che scoppiavano ci rendeva super impegnate. In una occasione dovetti precipitarmi a Tivoli dove i ragazzi si erano arrampicati sulle finestre. Direttore e assistenti, privi di esperienza, avendo perso il controllo, erano tutti in preda a crisi isterica:  ci volle del bello e del buono a riportare la situazione alla normalità.

Talora eravamo costrette a intervenire per l’atteggiamento di direttori o direttrici di colonia,  che,  o perché troppo politicizzati o perché eccessivamente preoccupati di assicurare la “laicità”, ostacolavano la visita dei parroci o la celebrazione della messa in colonia: obiezione, quest’ultima, in realtà legittima, poiché ritenevamo giusto accompagnare alla messa i bambini che lo desiderassero, non imporre l’obbligo di assistervi a tutti, ebrei compresi. A volte veniva consentito ai bambini di cantare inni appresi in famiglia, chiaramente connotati in senso politico, come  “bandiera rossa”. Erano casi rari e, ovviamente, non gravi , ma sarebbero  divenuti il pretesto, in seguito, per una vera e propria persecuzione da parte del Ministro degli Interni,  Mario Scelba.

Col passare degli anni, la situazione era destinata a peggiorare: in un “appello alla stampa” del Comitato Provinciale dell’UDI di Roma della primavera del 1951[6] si fa un elenco preciso di problemi: insufficienza del contributo statale (talora 35/40 lire a bambino al giorno!); carenza  quantitativa e numerica delle razioni dell’Amministrazione Aiuti Internazionali; ritardo nella ripartizione dei contributi, spesso a colonie già iniziate, moltiplicazione degli enti che dovevano dare le autorizzazioni,  mancanza di ogni coordinamento. Le grandi aziende avevano ricominciato a organizzare colonie per i figli dei propri dipendenti, vi erano anche gestori di colonie che chiedevano il pagamento di una retta. In quell’appello l’UDI proponeva che venissero adottati dalle Prefetture criteri “oggettivi” per la scelta dei bambini da inviare in colonia, validi  per tutti gli enti gestori: si proponeva di assumere a base il bisogno fisico e quello economico-sociale e che il Medico Provinciale disponesse la compilazione di elenchi di bambini, bisognosi di assistenza estiva, in tutte le scuole.

La persecuzione scelbiana contro le colonie dell’UDI di Roma si sarebbe dispiegata in tutta la sua virulenza  proprio nell’estate del 1951. Malgrado le relazioni degli ispettori prefettizi fossero positive, il 6 agosto veniva chiusa la colonia dell’UDI a Poggio Tulliano, nei pressi di Grottaferrata e il 29 veniva nominato un Commissario prefettizio nella colonia dell’UDI a Marino: le argomentazioni addotte erano generiche, in contrasto con i risultati delle ispezioni o esplicitamente pretestuose: i bambini avrebbero cantato un inno che terminava con l’invocazione “al nostro grande padre Stalin” (!), circostanza risultata del tutto inventata. L’anno successivo l’UDI di Roma venne esclusa dalla ripartizione dei fondi per le colonie. Le conseguenze per il nostro Comitato provinciale furono drammatiche: avevamo fatto spese (acquisto di viveri, materiali, impegni col personale), che non eravamo in grado di pagare: venendo meno i contributi statali previsti, non riuscivamo a far fronte agli impegni assunti coi fornitori. Eravamo perseguitate da creditori inferociti, che  ci minacciavano  e talora costrette a barricarci dentro la nostra sede… Rammento scene sgradevolissime: noi nascoste dietro un tramezzo, mentre turbe vocianti urlavano insulti – “puttane” era l’espressione più gentile.. –  nei nostri confronti.[7] L’età “eroica” delle colonie estive era finita. La battaglia politica contro il monopolio dell’assistenza da parte delle associazioni collaterali della DC, l’avevamo perduta.

Era continuata invece, l’azione di ospitalità ai bambini presso famiglie. Il 14 novembre del 1951  il Po aveva rotto gli argini a Occhiobello e acque tumultuose e cariche di detriti avevano invaso il Polesine fino alla periferia di Rovigo[8]. Tutta la campagna era trasformata in un immenso lago. L’UDI era arrivata in forze, da Milano, dall’Emilia, dal Veneto. Giuliana Gioggi, mandata dall’UDI di Roma, vi si era recata con l’obiettivo di portare  a svernare presso famiglie della capitale, che si offrivano di ospitarli, i bambini rimasti senza casa. L’operazione si profilava tutt’altro che semplice e non solo perché la confusione nelle zone alluvionate regnava sovrana. Gli ostacoli fondamentali erano politici. Il Ministro degli interni, Scelba, voleva impedire che le organizzazioni di sinistra avessero un ruolo nei soccorsi per concentrare tutto nelle mani della Pontificia opera di assistenza, del CIF[9], delle altre organizzazioni cattoliche, delle amministrazioni democristiane. Successe di tutto. Ena Lombardi con una autocorriera di bambini venne bloccata dai carabinieri, per non  farla partire; il 27 novembre Giuliana Gioggi, 137 bambini e 20 mamme, partiti con due pullman da Cavarzere in direzione di Padova (da dove avrebbero dovuto proseguire per Roma) furono letteralmente sequestrati dalle autorità di polizia e chiusi nell’ospedale degli Alberoni (Lazzaretto) di Venezia. Per cercare di risolvere tali problemi avevo raggiunto Padova. Alla fine, anche con l’intervento della onorevole Gisella Floreanini, a noi fu affidato un gruppo di 80 bambini di Stienta. Passammo ore e ore a Stienta, ancora mezza allagata, a raccogliere i nomi dei bambini e tutte le dichiarazioni dei genitori e gli altri documenti necessari. Seguì l’attraversamento del Po in piena su una chiatta, il trasferimento in pullman a Ferrara e il viaggio in treno verso Roma.

Nel dicembre dello stesso anno 1951 ci fu in Calabria un’alluvione disastrosa. L’UDI  di Roma aveva organizzato  l’ospitalità presso famiglie romane dei bambini calabresi vittime di quella calamità. Come nel Polesine, così pure a Reggio Calabria 400 bambini delle zone alluvionate affidati all’UDI vennero prelevati dalla polizia, chiusi su camion e condotti a Messina. Finalmente, sollecitato dalla denuncia dei genitori contro il Prefetto e il Questore, il Procuratore della Repubblica aveva ordinato la restituzione immediata dei bambini e il pagamento ai familiari delle spese sostenute. Dopo molti rinvii, ci venne comunicato che i bambini calabresi sarebbero arrivati a Roma il giorno di Natale alle sei del mattino. Il treno proveniente dalla Calabria – non era da meravigliarsene – arrivò con cinque o sei ore di ritardo. All’una di pomerig­gio eravamo ancora in giro per Roma a consegnare i piccoli calabresi alle famiglie affidatarie. I bambini restarono a Roma fino alla fine dell’anno scolastico e, salvo pochi casi, non avemmo gravi problemi di adattamento né da parte loro né da parte delle famiglie  romane che li avevano accolti.

Ma anche durante la permanenza dei bambini – calabresi e polesani – a Roma si scatenò da parte dei giornali governativi – Popolo, Momento, Quotidiano – una furibonda campagna di calunnie contro le famiglie ospitanti, accusate di aver operato “la tratta dei bambini”, di “usarli come cavie negli esperimenti comunisti” (!) e via farneticando.

Questo  era il contesto nel quale, il 4 giugno del 1952 i costituì la “Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria e sui mezzi per combatterla”, presieduta dall’ on. Ezio Vigorelli, i cui lavori furono raccolti in ben 14 volumi.  Io fui chiamata a farne parte con l’incarico di condurre l’inchiesta a Roma. Furono raccolti molti dati statistici sulla situazione economica e sanitaria della popolazione, la composizione dei nuclei familiari, la loro provenienza, il numero degli occupati e dei disoccupati, la crisi degli alloggi,  i cosiddetti “alberghi suburbani”, la carenza di aule scolastiche, l’assistenza prestata alla popolazione povera dagli enti pubblici e privati, laici e religiosi.  Non ricordo però a chi fosse stato affidato tale compito, forse a funzionari della Camera dei Deputati.

Purtroppo ho del tutto dimenticata quella esperienza. So però che è stata per me l’occasione di entrare più direttamente in rapporto con le Organizzazioni di Servizio Sociale, in quanto, tramite le attività  da loro svolte, spesso a supplenza delle carenze dell’intervento pubblico, avevano più diretto contatto con la popolazione povera in stato di bisogno. Ed è  a tale scopo che forse mi ero rivolta al CEPAS, per condurre l’indagine nei quartieri popolari di Ponte e di S. Lorenzo, dove il sovraffollamento e lo stato delle abitazioni era deplorevole, e in alcune borgate, dove erano stati “deportati” dal Governo fascista gli abitanti dei vecchi rioni del centro storico,  quando le loro case erano state demolite per aprire la Via dell’Impero, la Via del Mare e la grande arteria che sboccava a Piazza S. Pietro.

La borgata di Pietralata, che era stata particolarmente colpita dalla inondazione, non aveva servizi igienici nelle baracche, l’acqua veniva attinta a un’unica fontana al centro della borgata. C’era un solo lavatoio per centinaia di famiglie. In costruzioni semidiroccate erano situati i gabinetti comuni. Le fogne erano a cielo aperto.  .

La borgata Gordiani, che era stata costruita in una specie di fossa per non farla vedere, era, se possibile, in condizioni ancora peggiori. Casupole sovraffollate e prive di acqua, vetri rotti, infissi sconnessi, tetti che lasciavano passare l’acqua piovana. 25 gabinetti (privi di porte e sporchi) e tre lavatoi pubblici per più di 5000 persone.  Degli agglomerati dell’Acquedotto Felice, ho già parlato. Anche lì le fogne scorrevano davanti alle abitazioni senza copertura.

Nel quartiere di S.Lorenzo, antico quartiere operaio, nel quale erano sorte numerose aziende   industriali, famiglie numerose occupavano stabili, che, colpiti dai bombardamenti del 1943, erano semidistrutti. Pessima era la situazione degli edifici scolastici. Molti bambini evadevano l’obbligo.

Nel rione Ponte e in quelli vicini, dove sorgono anche palazzi signorili, le strade erano strette, le case buie, umide, mal areate, sovrappopolate, i servizi igienici deficitari; qualche casa era pericolante.

Se ben ricordo, furono proprio giovani volontari –  non retribuiti  – del CEPAS  a condurre le indagini in quelle località.

 

Marisa Rodano

 

 

[1] Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia

[2] Unione Donne Italiane.

[3] Federazione Universitaria Cattolica Italiana.

[4] Da Napoli alla vigilia del Natale del ‘46 partirono 12.000 bambini. Era stata un’impresa epica e per organizzarla era occorso un lavoro di molti mesi. Le  calunnie diffuse in particolare nei quartieri più poveri, dominati  dai monarchici, avevano reso difficile inizialmente persino trovare famiglie disponibili a mandare i propri figli, tanto erano terrorizzate. Era stato detto loro di tutto: che i bambini sarebbero stati mandati in Russia e non sarebbero mai tornati; che i comunisti avrebbero loro mozzato le mani e via farneticando. Di fronte alle riserve della Curia e alla campagna qualunquistica, qualcuno dei componenti si era  ritirato  dal  Comitato costituito ad hoc,  presieduto da Giorgio Amendola, del quale facevano parte il Provveditore agli studi, il Commissario dell’ONMI, il Direttore della Clinica pediatrica dell’Università, personalità della cultura, tra cui Lidia Croce, docenti universitari, medici e sacerdoti.. Al momento della partenza,  parecchie madri sottrassero per i figli lasciati a casa i cappotti predisposti nei vagoni per  quelli che dovevano partire in vista dell’arrivo in regioni fredde. Molti bambini, usati per piccolo contrabbando, rifiutavano di dire il loro nome, rendendo assai difficile il controllo degli elenchi dei partenti per le varie destinazioni.

 

[5] Comitato di Liberazione Nazionale.

[6] Fa parte dei pochi reperti sfuggiti alla critica roditrice dei topi.

[7] Negli anni seguenti, a partire dal 1953, cercammo, con l’appoggio della  Lega dei Comuni democratici, di far stanziare i fondi nei bilanci degli enti locali amministrati dalle sinistre e di stipulare con loro – e anche con le aziende – convenzioni per la gestione dell’Assistenza estiva, di ricorrere a sottoscrizioni e anche di gestire colonie a pagamento

[8] 1000 kmq di terreno sommersi, 300 case distrutte, 5000 lesionate, 100 persone persero la vita, 180.000 furono evacuate.

[9] Centro Italiano Femminile

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