La crisi greca: chi è senza peccato?

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La questione greca è sospesa in queste ore tra il rischio concreto di reciproci irrigidimenti e gli spiragli ancora non consolidati di un compromesso politico. Del resto, la vittoria elettorale di Syriza e l’andata al governo di Tsipras hanno messo in moto meccanismi nuovi, potenzialmente dirompenti. L’impressione però è che nessuno dei contendenti possa evitare di fare in primo luogo un serio ragionamento sul passato, e quindi impegnarsi a trovare forme per uscire dal tunnel in cui tutti si sono cacciati in questi anni di pessima gestione politica della questione.

Tsipras ha dalla sua parte la chiara urgenza di mettere fine all’insana politica dell’austerity a ogni costo, che ha affondato l’economia e devastato la società greca. Senza mettere assolutamente le basi per favorire in futuro un pagamento dei debiti, che sarebbe stata la ragione formale che l’ha fatta scegliere: l’impossibilità di Atene di pagare gli interessi sul debito semplicemente è dietro l’angolo se si procede in questa direzione. Il mandato elettorale dei greci è chiaramente contro questa deriva e Syriza si è impegnata primariamente su questo fronte. La Germania e i falchi dell’eurozona hanno dalla loro la necessità di non «creare il precedente» di una infrazione delle regole, che non permetterebbe di tenere in linea di galleggiamento i comportamenti della spesa pubblica di molti altri paesi «fragili» dell’eurozona. E vogliono garanzie che gli aiuti alla Grecia, farraginosamente già avviati da tre anni, non incentivino nuove leggerezze. Da queste due ragioni contrapposte può però venire uno scontro che potenzialmente ha un solo risultato: il default greco e l’uscita dall’euro (soluzione costosa, dai risvolti imprevedibili per gli stessi greci e probabilmente dirompenti in termini europei complessivi).

Se tutti i contendenti riconoscessero i propri scheletri nell’armadio le cose potrebbero essere più gestibili. Da una parte, il nuovo governo di sinistra greco non può trascurare che il paese viene da un decennio abbondante di follie fiscali, coperte con quel marcato taroccamento dei conti pubblici che solo nel 2009 venne riconosciuto ufficialmente. L’entrata nell’euro aveva permesso ad Atene di indebitarsi a tassi simil-tedeschi, e quindi i governi si sono permessi un’allegra spesa, che era arrivata a creare un deficit pubblico annuo attorno al 15% del Pil (altro che il 3% di Maastricht), a raddoppiare i dipendenti pubblici (e soprattutto i relativi stipendi) in dieci anni dopo il 2000, a continuare a reggere un saldo negativo annuo delle partite correnti dell’11% del Pil, a largheggiare con le pensioni. E tutto con un tasso di evasione fiscale e contributiva da far impallidire quello italiano, che come è noto non è purtroppo modesto.

Dall’altra parte, occorre anche dire che al sistema produttivo del nucleo «tedesco» dell’Europa, a partire almeno dalla costituzione dello Sme, ma ancor più con l’euro, ha fatto strutturalmente comodo  che ci fossero paesi della periferia europea agganciati valutariamente al marco e poi all’euro-marco. Considerando i differenziali di inflazione e di produttività, l’industria esportatrice tedesca ha lucrato ampi margini competitivi da tale situazione, in questi decenni. Si può addirittura arrivare ad affermare che il gioco di chiudere un occhio sulle statistiche, magari poco affidabili, dei paesi della periferia valesse assolutamente la candela?

Se le cose stanno più o meno in questi termini, dovrebbe essere ragionevole immaginare che ciascuno si rimbocchi le maniche e per la propria parte contribuisca a trovare un modo per intraprendere una via d’uscita virtuosa dall’impasse. Il problema greco è mostrare un accettabile piano di rientro della finanza pubblica che non si basi su «lacrime e sangue» indiscriminate, ma sappia finalmente colpire privilegi e distorsioni. Se è vero, come loro dicono, che la soluzione non è tagliare i dipendenti pubblici (i quali, in percentuale della forza lavoro, sono sotto la media europea), tale soluzione andrà pur cercata dal lato delle entrate fiscali. Sarà in grado la sinistra di Syriza di costruirne una credibile o sarà indotta a fermarsi agli slogan e alla propaganda? Questo è il suo vero problema. Il problema tedesco, specularmente, dovrebbe essere di vedere come accompagnare il responsabile impegno greco con un progetto di crescita economica di scala europea che parta dalla riduzione del proprio enorme surplus commerciale, incentivando almeno un poco le importazioni e reflazionando l’economia domestica del paese-guida. E poi immagini l’utilizzo di ingenti risorse europee per finanziare selettivamente progetti di crescita (innovativa e sostenibile) delle economie, a partire da quella greca, per aiutare a mettere in linea di  galleggiamento anche la nave ellenica. In mezzo tra queste due convergenti possibili azioni, ci sta un ragionevole compromesso sulle questioni degli aiuti d’emergenza e dei prestiti-ponte: si tratta niente di più che della continuazione di un percorso che già si è avviato con lo sforbiciamento del debito greco del 2011 e 2012. Ma il compromesso sul breve periodo potrebbe essere fortemente rafforzato da segnali convergenti sul medio periodo che vengano dati da entrambe le parti. Del resto, una Grecia nel caos, nella povertà e nella recessione non conviene a nessuno, nemmeno agli esportatori tedeschi…

Guido Formigoni

 

 

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