Il Pd, le coalizioni, il maggioritario: ridiscutere la “democrazia di investitura”

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In questa stagione può essere opportuno una rivisitazione dei maggiori eventi della parabola della democrazia italiana dopo la crisi di sistema politico dell’inizio del decennio ’90. In quel passaggio ci stavano diverse strategie, ma una di esse fu piuttosto chiara. Era quella di trasformare la democrazia in Italia, nata come «repubblica dei partiti» (secondo la fortunata definizione di Pietro Scoppola), in «repubblica dei cittadini», attraverso il modello della «democrazia di investitura». Possiamo ora vedere a trent’anni di distanza gli esiti di quella strategia?

Pubblichiamo qui un articolo che apparirà a breve sulla rivista ‘Appunti di cultura e politica’. (red.)

 

 

Guardare alla storia dovrebbe essere di qualche utilità per la politica. Non per derivarne astratte lezioni, ma per mettere progetti, intenzioni, teorie alla prova esigente dei fatti.  Come spesso succede, le lezioni della storia sono in chiaroscuro, non inducono generalmente a idealizzare schemi astratti, ma certo possono far propendere per correggere la rotta, sperimentare meglio, modificare le aspettative, in un processo incrementale e profondamente riformatore. Non da oggi, credo che il centro-sinistra o la sinistra di questo paese abbia faticato a perseguire questo metodo. Uno sguardo al passato recente e alla sua parabola aiuterebbe invece molto a chiarire anche le opzioni reali che abbiamo di fronte e anche come vediamo le sfide di domani. Tanto più in un tempo come questo, in cui la sospensione apparente della battaglia politica con il governo “tecnico” apre una fase di riposizionamento e preparazione del futuro.

Ad esempio, Enrico Letta ha detto alcune cose interessanti aprendo la sua stagione di segreteria del Pd. In particolare, che egli crede nelle coalizioni e che preferirebbe una ripresa della legge elettorale c.d. Mattarellum per favorirle e sostenerle. Un ragionamento su questi temi, al di fuori della ripetizione di posizioni ideologiche, mi pare chiederebbe di rilanciare un dibattito che faccia tesoro dell’esperienza.

Sinteticamente, direi quindi che proprio in questa stagione può essere opportuno una rivisitazione dei maggiori eventi della parabola della democrazia italiana dopo la crisi di sistema politico dell’inizio del decennio ’90. In quel passaggio ci stavano diverse strategie, ma una di esse fu piuttosto chiara e sostenuta da gruppi e persone che ebbero in mano per un breve periodo le carte vincenti nella trasformazione delle regole del gioco. Era quella di trasformare la democrazia in Italia, nata come «repubblica dei partiti» (secondo la fortunata definizione di Pietro Scoppola), in «repubblica dei cittadini», attraverso il modello della «democrazia di investitura». Possiamo ora vedere a trent’anni di distanza gli esiti di quella strategia?

  1. La legge elettorale Mattarella del 1993 è stata appunto l’esito di una stagione di critica alla partitocrazia, espresso nella vittoria delle proposte referendarie che dal 1991 al 1993 avevano innescato il cambiamento necessario della legge elettorale. Non si può non partire dalla constatazione che la crisi di un sistema era evidente. La «repubblica dei partiti» viveva in difficoltà almeno dai tempi del delitto Moro. Mancanza strutturale di alternanza, delega in bianco dei cittadini ai partiti, disinvolti comportamenti dei vertici partitici nella gestione delle cariche elettive, occupazione politica delle istituzioni e delle realtà economiche pubbliche, distacco crescente della classe politica dal paese. Erano questi i segnali di una condizione critica largamente diffusa (non a caso Tangentopoli poté scoppiare con la forza che ebbe e con i suoi risultati dirompenti solo su questo sfondo di crisi strutturale). Quindi, nessuna nostalgia per un periodo non solo non riproducibile, ma anche problematico. Vano anche attribuire a chi allora volle cambiare le cose l’etichetta postuma di «populista».
  2. La risposta del gruppo critico che promosse i referendum elettorali che diedero lo spunto al Mattarellum era lineare, ancorché non neutrale. In effetti, i mali sopra elencati potevano essere attribuiti a diverse cause (si pensi all’alternanza al governo, negata per lungo tempo dal quadro della guerra fredda interna e rallentata dalla evoluzione interrotta del Pci). In questo quadro, la linea di lettura emergente fu invece piuttosto selettiva, identificando proprio il meccanismo elettorale come chiave del cambiamento: occorreva andare verso un rilancio del ruolo del cittadino-elettore come arbitro o principe (Ruffilli/Pasquino), cioè come decisore sull’investitura del governo, vincolando i partiti all’esito delle elezioni. Inoltre, l’obiettivo successivo era favorire l’alternanza, provocando coalizioni che si realizzassero prima del voto, che condividessero l’impianto generale del sistema e competessero “nel sistema” sulle politiche di gestione delle congiunture rimanendo disposte a farsi verificare dopo aver governato dal giudizio popolare. Infine, si intendeva avvicinare la selezione della classe politica alla società con il collegio uninominale e le candidature riconoscibili e presentabili che i partiti sarebbero stati forzati a proporre, anche fuori dai propri ranghi. Tale democrazia di investitura doveva convivere con la razionalizzazione del governo parlamentare, almeno secondo la componente prevalente di questo movimento (qui però c’era un retropensiero divergente che albergava già allora in parte di questi ambienti, su cui torneremo).
  3. Cos’ha insegnato l’esperienza di più di dieci anni di riforma? In realtà potremmo considerare per qualche aspetto anche un arco di tempo più lungo, perché è vero che con il 2005 il c.d. Porcellum ha corretto la linea, però l’ha fatto salvaguardando il carattere maggioritario dell’impianto della legge elettorale e quindi l’idea della democrazia d’investitura: ha sostituito invece solo il meccanismo dei collegi uninominali con le liste partitiche bloccate (una scelta che ridava esplicitamente quel potere ai vertici dei partiti che non era stato ridotto poi di molto in precedenza). In sostanza, potremmo dire che si è guadagnata indubbiamente l’alternanza dei governi: dal 1994 al 2008 si sono succedute svolte governative ad ogni turno elettorale. Risultato positivo, per la circolazione delle cariche e delle élites. Si è realizzato anche un certo bipolarismo, dopo i primi passi comprensibilmente faticosi (qualcuno avrebbe voluto spingerlo verso il bipartitismo, ma la storia gli si è rivoltata contro), semplificando fortemente l’offerta politica rispetto alle bizantine alchimie di nobili ideologie, piuttosto superate dal tempo. Non però un bipolarismo stabile, come vedremo.
  4. Queste acquisizioni hanno avuto però un costo? Cosa si può mettere sull’altro piatto della bilancia?
    1. Si è favorita – non oserei affermare determinata, perché si trattava di evoluzioni comunque in corso – la verticalizzazione e la professionalizzazione ulteriore della politica, non certo uno scambio articolato società-politica (il collegio uninominale ha visto infinite storie di dirigenti “paracadutati” da lontano, più che esprimere solide esperienze locali che si imponessero fino ad essere valorizzate a livello nazionale). E anche l’introduzione parziale (e talvolta un po’ curiosa) del meccanismo statunitense delle primarie per selezionare i candidati non è che abbia mutato molto il quadro, perché si è applicato solo selettivamente e su livelli di vertice. Complessivamente, cioè, non si è affatto tolto potere ai partiti, ma si è accompagnata e incentivata con la gestione del meccanismo elettorale la loro professionalizzazione ulteriore come macchine interne alle istituzioni, addette sostanzialmente alla selezione e al maquillage delle candidature di vertice.
    2. Non a caso, con il loro successo straordinario a partire dal 2013, i 5S hanno fatto saltare il banco del bipolarismo proprio attaccandosi a questo punto, in una polemica rinnovata contro la classe politica, intesa come «casta» separata dalla società. Come sempre, sottolineare la forma sguaiata della loro battaglia, le illusioni tecnocratiche connesse e i limiti spinti fino a vere e proprie ubbie di democrazia diretta ha il solo risultato di dimenticarsi di guardare alle ragioni vere, basilari, palesi, di questo successo. Cioè al fatto che alcune delle promesse del nuovo sistema non erano state raggiunte.
    3. Si è poi concentrata progressivamente l’attenzione sui vertici del governo: abbiamo imparato – come si è cominciato a dire del tutto irritualmente, quanto peraltro esprimendo lo spirito dell’epoca – a votare per Prodi o per Berlusconi, non per una coalizione e per un programma di governo (del resto, nel frattempo, riforme non visibili e non éclatanti hanno contemporaneamente spostato potere dal parlamento al governo, rendendo risibile il classico appello populista “non mi lasciano governare”). Peraltro, la sovraesposizione mediatica e simbolica dei vertici, connessa alla polarizzazione necessaria, ha consumato e consuma leadership più o meno in fretta, come è del tutto evidente e come era largamente prevedibile.
    4. Non si è guadagnato nemmeno in stabilità, perché costituire coalizioni larghe ha comportato dover per forza mettere assieme istanze divergenti e questo ha comportato giochetti di minoranze audaci, oltre che rotture frequenti e a volte dolorose. (Né vale dire che il Mattarellum conservava un quarto di proporzionale e quindi favoriva l’instabilità, come si è tentato di far passare in alcune ipotesi referendarie successive: si è dimostrato con il Porcellum che è la coalizione, quindi il maggioritario, che esalta proprio il ruolo delle minoranze, indispensabili a completare le coalizioni, e quindi favorisce le loro impuntature il giorno dopo il voto). L’unica alternativa per far competere coalizioni più stabili sarebbe stato inventarsi meccanismi che avrebbero stravolto ancor più la rappresentanza, dando potenzialmente la vittoria anche a coalizioni poco votate (come nel caso dell’Italicum, non a caso bocciato dalla Corte costituzionale).
    5. Ulteriore elemento, la democrazia maggioritaria sembra sempre meno favorire (non solo in Italia, ma anche nel mondo anglosassone che è la sua patria) quella tendenza centripeta tradizionalmente ad essa associata: la polarizzazione anzi sembra essere stata e divenire oggi sempre più dirompente. Non a caso niente mi pare più fuorviante della classica immagine per cui le coalizioni si dovrebbero cavallerescamente contendere il voto «moderato» del presunto elettorato «centrista» (sempre meno identificabile). Nel profondo dell’elettorato stesso si sono polarizzate le posizioni. Per cui le coalizioni, piuttosto, sembrano sempre più vincere o perdere se riescono o meno a consolidare la propria base elettorale, evitando le fughe di alcuni loro spezzoni nell’astensionismo.

Se stanno queste rapide osservazioni, saremmo di fronte a un bilancio complesso, quindi. Certamente però non lo definirei con l’immagine di uno straordinario successo, propriamente rispetto alle intenzioni esposte sopra dagli ispiratori della riforma.

Quindi in sostanza, quali mi sembra tornino ad essere le linee possibili di evoluzione?

  1. Da una parte, è possibile andare decisamente nella direzione di ulteriore verticalizzazione, con riforme che concentrino ancor più i poteri nei vertici degli esecutivi. Aleggia infatti sempre la possibilità di dar la stura al mai sopito elemento “presidenzialistico” che era una possibilità indubbia dell’evoluzione fuori dalla repubblica dei partiti (e che appunto era il retropensiero di almeno una parte dei sostenitori dell’uscita dalla crisi con regole di tipo maggioritario). Potrebbe presentarsi nella forma del sogno del modello francese e del doppio turno, senz’altro stabilizzante (ma a costi di semplificazione drastica della rappresentanza: Macron nel 2017 aveva preso il 24% al primo turno delle presidenziali, non dimentichiamolo). Oppure almeno si ritorna ogni tanto a proporre un rafforzamento del potere del presidente del Consiglio nella forma di una specie di “premierato assoluto” (copyright Leopoldo Elia), come nella riforma costituzionale congegnata dal centro-destra nel 2005 (sfiducia costruttiva, nomina e revoca ministri, potere di sciogliere le camere, tutti concentrati in capo al premier). Dovremmo qui fare la scommessa secondo cui il leader più capace di intercettare contemporaneamente l’onda dell’opinione del momento e la somma di interessi e minoranze particolari sia anche quello in grado di strutturare una risposta più articolata e solida ai problemi della società.
  2. Dall’altra, si può immaginare invece una razionalizzazione diversa. Carlo Trigilia su “Il Mulino” ha descritto l’ipotesi di una «democrazia negoziale». Che cosa comporterebbe sinteticamente questa linea di pensiero? Diciamola così: in primo luogo, accettare che ci sia una rappresentanza nelle istituzioni di una società articolata e divisa. Poi, ipotizzare che un modello elettorale sostanzialmente proporzionale (con necessaria soglia di sbarramento, ma anche con eventuali altri correttivi, qui io non vorrei fare il tecnico in materia) dia la possibilità di consolidarsi nel tempo a forze politiche che raccolgano istanze ravvicinate e identità specifiche, presentabili e visibili. Nei tempi della società liquida, queste sedimentazioni non saranno eterne, lo sappiamo già: nessuno si illude di poter tornare indietro ai (non sempre bei) tempi dei partiti tradizionali. Ma si può sperare che con gli incentivi del consolidamento di posizioni di rappresentanza, i partiti riacquistino un poco di struttura e visibilità al di là dei leader governativi e si sforzino di proporre al paese una identità riconoscibile, non dovendo mediare già nel corso della campagna elettorale le proprie priorità. Si può anche ipotizzare che si sentano un poco più liberi dall’inseguire istanze di breve periodo, sulla spinta delle esigenze di vittoria immediata, nella competizione all’ultimo voto tra le parti. Il loro volto, invece, e anche il loro successo, sarebbe strutturalmente da misurare con il dialogo a lungo termine con gli interlocutori sociali organizzati (al contrario della osannata disintermediazione). Se si recuperasse una qualche certa forma di solidità, sarebbe possibile anche immaginare forme di scambio politico più attente a uno sviluppo inclusivo e duraturo. Di queste forme di intesa farebbero parte anche le coalizioni, da affidare alla mediazione dopo il voto tra queste forze, per raggiungere accordi di governo. Ci sarebbero forse parentesi maggiori di governi «trasversali», ma magari anche governi più duraturi (si guardi al caso tedesco o anche a quelli di molti altri paesi del centro-nord europeo non anglofono).

In sostanza, una rilettura della storia secondo le categorie sopra esposte porterebbe a ragionare di una di queste due vie d’uscita. Personalmente, di fronte all’alternativa, propenderei decisamente nella seconda direzione (ritenendo del tutto legittimo, ma non auspicabile, il primo esito).

Per venire all’attualità, quindi: Letta fa benissimo a valorizzare l’idea delle coalizioni come obiettivo politico importante. Appare infatti più che mai necessario superare l’eredità veltroniana-renziana del malcelato favore bipartitizzante, con la retorica connessa della «vocazione maggioritaria» e del «partito della nazione» (anche perché sarebbe ridicolo che si intestasse questa volontà un partito che gli eredi di quella storia hanno consegnato al 18% dei voti). Occorre quindi produrre intese, il più articolate e strategiche possibili, che mostrino la convergenza di diverse forze attorno a un disegno essenziale comune. Coalizioni auspicabilmente estese da una sinistra non ideologica che ponga la questione dell’uguaglianza fino a un liberalismo progressista che non si nasconda nel porre esplicitamente il tema delle libertà, ma senza che la seconda linea oscuri la prima per esigenze di «moderazione», come spesso è successo e succede di questi tempi.

Quanto ai modi per realizzare queste coalizioni, occorre pensarci con grande attenzione. Sicuri che sia necessario farle prima delle elezioni, continuando ad usare la retorica del «conoscere la sera delle elezioni chi governa»? A me pare che, proprio nello scenario attuale, questo modello rischierebbe di costituire una forzatura. Basti pensare alla necessità del completamento dell’incerta maturazione del movimento 5S, alla chiarificazione ancora parziale dell’asse politico del Pd stesso (pur avviata da ZIngaretti e oggi continuata da Letta), all’assestamento di una possibile offerta politica liberal/democratica non conservatrice e contemporaneamente di una aggregazione più ecologista/solidarista sulla sinistra: sembra veramente difficile immaginare di poter presentare all’elettorato un risultato già consolidato di questo complicato processo. Siamo sicuri che un’affrettata coalizione pre-elettorale di questo tipo non allontani esattamente una parte dei rispettivi elettorati? In questo senso, devo dire che trovo convincenti alcuni dei ragionamenti recenti di Bettini.

Merita invece forse che ciascuno provi a coltivare i propri referenti culturali e sociali, continuando l’evoluzione rispettiva e discutendo anche di possibili punti di convergenza e di incontro. Certamente, data la storia recente e il quadro delle forze politiche in campo, oggi un perno essenziale di questa coalizione dovrà essere l’incontro tra il Pd e il movimento 5S, ambedue ripensati e sedimentati attorno allo scioglimento di varie ambiguità. Nessuno nega di presentare già come progetto e come ipotesi questa intesa all’elettorato, ma senza gli automatismi forzosi dovute alle regole. Che sono sempre presentabili da qualcuno come forzature e quindi restano anche parzialmente illusori. Si affidi piuttosto la valutazione delle piattaforme rispettive e delle ragioni di un possibile incontro al libero giudizio degli elettori. E poi ci si trovi in parlamento, distillando le ragioni di un’intesa che non potrà che dipendere dal risultato di questo giudizio del cittadino-sovrano. Del resto, le regole in politica servono, ma illudendosi di cambiare le cose con le sole modificazioni delle regole non si va molto lontano. La politica è sempre straordinariamente più complessa delle regole, mi pare di poter dire.

Guido Formigoni

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  1. Finalmente si mette in discussione una specie di pensiero unico (maggioritario o uninominale) che ha accarezzato non pochi anche nella sinistra cattolico democratica. Invito a rileggere i tanti interventi che in questi ultimi decenni ha scritto Bodrato sul sistema elettorale! Con cui si evidenziano gli aspetti critici dell’abbandono del proporzionale. Invece molti cattolici democratici, dimenticando che Sturzo per poter dar vita ad un partito popolare di programma ha sostenuto la riforma proporzionale, hanno inseguito i desideri e le stranezze di Mariotto Segni (compresa la proposta dl Sindaco d’Italia).
    Ora, oltre ad una serie di questioni molto più importanti delle mie, vorrei sottolineare che il sistema elettorale mentre deve cercare di favorire la costituzione di un Governo che sia sufficientemente solido e durevole (e non soggetto alle ubbie di qualche forza politica irrilevante o del solito onorevole in cerca di poltrone) dovrebbe favorire la rappresentanza delle realtà territoriali (da ciò deriverebbe la richiesta di ripristino di un numero di Parlamentari non risibile come quello votato di recente che produrrà disastri già con la prossima tornata elettorale), di quella politica (dando almeno un diritto di tribuna a partiti con percentuali piccole che rappresentano aree culturali e sociali della nazione: dal 3 al 5 % ad esempio), e di tener conto che soprattutto i grandi partiti hanno al loro interno delle articolazioni e distinzioni (perciò è importante poter scegliere anche fra candidati dello stesso partito, altrimenti le minoranze verrebbero marginalizzate.

  2. Il tema è affascinante e molto complesso. Non voglio qui fare un commento nel merito ma aggiungere un’osservazione: mi pare che i Paesi che hanno un sistema politico (tendenzialmente) maggioritario (o in virtù del sistema elettorale o della loro tradizione politico-culturale), funzionino meglio dal punto di vista istituzionale (il che – sia chiaro – non significa che siano sempre governati meglio; gli USA insegnano). Si potrebbe rispondere che ogni Paese fa storia a sè e questa è certo un’obiezione pertinente ma credo si tratti comunque di un tema da tenere presente. In secondo luogo, ci si è molto concentrati sul tema del Governo e non sui necessari contrappesi: o meglio, a un rafforzamento nei fatti del Governo (nei fatti, appunto, e non con modifiche istituzionali) è corrisposta una ricerca di contrappesi, anch’essi però di fatto. Tutto questo, però, alla lunga porta ad ambiguità, interpretazioni soggettive e poca chiarezza (vedi il dibattito su governo/parlamento durante la pandemia; caso certamente eccezionale, ma esplosione di problemi che già esistevano e continuano ad esistere). Forse varrebbe la pena ragionare su come formalizzare (nelle sue prerogative ma anche nei suoi limiti) ciò che nella prassi è divenuto il potere di Governo, così come andrebbero meglio formalizzati e definiti i poteri e gli strumenti di controllo del Parlamento e degli altri organi istituzionali.

  3. Mi permetto di sottolineare che questo PD ha ben poco da dire
    La componente cattolica è largamente rappresentata dai renziani ed è evidente che il loro moderatismo, tra l’altro ambiguo, dovrebbe occupare l’altra metà del campo. La componente Franceschini, anche essa cattolica, si è sempre più caratterizzata come componente di gestione e riferimento delle Ztl.
    La componente di sinistra, con il dopo Bindi, sostanzialmente non ha rappresentanza cattolico- democratica.
    Credo che abbia ragione Bersani
    Servono stati generali della sinistra che va ristrutturata e ridisegnata e poi aprire un dialogo con i 5 stelle.
    A fronte dell’ importante ruolo nel pre-politico il cattolicesimo democratico non esiste più a livello partitico. Nel Pd i cattolici sono forti nelle correnti di potere
    Chiedo scusa se ho molto semplificato ma in questi giorni problemi personali mi impediscono una doverosa riflessione più ampia alla luce della qualità dei pensieri proposti da chi mi ha preceduto
    Spero che la generazione che cresce ascoltando Francesco possa offrire un nuovo contributo di solidarietà e speranze alla società italiana
    Occorre sempre di più riscoprire i testimoni di un grande passato, da Dossetti a don Tonino Bello, per incarnare nel quotidiano la volonta’ di cambiamento in direzione di un nuovo umanesimo integrale e diffuso
    Solo un papa ci può salvare…

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