Il “dibattito pubblico”, una via per recuperare fiducia tra i cittadini e chi governa. Intervista a Rodolfo Lewanski

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Rodolfo Lewanski insegna Democrazia Partecipativa e Analisi delle Politiche Pubbliche presso la Scuola di Scienze Politiche e Sociali di Bologna. Ha insegnato anche in altri atenei, fra cui Barcellona e Sydney. Da più di venti anni segue e studia i conflitti ambientali che insorgono in relazione a opere e progetti con rilevanti impatti ambientali e sociali. Attualmente si occupa in particolare di partecipazione deliberativa, uno specifico modo di declinare la partecipazione in cui gruppi di cittadini comuni, estratti a campione in modo da assicurare diversità e rappresentatività (ad esempio le ‘giurie dei cittadini’), sono chiamati a discutere e co-decidere su tematiche complesse, anche con l’ausilio di informazioni bilanciate ed esperti, arrivando a elaborare proposte argomentate e realmente approfondite ai diversi livelli di governo, dal locale al nazionale.

Ha recentemente pubblicato un libro, La prossima democrazia. Dialogo, deliberazione, decisione, che mette gratuitamente a disposizione dei lettori interessati a questo link: https://www.laprossimademocrazia.com/.

 

Lei segue da anni il tema dei conflitti ambientali nei confronti di nuove grandi infrastrutture. A breve, il Governo dovrebbe emanare il DPCM sul “dibattito pubblico” che deve precedere l’avvio di una nuova opera. Cosa ne pensa?

Il punto di partenza è la situazione di sfiducia generalizzata verso la democrazia rappresentativa e le decisioni che assume. Non è un fenomeno di oggi e nemmeno soltanto italiano, sebbene da noi sia forse più acuto. Per quanto riguarda i conflitti ambientali relativi alle nuove grandi opere, questi non sono prerogativa delle sole società industriali essendo presenti anche nei paesi ‘in via di sviluppo’. In Italia, il conflitto ambientale per antonomasia è quello legato alla linea TAV Torino-Lione, che si trascina oramai da anni e ha ‘traumatizzato’ la classe politica.

In risposta a vicende come quella della TAV, ora il governo vuole introdurre in Italia la procedura francese del Dibattito pubblico. Premetto che mi sembra utile guardare e imparare anche da approcci innovativi di altri Paesi. Tuttavia in questo caso specifico trovo che l’innovazione sia poco sensata e poco utile per alcune ragioni specifiche. In primo luogo è rischioso copiare meccanicamente senza considerare il contesto; e il contesto francese é ben diverso rispetto a quello italiano: diverso è lo Stato, diverso è il livello di fiducia tra Stato e cittadini.

In secondo luogo, per effetto di Direttive UE abbiamo introdotto da decenni la procedura di valutazione di impatto ambientale. Purtroppo tale procedura (nata negli USA alla fine degli anni ’60 proprio per affrontare i conflitti localizzativi) viene spesso attuata in modo formale e poco incisivo. Perché non innovare la procedura già esistente in modo da rafforzare e rendere davvero influente la partecipazione dei cittadini? Inoltre, temo che aggiungere un altro adempimento normativo a quelli già presenti possa creare un ulteriore aggravio (in particolare di tempo) anche per i proponenti delle opere senza produrre un reale valore aggiunto per la collettività.

In Italia, abbiamo avuto due casi di processi riguardanti opere autostradali. Uno, riguardante la Gronda di Genova nel 2008, è stato un Dibattito pubblico che, sia pure con molti limiti (mancava la ‘opzione zero’. prevista invece in Francia sin dal 2002), ha prodotto qualche valore aggiunto; l’altro, a Bologna, denominato ‘Confronto Pubblico’, nel 2016, non può nemmeno definirsi un processo partecipativo per la semplice ragione che nel ‘confronto, non si è potuto discutere né l’opportunità dell’opera né il tracciato.

 

Vediamo meglio in maniera specifica i due casi.

Nel 2008, la Sindaca di Genova decide – senza nessun obbligo normativo, si noti – di ricorrere al Dibattito pubblico alla francese per sbrogliare la situazione di stallo decisionale relativo alla c.d. ‘Gronda’, una nuova bretella autostradale per decongestionare il traffico nel capoluogo ligure. Il Dibattito pubblico in quel caso ha creato un valore aggiunto: infatti, Autostrade per l’Italia (ASPI) aveva presentato cinque possibili percorsi sui quali discutere. Ebbene, alla fine del Dibattito pubblico, ne è stato scelto un sesto, originariamente non contemplato, ma nato dai contributi di alcuni cittadini e dalla disponibilità all’ascolto di ASPI.

ASPI è stata lungimirante a scegliere questo percorso, ma poi ha completamente dimenticato la lezione a Bologna, la mia città, dove si è svolto recentemente un ‘Confronto pubblico’ (non un Dibattito pubblico, anche i nomi hanno dei significati…) su una questiona analoga. A Bologna da diversi anni si discute di costruire un Passante autostradale; alla fine degli anni ’90 si era deciso di realizzare un tracciato nella pianura a nord del capoluogo felsineo. Nel dicembre 2015, pochi mesi prima delle elezioni amministrative, il Sindaco di Bologna (e della città metropolitana) Virginio Merola, per accontentare i Comuni interessati dal tracciato nord, decide improvvisamente di rinunciare al tracciato nord e di allargare invece l’attuale tracciato, già a ridosso dell’abitato (si noti che Bologna presenta già livelli di inquinamento al di sopra dei limiti UE). Nel tentativo di legittimare a posteriori la scelta fatta, si svolge un percorso di consultazione affrettata (6 settimane), denominato ‘Confronto pubblico’, che non discute né dell’opportunità dell’opera né di tracciati alternativi, ma solo di interventi mitigativi degli impatti (senza neppure precisare le risorse a disposizione per tali interventi). Viene pertanto disattesa la previsione dell’art. 8 dello Statuto metropolitano che prevede il Dibattito pubblico per le opere strategiche. Qui dunque non c’è stata reale partecipazione, ma un’operazione meramente simbolica (quello che S. Arnstein nella ‘scala della partecipazione’ proposta nel 1969 definirebbe come tokenism) a ratifica di una scelta già fatta a priori.

 

Sono meccanismi sufficienti a ridare credibilità alle istituzioni?

Se si vuole rimontare la crisi di fiducia nelle decisioni, i veri percorsi partecipativi devono essere muniti di precise garanzie per i cittadini, che debbono sapere che le loro opinioni sono destinate a contare davvero, ad avere un’effettiva influenza sulle decisioni pubbliche. Nel Dibattito pubblico, anche in Francia, questo manca: la decisione è lasciata alla discrezionalità del proponente (nella procedura di VIA invece è l’Amministrazione pubblica a decidere). Non basta chiamare i cittadini a dire la loro sul quomodo costruire una nuova grande opera, ma anche sull’an, cioè sulla reale utilità, necessità e opportunità (non solo ‘tecnica’ ma anche sociale) di quell’opera. Per usare una metafora, Ministri e Sindaci pensano sia importante solo lo hardware (l’infrastruttura costruita secondo i canoni tecnici), ma in una società avanzata è ancora più importante un buon software, ovvero il capitale sociale, la fiducia fra cittadini e chi governa; e a questo contribuiscono scelte realmente condivise.

 

Sempre più spesso si parla di democrazia diretta, via Internet. C’è chi ne è entusiasta e chi ne avverte i limiti. Che valenza democratica hanno per Lei queste innovazioni tecnologiche?

Ci sono stati esempi di partiti e movimenti innovativi sotto questo aspetto: ad esempio i Piraten in Germania o Podemos in Spagna. Ma non dobbiamo essere ingenui e farci abbagliare dallo ‘scintillio’ della tecnologia: è solo un mezzo, che si può usare per il meglio o per il peggio. Un ricorso superficiale alla democrazia on-line rischia di creare serie distorsioni tutt’altro che democratiche. Chi verifica che i risultati di votazioni on line rispecchino i voti effettivamente espressi? Se pensiamo che anche con le votazioni cartacee sono insorte distorsioni di tutto rilievo (vedi il caso delle votazioni in Florida nel 2000 tra Bush jr e Al Gore), dovremmo muoverci con maggior cautela. Occorre come minimo un organo indipendente che possa controllare che non vi siano manipolazioni o addirittura frodi.

E poi, chi e quanti andrebbero a votare? La democrazia on-line solleva questioni che meritano una serie riflessione (che mi pare invece manchi nel M5S): implica che le persone dispongano sia delle attrezzature (computer, connessione) sia delle necessarie competenze informatiche (si deve tener conto, cioè, del c.d. digital divide, cioè l’inabilità o indisponibilità di alcune fasce della popolazione ad usare la Rete). Implica anche che i cittadini vogliano partecipare secondo questa modalità; ma esiste anche un sacrosanto diritto ad essere disconnessi!

A votare poi sono spesso numeri molto ridotti rispetto agli aventi diritto; se manca la rappresentatività, anche le decisioni che ne emergono mancano di legittimità. Le interazioni on-line chiamano a raccolta le piccole tribù di chi è già impegnato ed ha un’idea abbastanza radicata e non ha molta voglia di cambiarla. Il politologo statunitense Robert Putnam distingue tra processi partecipativi di bonding o invece di bridging. I primi sono quelli che rafforzano i vincoli già esistenti fra gruppi omologhi: ciascun clan o tribù discute solo per confermare le proprie opinioni e identità; non sono interessati ad idee diverse dalle loro (la rete è piena di siti di fanatici fondamentalisti dei più svariati orientamenti ideologici). I secondi, invece, aiutano a creare bridges, ponti, tra gruppi non omogenei; è questo che serve a una società complessa, plurale e articolata come sono quelle contemporanee; la diversità è ricchezza: va fatta emergere e valorizzata. Non mi sembra che il M5S (ma neanche i partiti tradizionali per la verità) si faccia carico di questo aspetto, ovvero del coinvolgimento della generalità dei cittadini e non solo dei ‘loro’.

Molti processi partecipativi (penso ad esempio al processo di riforma della Costituzione irlandese) ormai usano internet per integrare, non sostituire, i processi partecipativi in presenza (o face-to-face, come si dice in inglese). I sindaci ed i movimenti politici che fanno riferimento ad Internet (penso a Rousseau del M5S, che a differenza di altri movimenti europei simili non usa software open source, solo per indicare uno degli aspetti problematici) dovrebbero avere coscienza dei limiti e dei seri rischi della democrazia on-line.

Una strada diversa e davvero innovativa sarebbe quella di costituire dei Forum composti da campioni della popolazione rappresentativi sotto il profilo socio-demografico di cittadine e cittadini estratti a sorteggio. I cittadini sarebbero chiamati ad esaminare le varie proposte di cambiamento, e sarebbero remunerati con una sorte di gettone, come si fa oggi per i consiglieri comunali e come si faceva nella polis greca. La proposta fu fatta in campagna elettorale dal citato Sindaco di Bologna, ma mai attuata.

 

Giandiego Carastro

 

Per chi volesse continuare a riflettere su questi temi può ascoltare un intervento da Rodolfo Lewanski al Tedx di Bologna del 2016.

La prossima democrazia | Rodolfo Lewanski | TEDxBologna

 

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