I cattolici democratici nell’epoca di Francesco

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La domanda posta da Ernesto Galli della Loggia a conclusione del suo editoriale apparso sul Corriere della sera del 29 maggio (“L’impegno politico della Chiesa“) ha trovato i cattolici, specialmente quelli più sensibili al valore dell’impegno politico, clamorosamente afoni. Riproduco qui la sua domanda finale: “Può mai esserci l’impegno politico dei cattolici senza la Chiesa o a prescindere da essa?”

Benchè il racconto contenga alcune forzature, per esempio quella che negando una certa autonomia del laicato cattolico, lo rappresenta costantemente eterodiretto dalle gerarchie, tuttavia ha il merito si svelare gli attuali limiti del laicato impegnato, resi ancora più evidenti e drammaticamente gravi se considerati alla luce del magistero di Papa Francesco. Provo ad elencarne alcuni.

Il primo limite riguarda  la consapevolezza dell’impegno nella storia. Dopo decenni di piani pastorali incentrati sul primato della formazione, che ne è del laicato “educato”? Forse è stato fin troppo “educato” al punto da ritenersi molto diverso da quanti abitano la società civile e la società politica? Diverso e quindi volutamente distante dalla vita civile e politica. Una vita altra da quella che anima il proprio mondo. Se così fosse, se davvero “la differenza cristiana” si declinasse come radicale alterità rispetto alla polis e perciò vissuta nel chiuso di una cittadella fortificata, ci si dovrebbe chiedere se i criteri in base ai quali questa lunga attività educativa è stata sviluppata non fossero proprio coincidenti con “lo stile di vita del Vangelo” che rifugge da atteggiamenti censori  e integralistici (cfr. Evangelii Gaudium n. 168).

Di fronte ai tanti laici cristiani impegnati in attività di volontariato, queste considerazioni potrebbero sembrare ingiuste.  E tuttavia non si possono non riconoscere i danni non soltanto culturali ma anche pastorali che la scuola del “Progetto culturale” del cardinale Ruini ha prodotto. Paradossalmente, il massimo di “religione civile”, cioè di riduzione della fede in ideologia, che quel Progetto ha avuto come proprio precipitato chimico, ha coinciso con il massimo di irrilevanza politica del laicato e contemporaneamente con il massimo di interventismo della Chiesa gerarchica nel dibattito politico. Se questo era il disegno strategico, perché allora insistere attraverso elefantiaci piani pastorali, il sostegno alle scuole diocesane di formazione all’impegno sociale e politico sulla educazione dei laici? Per la evidente ragione che quella formazione sarebbe stata funzionale alla strategia di una Chiesa alleata del potere, al quale avrebbe chiesto (legislazione sui cosiddetti valori non negoziabili) e al tempo stesso dato (sostegno politico al centrodestra). Illuminanti da questo punto di vista sono le parole riportate nel documento dell’episcopato italiano “Evangelizzare il sociale” del 1992, dalle quali emergono, tra le altre, due direttive: distinguere e al tempo stesso connettere l’ordine legale e l’ordine morale, ostacolando la deriva di una legislazione sempre più lontana dai valori non negoziabili; rimanere fedeli alla propria identità, pur nel dialogo con tutti.

Tali direttive hanno condotto, di fatto, allo snaturamento del ruolo del laicato impegnato politicamente perché si è voluta negare insieme alla sua funzione anche la sua identità: vivere, cioè, la differenza cristiana nella mediazione culturale, ricercando nelle forme e nei limiti della democrazia e quindi fuori da una strategia difensiva e di concorrenza le soluzioni più eque e condivise. Risuonano ancora forti, ma purtroppo poco ascoltate, le parole di Aldo Moro all’indomani del referendum sul divorzio: “settori dell’opinione pubblica… sono ora ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo strumento della legge, con l’autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani. Di questa circostanza non si può non tener conto, perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro Paese, consigliando talvolta di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale.”

Oggi, che con Papa Francesco la Chiesa è chiamata a ri-orientarsi verso l’essenziale della fede, dopo “un lungo approccio prevalentemente cumulativo, preoccupato di dare ragione sempre, in ogni punto dell’enunciazione e della comunicazione, del contenuto dogmatico della fede cristiana, si recupera dalla tradizione una concezione processuale e relazionale, cioè a dire l’affermazione della relazionalità stessa del mistero cristiano, incentrata sull’offerta del Vangelo di Dio che implica il riconoscimento della libertà. La parola di Dio procede nelle coscienze. Da qui scaturiscono conseguenze profonde sul piano della figura della Chiesa e del suo rapporto con le diverse realtà concrete” (Gianfranco Brunelli, “Il Regno” n.10/2017)

Una delle conseguenze riguarda il rapporto tra la fede e la storia ed in particolare il rapporto tra i fedeli laici e la politica. Questi ultimi sono chiamati a riprendersi quella autonomia che è condizione essenziale per esercitare la responsabilità nella città degli uomini. Di più, l’autonomia è la loro assunzione di responsabilità, è il correre da soli il rischio, è il loro modo personale di rendere un servizio e di dare, se possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale” (Aldo Moro). E con l’autonomia si potrà davvero esercitare il principio di non appagamento che impedirà di arrendersi all’ordine sociale esistente e perciò di essere sempre disponibili al cambiamento.

Il secondo limite, strettamente connesso al primo, riguarda l’attuale predominanza di un laicato clericale. E’ soprattutto quello che anima la vita parrocchiale, ma non solo. Come potrà manifestarsi una Chiesa in uscita se i laici per primi sono prigionieri di logiche di indifferenza, di distaccata neutralità, di tranquilla equidistanza; logiche per le quali si è indotti a dire di non essere ne con gli uni né con gli altri per essere a posto, quando poi, al momento opportuno,  si sceglie l’uno o l’altro a seconda dei vantaggi che vengono offerti? Prigionieri anche della logica dell’attivismo parossistico difficilmente distinguibile dalla società dello spettacolo. Per una Chiesa in uscita occorrerebbero laici che tenendo viva la riserva escatologica dell’annuncio cristiano sanno respingere le logiche della religione mondana che affidano all’efficacia concreta, al successo delle singole iniziative, al numero delle folle che riempiono strade e piazze, la valutazione dell’annuncio.

Un terzo limite, infine, riguarda il metodo attraverso il quale prende forma l’agire del laicato cattolico. Se, per dirla ancora con Francesco, è proprio della politica “promuovere processi e non occupare spazi”, questo è anche il metodo che dovrebbe guidare i fedeli laici impegnati nella polis. Gli ultimi fallimentari tentativi volti a ricostituire una presenza identitaria cattolica (da ultimo i famosi convegni di Todi) dicono quanto nel mondo del laicato clericale sia ancora radicata l’idea, storicamente oltre che culturalmente superata, che solo in uno spazio definito (come lo è stata la DC) si dia la possibilità di una incisiva presenza politica del cattolicesimo. Uno spazio che, anche per la comodità rappresentata dallo stare comunque sotto un ombrello protettivo, per pigrizia intellettuale, per pudore di schierarsi, di non assumere scelte chiare, è tradizionalmente concepito come moderato, quasi che una particolare modalità d’essere della persona possa tradursi in categoria politica. Fino a quando questo mondo non comprenderà che “il tempo è superiore allo spazio” e che l’efficacia del cattolicesimo politico si misura oggi nella capacità di discernere i segni dei tempi e di promuovere conseguenti processi di cambiamento non solo della realtà circostante ma anche e soprattutto delle prassi attraverso le quali si è storicamente concretizzato l’impegno politico dei cattolici, qualunque appello ad un rinnovato protagonismo cadrà nel vuoto.

Ma il discorso sul metodo non riguarda soltanto i cattolici clericali. Anche una parte consistente di cattolici democratici negli ultimi anni sembra aver abbandonato l’aspirazione a qualificare il proprio impegno politico in termini di processi da promuovere e non di meri spazi da occupare. Le ultime vicende scissionistiche che hanno coinvolto il partito democratico o comunque di presa di distanza dalla proposta riformista risultata maggioritaria in occasione del suo ultimo congresso, ne sono un evidente esempio. La tentazione, piuttosto ricorrente nell’area culturale progressista, di distinguersi al suo interno non tanto in base ai contenuti quanto piuttosto in base ai protagonismi individuali ha colpito anche quel cattolicesimo conciliare cresciuto su una idea mite di politica. Il riformismo è stata sempre la sua cifra insieme al riconoscimento, appunto, del limite della politica: oggi che quella cifra sembra finalmente connotare la forza politica che si è contribuito a fondare, il loro apporto viene meno. Un epilogo senza dubbio poco esaltante.

Un deficit culturale, un deficit di autonomia, un deficit di capacità innovativa fanno del laicato cattolico una realtà in forte ritardo rispetto alle sfide che Francesco da un lato e la società dall’altro pongono oggi.

 

Lecce, 6 giugno 2017

 

Luigi Lochi

ex direttore generale di Libera

luigilochi@gmail.com

One Comment

  1. Il contributo di Lochi è interessante e mette in luce una serie di nodi su cui sarebbe utile continuare a confrontarci. Più che commentare, vorrei aggiungere alcune considerazioni “a caldo”.
    1.E’ vero che in Italia viviamo un po’ il timore di una presenza non abbastanza “rilevante” dei cattolici. Ma non è che negli altri paesi occidentali le cose vadano molto meglio… Non dico questo – ovviamente – nell’ottica del “mal comune, mezzo gaudio” ma per contestualizzare un problema che inevitabilmente si pone in una situazione di forte “laicità” delle strutture politiche, persino dove ancora si chiamano CDU come in Germania o sono in tradizionale continuità con i partiti di ispirazione cristiana, come in Spagna. Credo cioè che ancora non abbiamo metabolizzato la nuova sfida di “navigare in mare aperto” senza l’ombrello protettivo di collateralismi più o meno espliciti. Semmai, quello che forse manca è un maggiore dialogo (che non vuol dire appunto collateralismo) tra chi fa politica e le espressioni “di base” della cattolicità (parrocchie, associazioni, ecc.). Su questo bisognerebbe lavorare, anche superando alcune diffidenze che hanno certo le loro buone ragioni (diffidenza verso la politica, paura di essere strumentalizzati, problemi di “par condicio”, ecc. ecc.) ma che rischiano di bloccare anche tentativi seri, trasparenti e in buona fede.
    2. Un secondo tema è quello delle modalità con cui i cattolici possono essere in qualche modo “protagonisti” della vita politica. Apro una parentesi: andrebbe fatta un’analisi un po’ più “generosa” su quello che già c’è: un presidente della Repubblica che viene da quel mondo, molti deputati, senatori, consiglieri regionali, comunali, sindaci, responsabili di enti pubblici… A volte ho come l’impressione che sottovalutiamo il loro lavoro e il loro apporto, come se il valore di un impegno fosse tale solo se dotato di un’alta visibilità e identificato come “collettivo”. Ma questo è possibile (ed opportuno) solo in alcuni, specifici e limitati casi: avrei qualche dubbio su un “fronte cattolico” in merito a una determinata legge o riforma, mentre mi aspetto dai cattolici impegnati in politica che su quella legge o riforma ci mettano tutto il loro impegno affinchè sia giusta, finalizzata al bene comune, ecc. Tornando al punto, è chiaro che oggi non è facile per un cattolico percorrere la strada dei partiti e dei movimenti; e d’altra parte, sono questi gli strumenti con cui fare i conti. Non ho soluzioni da proporre, ma certo occorre in qualche modo incoraggiare anche questo tipo di “vocazione”, soprattutto nei giovani, superando – pur con un doveroso senso critico – un eccesso di diffidenza e forse una sorta di illusione di “purezza” (che Papa Francesco però invita caldamente a lasciarsi alle spalle!) che spinge molti a “tenersi lontani” dall’impegno politico.
    3. Approfitto per aggiungere una terza osservazione. Giustamente, oggi i cattolici sono sparsi un po’ ovunque e, al di là di alcuni tentativi – lodevoli – di ritrovarsi a volte su alcune scelte comuni, tale situazione è destinata a perdurare. Questo fatto ha secondo me però impedito di discutere con un po’ di serietà sul “come” si sta dentro a una vita di partito o di movimento.
    Ci sono partiti in cui su alcune questioni i politici cattolici si sono fatti sentire o hanno cercato di dare un contributo specifico, certo consci della necessità di mediazione. Ci sono partiti in cui alcune differenze di posizione o sottolineature particolari, ci sono e sono rese pubbliche. Ci sono partiti e movimenti, invece, in cui di fronte a certe scelte, prese di posizione ufficiali o affermazioni del leader, non abbiamo mai o quasi mai sentito una parola di dissenso o di distinguo o di diverso approccio da parte di quei cattolici, che pure sicuramente ci sono, presenti in quel partito o movimento. Tanto per non far nomi, pensiamo al tema dell’immigrazione e dell’accoglienza dei profughi. Ecco, credo che anche questo sia un elemento su cui occorre un qualche passo avanti.

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