Giustizia, equità e imparzialità

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L’articolo è uscito su “Scuola e formazione”, rivista della Cisl Scuola n. 11-12/2015.

 

Una definizione ed alcune chiose

Ai giuristi piace molto partire da definizioni e classificazioni per avere, almeno all’inizio di un ragionamento, qualche certezza minima, da problematizzare nel prosieguo del ragionamento. Non mi sottraggo a questa abitudine. La prima definizione che lo Zingarelli dà della giustizia è la seguente: “virtù per la quale si giudica rettamente e si riconosce e si dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, una delle quattro virtù cardinali secondo la teologia cattolica”. Come suoi sinonimi vengono indicati l’equità e l’imparzialità.

Facciamo quindi qualche chiosa anzitutto sulle virtù cardinali e quindi su questi sinonimi.

Le altre virtù cardinali sono prudenza, fortezza e temperanza e vengono tradizionalmente subordinate alla giustizia. Infatti le altre tre si riferiscono alla persona e alle sue attitudini che devono consistere in un discernimento sensato e realista (prudenza), nella capacità di sfuggire alla pigrizia e di tener fermi gli obiettivi (fortezza), nel non diventare prigioniero delle cose (temperanza). La giustizia è di livello superiore anche perché non riguarda tanto il rapporto della persona con se stessa, col proprio autogoverno, ma coinvolge il rapporto con gli altri e con Dio, dando a ciascuno il suo. “Unicuique suum”, uno dei principali precetti già del diritto romano, è il motto che compare sulla prima pagina dell’ “Osservatore Romano” per affermare l’importanza di questa virtù, insieme alle parole “non praevalebunt”, che si riferisce alle porte dell’Inferno, collegando così la virtù della giustizia alla speranza sull’esito finale della vicenda umana. Come vedremo tra breve, però, per quanto superiore, la giustizia è comunque legata indissolubilmente alle altre tre virtù.

I due sinonimi individuati dallo Zingarelli, equità ed imparzialità, collegano la giustizia a due accezioni di uguaglianza: quella formale, che esclude discriminazioni, e che comporta l’imparzialità; quella sostanziale, che richiede di considerare la diversità delle situazioni di partenza e che sfocia nell’equità, ossia anche in trattamenti ragionevolmente differenziati per realizzare davvero una parità dei punti di partenza.

Il pensiero democratico del secondo dopoguerra di fronte ai dilemmi posti dalla giustizia: partire da Mounier

Le ultime righe dell’ultimo scritto del filosofo personalista Emmanuel Mounier prima della morte, nel 1950, (“Fedeltà”) ci rivelano tutti i dilemmi del pensiero democratico rispetto alla giustizia.

Riprendiamolo per esteso:

“Contro il pessimismo noi abbiamo una fede. Contro l’ottimismo il morso dell’ingiustizia.

L’ingiustizia! Migliaia di persone dabbene la ignorano ancora con tutta tranquillità: esse oggi si fanno, della loro indignazione contro il comunismo, un riparo contro i loro propri rimorsi e contro il suo ossessionante richiamo. Noi ossessioneremo le loro notti, le nostre notti con la sua voce rauca. Se la rivoluzione socialista devia, è troppo comodo giudicarla, volgersi dall’altra parte e mettersi tranquilli. Più che mai bisogna che riprendiamo la rivolta dei nostri vent’anni, le rotture dei nostri venticinque anni. Il cristiano non lascia il povero, il socialista non abbandona il proletariato o essi spergiurano il loro nome. Gli uffici competenti si guarderanno bene dal contare su di noi per questo spergiuro”.

Cosa significano queste parole? Fino a che punto la nostra volontà di praticare la virtù della giustizia deve tenere conto della limitatezza della creatura umana (espressa dal peccato originale) per cui la politica, soprattutto nelle sue utopie egualitariste, non deve pensare di poter creare il Paradiso sulla terra (in fondo il “non praevalebunt” è posto alla fine della storia), e fino a che punto invece essa non debba avere l’ambizione sin d’ora di redimere il mondo, di non rassegnarsi alle disuguaglianze, di dare fino in fondo a ciascuno il suo, non arrendendosi quindi alle teorie conservatrici? Che rapporto c’è tra il “già” della giustizia promessa, in una storia che parte dalla Creazione e che è attraversata dalla Risurrezione, e il “non ancora” in cui davvero “non praevalebunt”?

Il secondo dopoguerra, il contesto in cui scrive Mounier, promette un salto di qualità della democrazia. Allo Stato liberale oligarchico subentra la promessa dello Stato sociale. Esso tiene conto delle differenze di partenza che impediscono una vera uguaglianza delle opportunità. Dare a ciascuno il suo (la classica definizione di giustizia) non può essere interpretato come prescindere da uno squilibrio di potere, specie economico: “Non c’è niente di più ingiusto che fare parti uguali tra diseguali”, come avrebbe poi detto don Milani. Perché ciascuno abbia effettivamente il suo servono interventi compensativi di cui si facciano carico le istituzioni.

Il potere del denaro trova quindi un suo bilanciamento nel potere politico, che risponde così alla parte di verità della critica marxista allo Stato liberale, che la giustizia affermata come non discriminazione sia poi negata dagli squilibri economici. Se infatti il ruolo del potere politico si limitasse a proibire sia ai ricchi sia ai poveri di dormire sotto i ponti (secondo l’esempio classico che si fa per sottolineare il carattere limitato dell’uguaglianza formale), in realtà non darebbe a ciascuno il suo giacché i primi non hanno in alcun modo la tentazione di andare lì a dormire, ma solo i secondi possono esservi costretti per necessità. Ciò non significa ignorare le ragioni per le quali, come scrive Mounier, “la rivoluzione socialista devia”, con i regimi delle cosiddette democrazie popolari, dove l’eliminazione della proprietà privata crea uno squilibrio opposto, verso i detentori del potere politico.

La giustizia è possibile, come spiega il filosofo liberal americano Micheal Walzer, perché le democrazie contemporanee sono poliarchie, bilanciano sfere diverse, sottosistemi diversi, il cui pluralismo permette l’equilibrio: “E’ necessario che il potere politico e la ricchezza si tengano a freno a vicenda: poiché eserciti di persone ambiziose premono da un lato del confine abbiamo bisogno di eserciti analoghi che premano dall’altro lato…Una concezione meno ristretta della giustizia richiede non che i cittadini governino e siano governati a un turno, ma che governino in una sfera e siano governati in un’altra, dove ‘governare’ non significa esercitare un potere, ma avere una parte del bene distribuito, qualunque esso sia, maggiore di quello di altri”.

La giustizia si trova in altri termini in un equilibrio tra la libertà e l’eguaglianza, dove il pluralismo tra sfere diverse tutela da forme opposte di monopolio del potere.

Il pensiero democratico e le esigenze di giustizia oltre le scorciatoie stataliste

Tuttavia, come nota il giurista spagnolo Gregorio Peces Barba, allievo sia di Jacques Maritain sia di Norberto Bobbio, i principi della Rivoluzione francese, dentro cui è chiamata a muoversi la virtù della giustizia sono tre, non solo due. Non possiamo dimenticare la fraternità o depotenziarla, ritenendola solo una virtù privata. Senza cadere in scorciatoie semplicistiche e mitologiche sulla società civile nazionale e sovranazionale che esprimerebbero solo “un rifiuto della politica, assumendo il valore della libertà solo dal punto di vista della società civile”, tuttavia, spiega Peces Barba, bisogna pensare l’impegno per l’uguaglianza non tanto e non solo come un’espansione dell’intervento diretto delle istituzioni, ma anche come sollecitazione all’impegno dei cittadini singoli e associati dentro visioni più “cooperativistiche o partecipative”.

Questa è un’intuizione preziosa perché, mentre nel secondo dopoguerra erano soprattutto le istituzioni degli Stati nazionali a funzionare come promotori primi e diretti dello sviluppo, nelle società più complesse degli ultimi decenni non solo si sono pluralizzati i livelli di governo (dalle Regioni all’Unione europea), ma l’intervento pubblico si relazione diversamente rispetto ai soggetti privati, singoli e associati. La tendenza, nelle nostre società dove è centrale il bene conoscenza, va più nel senso di incentivare, di regolare, di puntare a sinergie e meno nel senso di gestioni dirette per evitare le degenerazioni stataliste e burocratiche.

Spesso, infatti, un’espansione sproporzionata dell’intervento pubblico diretto e, quindi, dei livelli di tassazione e di spesa pubblica, non è andata insieme né allo sviluppo economico né alla riduzione delle disuguaglianze.

Di fronte a queste contraddizioni è emersa la spinta a considerare ormai obsoleta la virtù della giustizia e a ritenere che solo un rilancio di spinte egoistiche, anti-ugualitarie potesse trascinare con sé la crescita complessiva, che avrebbe poi potuto riversarsi su tutti (o quasi tutti) in modo benefico sul lungo periodo. Una teoria provvidenzialistica contro la qual è stata forte e costante in questi anni la critica di Papa Francesco anche perché, così facendo, oltre alla giustizia sarebbero state sacrificate anche le altre virtù cardinali: la prudenza perché essa esprime una versione semplificata del discernimento, la fortezza perché si accetta la prima strada che appare più semplice e la temperanza perché il potere economico crescente di pochi diventerebbe un fine, lasciando alle persone esclude solo la strada di deboli protezioni se non la mera rassegnazione.

Tuttavia anche il rilancio della virtù della giustizia non può a sua volta prescindere dalla prudenza, cioè da un discernimento consapevole della complessità, della discontinuità col secondo dopoguerra: non basta unirla alla fortezza e alla temperanza. Termini come sussidiarietà, opportunità, welfare community contribuiscono a formare il nuovo vocabolario della virtù della giustizia. Per questo, come sostiene Peces Barba, è doveroso partire da una “descrizione analitica come quella che propone Bobbio” ma integrata in uno schema a tre (libertà, eguaglianza e solidarietà) che esprime più correttamente “il nucleo dell’etica pubblica della democrazia”.

La giustizia e i pre-requisiti istituzionali

La giustizia non è comunque solo una virtù che diviene effettiva nel rapporto tra la persona e le realtà collettive sulla base di volontà personali o di gruppo, di interessi economici, di visioni politiche e ideali. Essa richiede come pre-requisito una struttura istituzionale adeguata, senza la quale le volontà, gli interessi e le visioni rischiano di girare a vuoto.

Questa consapevolezza si sdoppia in due aspetti.

Il primo riguarda l’intero continente europeo ed è relativo all’adeguatezza dei livelli di governo: quale giustizia si può perseguire quando la competizione politica è nazionale, ma le politiche sono strettamente connesse? Con quale efficacia si possono prendere decisioni collettive quando ci si basa ancora largamente sull’unanimità tra Governi nazionali?  Più che decisioni ispirate alla giustizia un tale metodo decisionale può produrre momentanee e reversibili intese basate su convenienze.

Il secondo, invece, è specifico del caso italiano: la virtù della giustizia può essere praticata a livello politico-istituzionale in modo efficace quando a livello di governo si può realizzare un ciclo coerente di tipo decennale non soggetto a eccessivi poteri di veto. Pur nell’ambito più modesto di intervento diretto delle istituzioni pubbliche segnalato al punto precedente, questi standard restano comunque decisivi, specie se si considera che essi sono tipici dei sistemi politici egli altri Paesi europei con collaboriamo e con cui competiamo.

Una conclusione: i simboli della giustizia tra bilancia e spada

I simboli tradizionalmente associati alla giustizia sono due e proprio la loro diversità esprime la complessità che deve affrontare chi vuole praticare questa virtù ai vari livelli: la bilancia coi due bracci simmetrici, che allude ad equilibrio, ragionevolezza e pacatezza, e la spada, che allude al potere senza il quale essa non può farsi valere a livello collettivo e mettere in crisi quelle situazioni che Mounier definitiva “disordine costituito” e contro cui invocava un “ordine giusto”.

Un’intuizione ancora feconda, tenendo conto della diversità delle situazioni storico-sociali.

Stefano Ceccanti

 

 

One Comment

  1. Pur condividendo buona parte dell’articolo, non posso non rilevare che la giustizia ancorata alla sola etica pubblica è zoppa.
    Si rende necessario valorizzare un coinvolgimento dei singoli in quei valori che pur avendo legittimazione pubblica, solo se condivisi da ciascuna e di conseguenza da una comunità costituscono regole. Oggi manca il ricoscimento del disvalore, il riconoscere che un autorità dotati di poteri che le discendono in modo legittimo possa tutelare il bene comune. Si rende necessario riconoscere quei corpi intermedi che traducono l’ispirazione di giustizia del singolo in una giustizia condivisa.
    Grazie dell’attenzione
    Giuseppe Cannella

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