È finita la «vecchia politica»?

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A fronte della difficile impasse post-elettorale viene da riflettere su temi di portata non contingente, che paiono emergere dai fatti che abbiamo sotto gli occhi. Difficile è infatti pretendere di commentare la contingenza, anche se non siamo così ingenui da non capire che molto del futuro del paese dipende da alcune questioni contingenti (successo o meno della proposta bersaniana di «governo di cambiamento» senza maggioranza, aperto al M5s; tenuta della linea del Pd sul rifiuto di accordi con Berlusconi; elezione di un capo dello Stato di vera garanzia; capacità o meno di trovare una soluzione limpida per governare; capacità dei partiti di affrontare in modo innovativo l’ipotesi del ritorno alle urne).

Il voto ha però messo sotto gli occhi un problema enorme, di cui già ci dicevamo consapevoli (vedi il nostro appello pre-elettorale): la legittimazione della politica in questo paese. L’erosione della destra forza-leghista, il fallimento dell’ipotesi «sopra le parti» di Monti, la mancata vittoria del centro-sinistra, la valanga di voti al Movimento cinque stelle, sono tante facce di un unico problema. Siamo in una crisi drammatica di passaggio. Il paese non sopporta più il modo tradizionale di condurre la politica. Una quota dell’elettorato aveva già da tempo appaltato il problema al modello cesaristico-aziendalistico introdotto da Berlusconi (vi ricordate le tesi sulla politica del «fare» senza troppe lungaggini? I deputati che mancano si comprano, non si convincono…). Un’altra parte del paese ha scelto l’alternativa grillina, proprio come messaggio polemico. È rimasta un’area minoritaria a credere nel modello di un governo generato da un partito o una coalizione di partiti, interpretati come esperienze collettive organizzate e radicate nella società.

Ora, bisogna ammettere che il Pd è stata la forza che ha più incarnato e difeso questo modello ereditato dal passato. Lo ha fatto con molti, moltissimi limiti: in larghe parti del paese il partito è scomparso come realtà popolare; i suoi dirigenti si sono tramutati spesso in una burocrazia incomparabilmente più competente di altri, quanto però seduta sulle proprie posizioni e tendenzialmente inamovibile; le logiche interne sono apparse quelle di un equilibrio di conventicole personali, più che uno spazio per un arioso confronto di idee; gli organismi partecipativi sono stati estenuati, tra primarie dirette e assemblee pletoriche; le forme comunicative sono apparse omologate agli standard televisivi. Ma in fondo, il Pd ha difeso un modello di politica rappresentativa, e il volto stesso di una persona credibile come Bersani lo rappresenta: non sarà un predestinato, avrà poco spirito di guida, ma esprime proprio la solidità di un percorso collettivo in cui si sono fatti i gradini, si sono studiate le questioni, si sono incontrati i gruppi e i referenti sociali, si sono discussi i problemi, si sono votate le cariche, si è fatto notte sui tentativi di tenere insieme le persone (che vuol dire anche le loro ambizioni, aspettative, psicologie, oltre che idee e opinioni).

La domanda è quindi questa: le difficoltà del Pd sono il segnale della fine di un modello di partecipazione politica basato sui partiti, fondato nella nostra costituzione (art. 49), o solo di una sua eclissi momentanea? Si può rilanciare il modello? E come? Mi pare illusorio che basti un leader più giovane e telegenico (quando un quarto degli italiani ha votato per un movimento che non va in televisione). Non basterebbe una campagna più allegra, uno svecchiamento dell’immagine, un linguaggio più diretto, qualche proposta di risparmio sui costi. Tutte cose sensate, per carità, ma bastano a togliere l’identificazione della politica con l’odiata «casta»? Forse la crisi del modello è più profonda.

L’alternativa ad oggi presente non è esattamente confortante. Ha sostanzialmente vinto le elezioni un movimento che parla di democrazia diretta tramite il web e che quando sul web è apparsa una tesi sgradita al leader ha subito parlato di «infiltrati»; che appare una sorta di allegra comitiva assembleare, in cui «ciascuno conta uno», ma in cui il leader dell’assemblea conta qualcosa in più; che ha presentato un programma ricco di belle proposte isolate su alcuni argomenti e farcito di desolanti silenzi su altre questioni non meno importanti; che ha proposto un referendum sull’euro come momento di democrazia su una questione importante, sostenendo che qualunque cosa i cittadini votino andrà bene; che ha selezionato in modo approssimativo e mandato direttamente in parlamento una vagonata di brave persone, spesso del tutto digiune di un senso della cosa pubblica; che ha mostrato allegra indifferenza a misurarsi sui problemi dei costi delle proprie proposte (vedi alla voce «reddito di cittadinanza»); che sostiene sia da superare il divieto al vincolo di mandato, caposaldo strutturale delle democrazie liberali; che ha dato voce a tutte le insoddisfazioni, semplicemente sommandole anziché tentando di renderle compatibili.

Se fosse vero che siamo a una svolta della forma della politica, bisognerebbe un po’ discutere di queste cose. Insomma, se la democrazia rappresentativa mediata dai partiti è irrimediabilmente «vecchia», non è che il nuovo garantisca di per sé il futuro. Come risponderemo, nella «nuova politica», a quelle funzioni essenziali che la democrazia dei partiti ha bene o male espresso nella storia della democrazia: la contendibilità delle élites che condividono un progetto; la capacità di ascoltare e filtrare gli umori popolari, mediandoli con il senso delle istituzioni; la selezione della classe dirigente attraverso percorsi condivisi; la costruzione di sintesi tra progetti e istanze diverse, in nome di una visione del bene comune; la capacità di costruire compatibilità responsabili tra il desiderabile e l’ottenibile?

 

 

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  1. Condivido lo spirito dell’articolo e credo sia necessario prendere atto che un’epoca è finita. Dobbiamo smetterla però di pensare che un estraneo ha turbato le “nostre” sicurezze le “nostre” consuetudini, come se la “Casa”fosse solo cosa nostra. Abbiamo sempre sostenuto che questa è la “Casa comune”. E come tale tutti hanno la responsabilità di curarla e renderla bella e abitabile. Abbiamo allora bisogno tutti insieme di elaborare un nuovo progetto di partecipazione e di nuova politica. Dobbiamo guardare al futuro al momento in cui si sgonfierà questo “presunto nuovo” fenomeno con i problemi ancora lì irrisolti. Gli interrogativi posti da Guido Formigoni alla fine dell’articolo prefigurano un itinerario di riflessione e di elaborazione a cui i Cattolici Democratici non possono sottrarsi. E’ opportuno approfondire e studiare tutte quelle pratiche di partecipazione a cui noi cattolici siamo abituati, a partire dalle varie esperienze di base dell’America Latina a quelle sperimentate in varie parti d’Europa a cominciare dall’Italia ( ricordiamo l’esperienza di Dossetti e del suo libro bianco)per suscitare una ripresa del gusto a un impegno concreto e nella speranza e nella possibilità di realizzare il bene comune. Leopoldo Rogante

  2. il cambiamento è un processo continuo, talvolta più lento, altrimenti più rapido, ma comunque incessante;
    spesso ce ne dimentichiamo, abituati a non pensarlo, prevederlo e progettarlo; sicchè, certe fasi più radicali ci trovano impreparati
    mi pare che ciò ponga una questione riguardante la totale mancanza di azione culturale/formativa che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni: sono cresciuto in un’azione cattolica, che – negli anni ’50 – mi ha dato estati intere di campi-scuola dove studiavamo l’antropoligia con anile e l’economia con toniolo; il mio compagno di banco iscritto alla fgci aveva le stesse opportunità, studiando gramsci e gli internazionalisti
    oggi, anzi da molti anni, nulla!
    fanno scuola i dibattiti televisivi e che scuola!!! con qualche giovane esibito come presenza in sala, ma gli indici di ascolto dicono ben altro, al riguardo: i giovani guardano verso altri scenari!
    l’unica attività di formazione che io conosca, è la scuola estiva di sovere delle famiglie della visitazione: grazie, caro don giovanni nicolini: una goccia nel mare dell’indifferenza!
    possiamo cominciare a pensare duraturi progetti di formazione di lungo periodo, che diano sostanza al momento delle scelte politiche, accompagnando il lavoro di approfondimento (questo esistente, per fortuna) prodotto da riviste e convegni?

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