Creare lavoro: le responsabilità della politica

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E’ fondamentale che si sia ricominciato a discutere di lavoro. La sua carenza oggi è un dramma civile, sia per la generazione giovane che per coloro che avanti negli anni il lavoro hanno perso e non riescono più a ritrovarlo. E quindi ben venga la scelta di Renzi di proporre un Jobs Act come primo e qualificante impegno della sua segreteria. Le riflessioni che stanno emergendo nel dibattito aperto dalla prima bozza di lavoro stimolano però un interrogativo, che potremmo così esprimere: qual è il ruolo della politica nel creare lavoro?

Lo si dice da più parti con grande chiarezza: è un ruolo parziale. Si può discutere di regole sul mercato del lavoro: e qui si apre tutta una riflessione sulle scelte fatte in questi anni e sulle possibilità aperte (procedere, correggere il tiro, tornare indietro). Si possono immaginare interventi e incentivi per la produzione (pur con grande attenzione alle compatibilità e alle regole europee). Si può ragionare su come rendere più efficiente la spesa pubblica per creare lavoro, riducendo gli sprechi (anche se l’impressione è sempre di una coperta piuttosto corta). Alla fine di ognuno di questi discorsi, emerge però la riflessione, un po’ realista e un po’ sconsolata: certo, alla fine il lavoro si creerà solo se l’economia riprenderà, solo se tornerà la crescita, solo se le imprese assumeranno… Non si può, infatti, rappresentare l’intervento pubblico come indefinita creazione assistenziale di posti di lavoro improduttivi, va da sé. La politica sembra quindi avvolta in un velo di limitazione, che è bene prendere sul serio. Ma che forse può – e anche deve – essere sfidato.

Mi spiego: una realistica riflessione come quella sopra descritta sembra figlia di un atteggiamento che attende la soluzione dei problemi da un meccanismo economico che pare in fondo naturale e intoccabile. Ma possiamo contare su questo meccanismo? Purtroppo, sul punto, c’è un’obiezione seria. Veniamo da alcuni decenni di evoluzione del capitalismo contemporaneo che ha fatto della scelta di risparmiare lavoro il dogma centrale di ogni discorso sulla produttività del sistema. Da quando il lavoro (decisivo nella stagione fordista) è diventato un fattore sempre più costoso e antagonista rispetto al profitto, occorre ridurlo al minimo. Sostituirlo con lavoro a più buon mercato (delocalizzando le produzioni dove costa meno), oppure sostituirlo con lavoro inanimato e quindi con le macchine. Quanti ritrovati della tecnologia sono stati indirizzati in questa direzione? Quanto godiamo dei self service, dei telepass, dei pc con cui ciascuno può scrivere correggere e pubblicare testi di ogni tipo, dell’home banking, del fisco online, delle macchinette per fare i biglietti del treno, dei risponditori automatici, dell’e-commerce? Per fare solo esempi legati alla vita comune di ciascuno di noi, senza addentrarci nell’arcano dei meccanismi produttivi di fabbrica, che comunque sappiamo sempre più automatizzati e meccanizzati. E come non notare però che tutte queste benvenute semplificazioni della vita, queste conquiste della civiltà, hanno comportato una massiccia eliminazione di posti di lavoro tradizionali?

Qui allora mi pare che stia un nodo decisivo, una contraddizione seria. Che deve diventare un punto di discussione esplicito. La ripresa dopo la crisi è ancora incerta, ma alcuni dicono che stia arrivando. Se però la ripresa della crescita seguirà ancora queste strade che paiono quasi obbligate, risparmierà ancora e sempre lavoro. Il sistema economico  riprenderà a funzionare, ma la creazione di lavoro non avverrà ai ritmi necessari. Si badi bene: non ci sarà creazione di sufficienti posti di lavoro per garantire la dignità sociale delle persone (soprattutto dei giovani), ma nemmeno per permettere la riproduzione del mercato. E’ infatti lezione cruciale della stagione fordista che l’espansione necessaria del mercato si basa soprattutto sui redditi della classe media e delle classi popolari, in gran parte legati al lavoro. Si possono incentivare i consumi di lusso, ma resteranno sempre élitari. Se non ci sono sufficienti redditi da lavoro diffusi, il mercato diventa asfittico, non c’è via d’uscita. Quindi, un capitalismo che risparmia lavoro – entro certi limiti, che sono naturalmente tutti da verificare – sega il ramo su cui è seduto. E’ un capitalismo che tende all’autodistruzione, non risponde più alla promessa creativa delle sue origini.

A mio parere, il campo di riflessioni qui indicato in modo soltanto sommario, è un campo decisivo. Non mi pare si tratti di un mero orizzonte di problemi tecnici, pur apprezzandone la dimensione tecnica. Non può che essere considerata anche come una questione pienamente politica: attorno alla sua soluzione ne va infatti il futuro di una società, intesa nel suo insieme. Se la politica vuol tornare a essere credibile, deve mostrare di essere in grado di mordere sulla realtà in modo più incisivo e profondo. Discutiamo quindi di contratti e di tutele, di incentivi e disincentivi, di ammortizzatori sociali e di cassa integrazione, ma non lasciamo questo orizzonte fuori dalla discussione.

 

Guido Formigoni

2 Comments

  1. Credo che Lei abbia individuato il problema principale: condivido l’invito alla classe politica di meditare un nuovo indirizzo. Ho sostenuto in varie occasioni e riprendo in questa il concetto per cui il liberismo e il connesso obiettivo della superproduzione sia fallito miseramente e stia producendo danni non inferiori a sistemi economici antitetici e ancora meno, se possibile, democratici.
    E’ allucinante notare come quasi tutti i politici danzino intorno al feretro del liberismo e dell’economia della crescita come se fossero a una festa di compleanno e non, come evidente, a un triste funerale. L’impatto ambientale dell’economia della crescita, il disastro sociale che si è portato dietro nel mondo Occidentale e Orientale una secolarizzazione che sta evolvendo in a-moralizazzione, e nel mondo arabo e africano un barbaro fondamentalismo religioso sono evidenti, ciò non ostante la parola d’ordine resta crescita e produzione; proprio l’evoluzione informatica e dell’interazione sociale dovrebbe spingere a un nuovo modello di produzione, a un mutamento dell’orizzonte e quindi, a un indirizzo politico che non crei solo voglia di consumo che non può poi consentire o assecondare. La prima cosa da fare è si’ ridare dignità al lavoro, ma prima ancora ridare obiettivi dignitosi al lavoro.
    Non intendo sostenere una versione digitale di Savonarola, ma ripartire dal ruolo dell’Uomo nel mondo che si è costruito o che si è rovinato: finchè dovremo spingere su una crescita che non possiamo sostenere nè socialmente nè ambientalmente produrremo solo dei palliativi edulcorando il disagio sociale e il disastro ambientale. Bisogna ridefinire i bisogni e gli obiettivi: in quel contesto l’economia di tendenziale decrescita fino al raggiungimento dell’equilibrio sociale fra i popoli produrrà nuova occupazione, darà valore diverso alle cose, alle merci, al loro scambio e alla loro produzione.

  2. Guido Formigoni ha totalmente ragione nel porre il problema del lavoro in quei termini. Se il lavoro diventa sempre più tecnologico ed informatizzato i posti di lavoro non cresceranno in modo proporzionale alla (fantomatica) crescita economica. Aggiungerei però un altro spezzone di ragionamento che non può essere tralasciato. A mio avviso, quella che stiamo vivendo da cinque anni è una crisi da sovraproduzione: ai Paesi tradizionalmente industriali si sono aggiunti India, Cina, Sudafrica, Brasile… che producono, bene o male, le stesse cose che producono Europa, USA… Nel contempo i mercati, per i vecchi Paesi industrializzati, si sono ristretti per lo stesso motivo. Si auspica da ogni parte una ripresa economica, ma come può avvenire? Si parla di incentivi alle imprese per assumere, ma assumere per produrre cosa? Arriviamo quindi al vizio originario del capitalismo, quello del circolo bisogno, domanda, produzione, lavoro, mercato, ma questo circolo ha sempre bisogno che il bisogno aumenti. Fino ad un certo punto si sono creati bisogni indotti, cioè bisogni “fasulli”, ma ciò non può proseguire all’infinito…!
    Allora: non facciamo più sorrisetti quando qualche sparuto parla di “decrescita” perché sarà inevitabile. Il problema è che dovrà essere governata dalla politica ritornando a privilegiare il lavoro rispetto alla tecnologia. L’obiezione naturale è però questa: può un solo Paese entrare in questa logica diversa rispetto al resto del mondo? Credo occorra porre in modo prepotente questi temi, altrimenti ci prendiamo in giro parlando di crescita che sappiamo tutti non potrà esserci se non effimera e senza produrre posti di lavoro.

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