Congresso PD: i tre protagonisti, Renzi, Orlando…Franceschini

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Nutro simpatia per Michele Emiliano, per la sua presenza scenica, il suo spirito combattivo, la circostanza che egli dà voce alla questione meridionale da tutti negletta. E tuttavia, ai miei occhi, ciò non basta a compensare i suoi vistosi limiti politici: una vena populista, la difficoltà di leggere la cifra ideologico-politica della sua candidatura, la relativa estemporaneità di un’esasperata vis polemica che forse, più plausibilmente, avrebbe dovuto condurlo a una battaglia fuori dal PD. Spero non me ne voglia se dunque considero attori-protagonisti del “congresso” PD Renzi, Orlando e il convitato di pietra Franceschini che, oggi, sostiene Matteo. A Renzi, non da oggi, imputo la responsabilità di avere alterato prima e affossato poi il progetto originario del PD nel solco dell’Ulivo. Un partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria inclusivo verso il centro ma anche verso sinistra. Si possono discutere dimensioni e responsabilità della recente scissione di Bersani e compagni. Ma resta agli atti che quella frattura, che segna il fallimento del progetto originario (Prodi ha parlato di suicidio), si è prodotta sotto la segreteria Renzi e, a giudicare dal fuorionda di Del Rio, nella sua colpevole inerzia. Personalmente penso che i bersaniani abbiano deciso lasciare il PD tardi e male. Su una causa prossima politicista e dunque oscura ai più (congresso breve, calendario, primarie, conferenza programmatica…). Anche se ragioni politiche ve ne erano eccome da gran tempo. Meglio sarebbe stato, già un paio di anni fa, prendere atto serenamente e responsabilmente di una irriducibile incompatibilità politica e culturale, operare una “separazione consensuale” da governare politicamente, prima che i rapporti politici e personali si incattivissero a dismisura, a una distanza temporale congrua dalle elezioni politiche, così da dare tempo e modo di negoziare un’alleanza e un programma di governo (niente di più e niente di meno) tra soggetti distinti. Sì, un centro-sinistra con il trattino tra centro renziano e sinistra Dem.

Orlando sconta un limite: la sua lunga, organica cooperazione politica e istituzionale con Renzi segretario e premier. Ma oggi, nella sua piattaforma congressuale, muove a Renzi critiche sacrosante (la totale incuria nella gestione del partito, l’appannamento della sua originaria configurazione plurale, politiche timide e distratte nella lotta a disuguaglianze e povertà, appiattimento sull’establishment) e, in positivo, apprezzabilmente propone una politica delle alleanze di centrosinistra una volta dissolte la suggestione renziana del “partito della nazione” e la pretesa/illusione dell’autosufficienza del PD. Di conseguenza, l’impegno a rimettere mano senza indugio a una legge elettorale che non condanni all’ingovernabilità o alle larghe (si fa per dire) intese, imperniate sull’asse PD-FI. Non più il tramontato “partito della nazione” (sepolto dal referendum), ma il “governo della nazione”. La inerzia/reticenza renziana sulla legge elettorale, al riparo della tattica reiterazione della proposta del Mattarellum, che trova concorde solo la Lega e non ha i numeri al Senato, può essere letta in un solo modo, se i comportamenti hanno una logica. Dopo avere vinto agevolmente il “congresso”, Renzi sarà a tutti gli effetti padrone del suo PD attestato intorno al 25%, ma si contenterà di sedere al tavolo dei partiti dopo il voto dove si tratteranno maggioranze, governo e premier (se non vinceranno 5 stelle o destra). Nella più vecchia logica proporzionalista, nell’arte combinatoria tra i vertici di partito a urne chiuse che ha dominato nella prima Repubblica. Francamente un epilogo mesto e paradossale per un baldanzoso novatore che avrebbe dovuto cambiare verso alla politica italiana. Fra l’altro rivelatore di un deficit di ambizione che sorprende, considerato che difficilmente, in un quadro di accordi interpartitici, su una figura divisiva come la sua si potrebbe realizzare la convergenza per palazzo Chigi. Allo stato, più probabile ci torni Gentiloni o un politico versato per la più tradizionale mediazione tra partiti.
Forse si può spiegare anche così il sostegno, sempre condizionato e mobile, di Franceschini a Renzi. Con la teoria, dal primo enunciata e dal secondo praticata senza dirlo, secondo la quale alla classica opposizione destra-sinistra sempre più s’ha da sostituire quella responsabili-populisti. Una tesi significativamente proposta, letteralmente con le stesse parole, da Berlusconi al recente vertice del PPE a Malta. Intendiamoci: al “governo della nazione” basato su PD e FI si potrà essere di nuovo costretti, ma può il PD andare a elezioni con quella proposta esplicita o comunque mal dissimulata? Vi è forse un’altra ragione che spiega il sostegno di Franceschini a Renzi (trattasi di chiave di lettura meno ingenerosa e polemica di quella corrente che più banalmente lo dipinge come disinvolto manovriero e opportunista incline a tradire): chi ha seguito la storia del centrosinistra negli ultimi venti anni sa che egli, in ogni passaggio, dal Partito Popolare alla Margherita sino al PD, è stato uno strenuo difensore del primato del partito, spesso frenando la spinta aggregativa metapartitica di Prodi e degli ulivisti. Lì, nel presidiare il partito, sta la sua relativa forza. Appunto nel partito e nei gruppi parlamentari, più che nella società, Franceschini è sempre stato un azionista che faceva contare la sua quota. E sin tanto che Renzi rappresenterà l’uomo forte del partito, Franceschini, pur con le sue riserve, non lo mollerà. Nonostante, anche in passaggi recenti, si sia visto come, sotto altri profili, quelli che evocano una politica di partito più convenzionale e professionale, Franceschini e Orlando si siano ritrovati. Penso alla loro comune resistenza contro la inopinata spinta di Renzi verso elezioni-rivincita subito dopo la disfatta referendaria. Penso all’apertura di entrambi al premio di coalizione nella legge elettorale. In questa chiave, sarebbe da porre a Franceschini la seguente domanda: se l’avversario sistemico di questa stagione politica è il populismo, chi, dentro la contesa congressuale, tra i candidati Renzi e Orlando, più indulge al populismo light, all’antipolitica e all’antieuropeismo a bassa intensità? Domanda retorica. Improbabile che ottenga risposta. Oggi. Domani chissà.

 

Franco Monaco

 

2 Comments

  1. nel quadro presentato con la consueta acredine personale nei confronti di Renzi, quindi di per se già fortemente discutibile, Franco Monaco sovrastima parlando di scissione di Bersani una semplice fuoriuscita di pochi dirigenti senza seguito.
    Di contro sottostima fortemente il PD (fissando al 25 per cento il futuro risultato elettorale) dimenticando che quella fu la quota dello sconfitto Bersani e che quella sconfitta fu la causa della necessaria alleanza con porzioni di centro destra (peraltro fatta da Bersani e Letta e solo ereditata e gestita da Renzi).
    Oltremodo non menziona in nessun modo Maurizio Martina e la rilevanza politica di questo ticket, ma soprattutto ignora il grande risultato tra gli iscritti del PD di Matteo Renzi (da ricordare che gli iscritti del PD di oggi sono gli elettori dell’ulivo di ieri).
    Tralascia poi totalmente il fatto che la gran parte dei fondatori del PD (eredi dell’esperienza fallimentare dell’Ulivo) sono con Renzi ed erano al Lingotto.
    L’Ulivo ha fallito sotto tutti i punti di vista purtroppo ed è stato affossato da sinistra e dai fuoriusciti di oggi è strano che chi credeva nel progetto originario dell’Ulivo oggi si schiera a favore di ne ha segato rami e tronco

    • Non sta a me difendere Franco Monaco, che peraltro non conosco, ma l’articolo in questione non prefigurava affatto un “quadro presentato con la consueta acredine personale nei confronti di Renzi, quindi di per sé già fortemente discutibile”. Anzi, è stato troppo garbato.
      Il mio pensiero sulla “quistione” Renzi, primarie, scissione, ecc., è il seguente (per quello che vale).
      Bersani et all. hanno sbagliato a consumare la scissione, ma già il loro comportamento attivo durante il referendum, contrario alle decisioni della maggioranza, aveva ferito la normale dialettica tra maggioranza interna e minoranza.
      Ma sono d’accordo con Monaco nell’affermare che Renzi ha una grande responsabilità per quello che è successo, perché da segretario del PD doveva in tutti i modi creare un clima nel partito che tenesse insieme le sue anime interne. Non ha voluto, non l’ha fatto, e la minoranza c’è cascata.
      La sua segreteria è stata deficitaria: ha prevalso più il Presidente del Consiglio che il Segretario del partito di maggioranza, ma non è questo ormai quello che conta.
      Renzi, e con lui i suoi più stretti collaboratori, ha legato l’esito del referendum costituzionale alla prosecuzione della sua attività politica, perché a suo dire non è come gli altri attaccato alla poltrona. Si è dimesso da Presidente del Consiglio, ma non da segretario del PD, con un bel discorso, toccante e molto chiaro; ha suggerito al Presidente della Repubblica, un governo di continuità presieduto da Gentiloni; poi si è preso una bella vacanza da cittadino, quasi normale, maturando però la decisione di rientrare nell’agone politico oscillando tra elezioni subito o a fine legislatura, congresso del PD subito o a scadenza naturale ecc. Poi l’assemblea del partito, da me seguita con attenzione, durante la quale si sono succeduti autorevoli relatori con interventi di alto contenuto politico ed etico, con richieste a Renzi di fare un’analisi politica della sua gestione del partito e del referendum, ma anche di uno sforzo per mantenere unito il partito. Niente. L’assemblea si è conclusa senza la replica del segretario uscente. Poi la scissione, che, ripeto, per me è stato un errore provocare e attuare: quando si è minoranza in un partito si lotta per le proprie idee e per farle prevalere, non si abbandona il campo.
      Il segretario si dimette e s’indice il congresso preceduto dalle primarie. Si candidano in tre, tra cui Renzi.
      Ora io chiedo: quali sono gli obiettivi di Renzi?
      1. Ridiventare segretario del PD.
      2. Vincere le prossime elezioni, a scadenza o prima del previsto, e ridiventare Presidente del Consiglio.
      Io mi domando, un po’ stizzito: visto che Renzi, a dispetto di quanto proclamato durante la campagna referendaria, non ha abbandonato la politica, ma anzi si è rilanciato chiedendo al popolo del PD e agli italiani tutti di sostenerlo per raggiungere i suoi obiettivi, perché ha fatto tutto questo casino (e scusate l’espressione) quando già era segretario del partito e Presidente del Consiglio?
      Se fosse stata vera l’intenzione di prendersi, almeno, una pausa dalla politica attiva, perché non ha accolto l’invito di Mattarella di proseguire la legislatura? Per coerenza con i suoi principi? Ma mi faccia il piacere!!!
      Renzi, forse, tornerà ad essere segretario di un PD indebolito, anche per la scissione fatta, che alle
      prossime elezioni politiche rischia di non essere il primo partito, non parliamo poi di raggiungere quota 40% dei votanti. Per come sarà la legge elettorale, probabilmente il PD non riuscirà a ad avere eletti un numero di deputati superiore a quello oggi esistente in Parlamento; per poter governare, nel caso risultasse il primo partito, dovrà cercare in più direzioni i possibili alleati per formare una maggioranza. Tra le tante non condivisibili, un’affermazione degli scissionisti, credo sia vera: Renzi non riuscirà a coalizzare forze di centro e di sinistra, anzi, probabilmente, sarà costretto ad indicare un “moderato” del suo partito come Presidente del Consiglio.
      Quanti mesi sprecati, quante lacerazioni, quanti disagi istituzionali, per cercare di ritornare a quello che già era: segretario di partito e Presidente del Consiglio.
      E per fortuna che c’è Gentiloni, una persona “normale”, accorta che non fa proclami lancia in resta.
      E non mi sembra che tra gli italiani, ci sia la frenesia del ritorno di Renzi. Quando era in vacanza, tutto procedeva “normalmente” senza di lui. Ed è forse stato questo che lo ha maggiormente ferito.
      Quanta presunzione…

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