Apple e l’Irlanda: il futuro del fisco e della democrazia

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Ha fatto discutere la notizia che la Commissione europea, dopo una lunga istruttoria, ha condannato l’Irlanda a riscuotere tasse non pagate da Apple (che ha sede legale europea proprio a Cork, nel paese celtico) per circa 13 miliardi di euro, una cifra enorme. In passato, come si ricorderà, analoghi patti straordinari (gli esperti li chiamano tax ruling) tra uno Stato e un’impresa erano stati nel mirino della Commissione per quanto riguarda il Lussemburgo o l’Olanda, ma per cifre molto inferiori. Ma ancor più hanno sollevato discussioni la protesta del governo degli Stati Uniti contro l’Unione europea e la decisione del governo di Dublino di ricorrere contro la decisione (nonostante si tratti di una cifra allettante, per un paese che ha dovuto utilizzare un piano da 85 miliardi, solo pochi anni fa, per salvare le sue banche, e di conseguenza ha ancora un debito salito a circa il 120% del Pil).

Sotto la decisione e sotto la controversia, destinata a durare nel tempo, stanno problemi complessi. Vediamo di distinguere. In primo luogo, gli euro-scettici hanno naturalmente criticato la decisione come un assalto alla sovranità fiscale di un paese membro della Ue. Va notato che il problema è diverso. La Commissione si è espressa solo sulla questione della concorrenza, di cui si occupa appunto Margrethe Vestager: la tassazione smaccatamente favorevole di cui Apple godeva da un decennio (ben più favorevole della già bassa aliquota media irlandese del 12,5% sui profitti d’impresa) è stata ritenuta un aiuto di Stato indebito, che ha falsato la concorrenza intra-europea. Non si discute quindi l’elemento fiscale in sé, ma il rispetto delle regole di equità di trattamento nei diversi paesi. E’ quindi un problema relativo in modo stretto al funzionamento del mercato, nell’interpretazione della Commissione.

Certamente, però, il problema connesso è quello della possibilità di un intervento dell’Unione che punti a far convergere la tassazione delle imprese in un’economia integrata come quella europea. Secondo molti, in realtà, l’uniformità fiscale non sarebbe un valore. Infatti impedirebbe una concorrenza territoriale per attirare investimenti, che è un tipico fattore di tutti gli Stati federali (come ad esempio negli Usa, dove i singoli Stati hanno possibilità di giostrare dei margini autonomi su questo tema). Obiezione sensata, ma si può anche contro-dedurre che non possono che esserci dei limiti, per assicurare la bontà della concorrenza. Non si chiede di omogeneizzare tutto verso l’alto, ma tra il 35-40% dei paesi più rigidi e lo 0,005% che pagava Apple negli ultimi anni (sempre secondo la Commissione, naturalmente), ci può ampiamente stare la ricerca di un giusto mezzo. Una direttiva comunitaria che tenda a mettere dei tetti fiscali comuni al ribasso (e magari anche al rialzo) sarebbe del tutto auspicabile. Lasciando quindi i margini per concorrenza e incentivi, ma evitando esagerazioni largamente problematiche.

Certo, quindi, attirare investimenti è possibile e auspicabile. Ulteriore aspetto del problema è però il bilanciamento tra gli sconti fiscali che i governi sono disposti a fare e i benefici attesi a seguito degli investimenti delle grandi imprese. In Irlanda, Apple in realtà non produce: avendovi la sede legale per gli affari europei, pare che dia lavoro a circa 5500 persone. Tutto qui, voi direte? Questo numero di jobs (ben pagati, si spera) vale gli sconti, nelle cifre citate? Beh, certamente non si tratta di investimenti che creano il paese di Bengodi. Questo è il problema fondamentale degli investimenti del grande capitale nel nostro mondo contemporaneo: raramente si traducono in cospicua creazione di lavoro (o meglio, il lavoro connesso resta prevalentemente dislocato in paesi in via di sviluppo, come nel caso di Apple, che produce la gran parte dei suoi devices in Cina). Recentemente si è creata ad esempio analoga aspettativa sugli annunciati investimenti Ryanair in Italia: 1 miliardo di euro, è stato detto. Ma quanti posti di lavoro reali? Al netto poi delle spese pubbliche necessarie per permettere a queste grandi imprese di funzionare. Il saldo rischia di essere sempre meno rilevante, e quindi il gioco della concorrenza nell’attirare investimenti sempre più superficiale. Qualcuno nota che il problema è soltanto spostato a un altro livello: avere Apple o qualche altra multinazionale con sede legale in Irlanda contribuisce al Pil, e quindi alla bonifica statistica del rapporto deficit/pil, o debito/pil, che conta molto per gli equilibri europei. Un po’ poco, ancora un volta, ci si permetta di notare. Almeno rispetto al costo richiesto.

C’è ancora un altro aspetto del problema. La vicenda ha messo a fuoco la questione aperta di come e dove far pagare le tasse alle grandi multinazionali, in particolare a quelle dell’economia dell’informazione, che trafficano spesso in dimensioni immateriali. Non solo, per la verità, perché Apple vende oggetti fisicamente ben individuabili. Ma sostanzialmente, a parte l’Iva, è riuscita a far funzionare meccanismi del tutto legali che trasferiscono in modo massiccio i propri straordinari utili in paesi a bassissimo regime fiscale (tanto che si parla di qualcosa come 200 miliardi di dollari di redditi che navigano nel sistema finanziario internazionale e non sono rimpatriati negli Usa, dove pure il fisco non è proprio un’arpia simil-svedese o simil-italica). Sotto questo profilo, stupisce ancor più che il governo Obama si schieri apertamente con Apple, quasi con un riflesso condizionato contrario al dirigismo europeo: il fatto è indicatore quanto meno di una distorsione comunicativa fortissima. Ancora più complesso è applicare il principio secondo cui gli utili sono tassati dove sono prodotti per il sistema della pubblicità di Google, o per gli introiti di Facebook. Comunque, a proposito di questo decisivo capitolo, ci vorrà pure una riflessione. Per ottenere un sistema fiscale equo, che contemperi quanto i cittadini e le imprese versano con i benefici che essi ricevono in termini di servizi e efficienza pubblica degli Stati, l’eccezione strutturale e permanente dei giganti dell’economia dell’informazione è un problema letale. Contribuisce infatti ad aggravare il circuito della delegittimazione di un sistema fiscale percepito come punitivo nei confronti dei piccoli, controllabili e monitorabili a livello locale. Quanto di più deleterio, credo, per qualsiasi democrazia.

 

Guido Formigoni

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  1. Bell’articolo. Mi pare interessante esplorare la possibilità di rapportare eventuali vantaggi fiscali (entro una “forbice” sensata, come giustamente nota Formigoni) con reali e non fittizi posti di lavoro correttamente retribuiti e stabili. Certo, bisognerebbe che un simile criterio valesse anche fuori Europa, altrimenti la concorrenza sarebbe sempre “sleale”.

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