Alcune annotazioni sulla crisi del Pd

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Quando, giorni fa, Beppe Grillo si è candidato a segretario del Pd, e la sua uscita è parsa, ai media, una cosa quasi seria, quasi possibile, e non semplicemente una simpatica battuta, a me è parso chiaro che il Pd stava proprio toccando il fondo.

E lo stava toccando proprio in relazione al nodo cruciale dei suoi rapporti con il M5S. Non che le cause della troppo debole identità del Pd e del suo sempre più scarso radicamento sociale dipendano da come ha impostato questo rapporto; le cause, certo, risiedono – in primis – nella  poco discussa e poco maturata  unificazione delle forze politiche e culturali che hanno dato vita a quel partito. Ma la questione dei rapporti con i 5 stelle ha costituito un tornante decisivo dello sgretolamento cui il Pd è andato incontro.

Di fronte all’esito del voto del 2018, con il Pd al 22 per cento e il M5S al 32, e dopo la nascita del governo Conte 1 con l’alleanza M5s-Lega, sembrava chiaro che il Pd dovesse dedicare tutte le sue forze, sì, a costruire una opposizione tenace e puntuale al governo in carica, ma anche, e forse soprattutto, a ricostruire un rapporto con la società, a interrogarsi su come riaprire spazi di dialogo, di ascolto, di confronto con le aree sociali più in sofferenza, per prime, ma anche con il mondo produttivo, il mondo delle professioni, dell’università, della ricerca, della cultura, del volontariato. Perché il problema era di capire come opporsi al populismo dilagante, al suo buttar fango sulla politica, sulle istituzioni; era di capire quali errori avessero indotto e favorito quelle spinte iper-populiste, ma anche capire come rendere ragione di politiche riformiste, graduali, tenacemente europeiste, della cui validità si era pur convinti. (Io ho sempre pensato che il voto a destra o ai 5 stelle dei quartieri popolari fosse indice, in qualche misura, di limiti del Pd; ma anche che il voto al Pd dei quartieri “alti” non fosse una ragione di scandalo o di vergogna, ma piuttosto la prova che le difficoltà di realizzare riforme progressiste nelle condizioni date – in Italia per il Pd, come altrove – fossero comprese soprattutto, se non solo, dalle componenti più acculturate della società).

Questo lavoro di autocritica e di analisi il Pd non lo ha fatto durante il Conte 1; e, per questa ragione, quando si è arrivati alla crisi di quel governo e ci si stava preparando a elezioni che apparivano inevitabili, le forze per affrontare la battaglia elettorale erano obiettivamente assai deboli. Forse davvero era ormai troppo tardi per potersi riaccostare alla società, alle sue tante periferie e marginalità, e anche alle sue tante risorse, e affrontare con la convinzione necessaria lo scontro elettorale. Così l’ipotesi, lanciata da Renzi, di un governo con i 5 Stelle è apparsa come l’unica via possibile per evitare che il paese finisse in mano alla destra egemonizzata da Salvini. E’ stato un errore? Forse per la salute del Pd sì, ma per la salute del paese probabilmente è stata una scelta positiva.

 

Quale era, però, il senso dell’alleanza di governo Pd-M5s, una volta evitata la probabile affermazione della Lega di Salvini?

Un’ipotesi era quella di cercare i punti di accordo per costruire un’agenda di governo la più riformista possibile, ma mantenendo aperta la competizione con i 5 Stelle (sui territori e in prospettiva), e dunque sottolineando gli elementi di differenza e cercando di fare in modo, con una critica puntuale, che l’adesione ai 5 Stelle si andasse sgonfiando nell’opinione pubblica e nel paese.

Un’altra ipotesi era quella di considerare l’alleanza di governo come un’alleanza politica che prefigurasse, invece, un ‘intesa di lungo periodo, e che dunque  disegnasse la prospettiva di un nuovo centro-sinistra, imperniato su quella stessa maggioranza M5S-Pd-Leu.

Questa seconda ipotesi, che è stata quella perseguita dal Pd sotto la guida di Zingaretti, aveva però ben scarse possibilità di rilanciare l’identità del Pd, di consentirgli di ristabilire il contatto perduto con i settori vitali del paese. Un conto, infatti, è riconoscere i propri errori, capire le ragioni che hanno portato tanti, giovani e meno giovani, a scegliere il Movimento 5 Stelle, e avviare così un’azione politica che cerchi di recuperare quei consensi perduti; un conto è puntare a un’alleanza stabile, tanto al governo quanto all’opposizione, con il M5S. Con quest’ultima scelta si finisce per congelare l’esistenza di un partito, il M5S, che, pur rinnovandosi, continua però a poggiare su basi ondeggianti, prive di progettualità politica, di un’identità se non quella originaria di una grande battaglia antipolitica, appunto populista, illusoriamente declinata sull’uno vale uno e sul richiamo a qualche forma di democrazia diretta. Che cosa dovrebbe rappresentare – quali strati sociali, quale visione culturale e politica –  il M5S in una coalizione di centrosinistra? Difficile capirlo.

 

A mio avviso, se il Pd avesse puntato al suo rinnovamento, alla sua rigenerazione, senza dedicare invece le sue migliori energie a prefigurare l’alleanza strategica con i 5 Stelle, sotto la guida di Giuseppe Conte, il M5S sarebbe andato incontro, in parte, a un processo di maturazione dei suoi membri, come in effetti è stato (e al quale ha, sì, contribuito positivamente il Pd nella collaborazione di governo nell’ambito del Conte 2), e in parte però anche a un processo di riconoscimento non solo dei propri errori ma del venire a esaurimento della propria stessa funzione, che in sostanza è stata quasi soltanto il grido contro una politica ritenuta (certo, con qualche ragione) troppo lontana dal sentire della gente.

Più che lavorare a favorire la nascita, sulle ceneri dell’originario M5S, di un nuovo partito, dalla natura comunque indistinta, e a indicarlo come protagonista del futuro centrosinistra, mi sembra che sarebbe stato meglio, per il Pd – e sarebbe meglio anche ora – lavorare per rifondare se stesso (e non come “partito di sinistra” sic et simpliciter, così gettando a mare i presupposti della sua stessa nascita, ma come partito veramente di centrosinistra); e sarebbe stato meglio, anche per questa via, favorire l’ingresso nelle sue fila di quanti, tra gli esponenti del M5S, hanno trovato in questi ultimi due anni una effettiva sintonia con i suoi valori e le sue battaglie. E magari, dall’interno dei 5 Stelle, tra coloro che non se la sentono di lavorare con il Pd ma vogliono continuare l’avventura politica, avrebbe potuto nascere una spinta più orientata sul profilo ambientalista, che avrebbe potuto finire per saldarsi, ravvivandolo, con il fragile e quasi scomparso “movimento” dei Verdi italiani; e, a questo punto, costituire, sì, una forza politica, pur minoritaria, con cui sarebbe possibile, per il Pd, trovare un’intesa politica sul piano nazionale e locale.

L’ipotesi, che invece oggi è in campo, di un rinnovato M5S a guida Conte, in vista di un’alleanza con il Pd, e con Leu, sulla falsariga del Conte 2, ipotesi che la linea del Pd ha sin qui favorito,  mi pare apra una strada confusa, che non fa bene al Pd, e credo neppure al paese, perché riduce il campo di azione del Pd e, soprattutto, perché prefigura il sommarsi di identità entrambe politicamente deboli.

 

Nel presente e nel futuro prossimo il Pd sta dentro il governo Draghi.

Credo che il Pd farebbe bene a starvi dentro approfittando di questa sostanziale pausa rispetto al protagonismo dei partiti e al gioco delle alleanze, per verificare quel che vi è di ancora valido nella sua proposta politica, nella sua base elettorale, nella sua esperienza di amministrazione in tante città, e per contribuire a qualificare nel modo migliore le riforme che il governo è chiamato a fare per rispondere alla crisi in cui versa il Paese.

Il governo Draghi ha l’impegno, oltre che di guidare con mano ferma il piano di vaccinazione, di investire le risorse ottenute in sede europea per avviare un Piano di ripresa che corrisponda ai criteri concordati in Europa e che davvero rimetta il paese sulla strada della crescita e della riduzione delle diseguaglianze. Non è impossibile, io credo, farlo in collaborazione con forze politiche anche di destra. O dobbiamo ammettere che non ci sono scelte utili al paese su cui è possibile concordare tra destra e sinistra? Che paese sarebbe diventato, il nostro, se così fosse? Se una nazione non trova le basi per uno sforzo di unità nazionale in situazioni come questa, quando mai le può trovare?

E, se è così, a che servono le tante diatribe che sentiamo tutti i giorni, anche nelle dichiarazioni di membri del Pd. sulla continuità o la discontinuità col Conte 2? su Salvini che dà un’impronta di destra al governo? e così via? Uno dei principali collaboratori di Zingaretti nell’amministrazione della Regione Lazio e nel progetto politico (di qualche tempo fa) di una nuova sinistra denominato “Piazza Grande”, Massimiliano Smeriglio, oggi europarlamentare, l’altro ieri su “il manifesto” ha scritto un articolo intitolato “La Piazza Grande è diventata un Vicolo Stretto”. A un certo punto così scrive: “Con il ‘Dream team’ Draghi Giorgetti Mc Kinsey e Generali vari, la sola responsabilità nazionale non basta più a definire un profilo distintivo”. Ora, costruire un “campo largo” della sinistra (la “Piazza Grande”) è un ottimo obiettivo: ci sono tanti cantieri da aprire in questa direzione. Ma parlare di un “dream team Draghi Giorgetti Mc Kinsey e Generali vari” è un passo falso. Grave. Ci vuole più umiltà, e meno ideologia. Se no, il “campo” non sarà mai davvero largo come si dice di volere.

 

Giampiero Forcesi

 

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