A quarant’anni dalla morte di Giacomo Lercaro: una rilettura

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L’autore, prete bolognese, vicino alla comunità monastica dossettiana, già assistente nel carcere della Dozza, e docente alla facoltà teologica dell’Emilia Romagna, ha presentato questo intervento nel corso di un seminario tenutosi a Bologna lo scorso 18 ottobre. Il testo uscirà in forma parzialmente differente e con l’apparato delle note sulla rivista “Egeria” dell’Istituto di scienze religiose di Arezzo

 

Ad un’attenta osservazione Giacomo Lercaro (1891-1976) risulta essere una delle figure più significative ed emblematiche della Chiesa italiana del ‘900 nel periodo a cavallo del Vaticano II, di cui è stato un protagonista di primo piano. In questa sintetica riflessione, partendo dalle numerose ricostruzioni storiche ed interpretazioni teologiche del ruolo dell’episcopato di Lercaro nella Chiesa di Bologna e in quella universale, cerchiamo di evidenziare alcuni vettori teologici e pastorali che, con le debite distinzioni, possono essere in qualche maniera eloquenti per l’attuale congiuntura ecclesiale fortemente caratterizzata dall’azione di Jorge Bergoglio come vescovo di Roma «venuto dalla fine del mondo».

Tale procedura, per così dire, “attualizzante” è certo delicata, ma non è del tutto illegittima teologicamente: infatti significa prendere sul serio l’apertura del processo vitale di recezione che, incominciato negli anni ’60 con la celebrazione stessa del Concilio, continua, si sviluppa e proprio ora conosce quella che può essere descritta come «una nuova fase di recezione del Vaticano II». In tale prospettiva si può ricordare come in una riflessione sulla recezione del Vaticano II e sulla sua eredità per l’oggi e il futuro della Chiesa viene proposta da Gilles Routhier – un ecclesiologo e storico canadese – una efficace analogia tra, da un lato, il movimento di ressourcement che ha animato il Concilio e, dall’altro, il riferimento al Vaticano II che può animare il nostro presente. Questo significa non tanto di preservare e ripetere una serie di formulazioni, ma nella fedeltà sostanziale ai testi e allo spirito del Concilio si tratta di assumere il medesimo atteggiamento che si sostanzia come una maniera di impadronirsi delle questioni di un’epoca e come un metodo per pensare la fede. Si tratta, cioè, di ritrovare il medesimo stato d’invenzione innovativo e creativo che, da un lato, ha caratterizzato il ressourcement e che, dall’altro lato, può caratterizzare la recezione del Vaticano II oggi. Si tratterebbe, in altri termini, di quella modalità interpretativa che lo stesso Lercaro – insieme a Dossetti – descriveva come «interpretazione accrescitiva» del Concilio.

Quindi all’interno dello stesso flusso vitale ingenerato dal Concilio rileggiamo, in due passaggi, alcuni tratti dell’episcopato di Lercaro che possono essere – in senso mediato – utili per la riflessione teologica ed ecclesiologica odierna. Il primo passaggio consta nella ripresa della prospettiva adottata in occasione della discussione sul volume di Giampiero Forcesi, curato da Enrico Galavotti, Nicola Apano e Giovanni Turbanti. In tale riflessione si sono individuati alcuni vettori – qui ripresi sinteticamente – che guardano alla Chiesa di Bologna come ad un laboratorio conciliare davvero significativo per il contesto italiano e per quello internazionale. Con la stessa attenzione nel voler riconoscere alcuni vettori eloquenti per l’oggi, ci concentriamo – in un secondo passaggio – sul discorso tenuto a Recoaro nel settembre 1968 Il cristianesimo e il dialogo fra le culture in cui si evidenziano con singolare nettezza alcune convinzioni maturate nel dialogo con la propria Chiesa e con alcune figure di questa Chiesa come Dossetti e – specificamente per quanto riguarda questo discorso – Alberigo (ringrazio per la notazione il prof. Galavotti). Tale discorso appartiene al tempo successivo alla conclusione dell’ufficio episcopale a Bologna: un periodo, che secondo le parole di Dossetti, realizza «l’unità consumata della sua personalità, del suo pensiero e del suo essere […] presente nella Chiesa».

La nostra scelta è certamente parziale all’interno delle molte possibilità che l’episcopato di Lercaro fornisce alla riflessione teologica. Scelta guidata però da un’interpretazione fondamentale per la quale all’interno della riflessione e prassi di Lercaro – le cui polarità sono molteplici e a volte divergenti – si può rinvenire un processo di maturazione progressiva e, in certa misura, di ricapitolazione di elementi precedenti in sintesi successive e più comprensive. Questo diviene evidente nella connessione intima tra le prospettive precedenti e il suo insegnamento specifico sulla pace che è stato descritto come l’«insegnamento conclusivo, nel quale si depositano le convinzioni maturate lungo i decenni». In tale ottica evidenziamo sei ‘vettori’ – nel senso di realtà capaci di portare determinate grandezze in un senso e con una direzione – teologici e pastorali più una notazione di natura conclusiva sul nostro oggi.

 

Alcune prospettive teologiche e pastorali

  1. In primo luogo si tratta della consapevolezza del legame tra il mistero della Chiesa e il mondo odierno tale per cui – con le parole della relazione in Concilio del 20 ottobre 1964 – «la Chiesa si impegna di nuovo e ancora più a un rinnovamento interno più incisivo e più luminoso, a un ringiovanimento dei propri organi […] soprattutto sotto l’aspetto della semplicità e povertà evangelica, per meglio proporzionarli alle trasformazioni e alle esigenze espresse dai signa temporis». È il tema cruciale della riforma della Chiesa che si collega a quella che Lercaro chiama la «nuova ecclesiologia» del Concilio: «potrebbe sembrare nuova; ma si tratta piuttosto della riscoperta di un dato teologico molto vecchio: poiché già i padri vedevano la Chiesa come sacramentum, come mistero». La novità risiede dunque nel suo essere un’ecclesiologia sacramentale, capace di «rispetto per le varietà», non alla ricerca di una «rigida uniformità» aliena dalla vita, dalla storia e dalla fede stessa, ed in infine nel suo essere fondata su un metodo nuovo che parte da una rinnovata lettura ed esperienza delle fonti del cristianesimo capaci di generare «una teologia più larga e più autentica».
  2. Questa riforma viene pensata, proprio in ragione delle sue radici sacramentali, come una riforma, nello stesso tempo, spirituale ed istituzionale. È una consapevolezza che emerge spesso: la «nuova ecclesiologia» conciliare  implica certo una serie di riforme concrete, dove, però, la riforma strutturale mantenga il suo humus vitale in un cambiamento profondo e interiore dei singoli e di tutto il popolo di Dio. Questo avviene perché gli elementi propulsori della riforma sono legati alla Bibbia, alla liturgia e alla vicinanza ai poveri coinvolgendo direttamente l’esperienza interiore dei credenti nell’appropriazione di una visione di Chiesa «completamente nuova […] che è stata proposta come la regola fondamentale della vita cristiana». È stato osservato che alcune perplessità sopravvenute in Dossetti sul lavoro della riforma diocesana vertano proprio sul rischio di un investimento in nuove strutture e articolazioni interne alla diocesi che non siano adeguatamente fondate in un rinnovamento spirituale e in un incisivo approfondimento teologico. Nello stesso tempo le riforme delle strutture e delle istituzioni sono necessarie, in primo luogo, perché la Chiesa va liberata delle sue incrostazioni culturali anche dottrinali e resa dinamica, cioè sempre più vitale e se stessa, attraverso – ad esempio – modi nuovi di coinvolgimento del popolo di Dio, di valorizzazione dei suoi carismi, di formazione dei suoi sacerdoti. In secondo luogo, perché la situazione della Chiesa rimane teologicamente – non solo storicamente – ‘critica’. Essa rimane infatti una realtà pellegrina la cui identità non è mai pienamente realizzata una volta per tutte:

 

Per quanto possa, in fondo, essere splendente la sua forza e la sua realtà in diversi momenti della storia, anche nei momenti, per così dire, più appariscenti e più fulgenti, la condizione della Chiesa è una condizione critica. Essa, per ora, vive nascosta con Cristo in Dio, e solo quando Cristo ritornerà, essa apparirà quello che veramente è. […] In modo particolare noi sappiamo che al paragrafo ottavo della costituzione [Lumen Gentium] è descritta la condizione di povertà e di persecuzione, nella quale vive non eccezionalmente, ma abitualmente, questa Chiesa esule, pellegrina e nascosta. Anche la sua unità, inevitabilmente, è un’unità che, in qualche modo, è continuamente contrastata dalle forze che perseguitano la Chiesa nella sua condizione terrestre. È un’unità, se vogliamo, crocifissa.

 

  1. Una riforma che è, inoltre, in relazione alla realtà ecclesiale che vive dello scambio continuo tra Chiesa universale e Chiesa locale. È importante rilevare come la coscienza della propria identità di Chiesa locale sia stata uno dei fattori principali che hanno prodotto un forte desiderio ed impegno per l’attuazione nella Chiesa locale di Bologna delle direttive conciliari. Si tratta di una Chiesa che, scoprendosi soggetto teologico con un volto proprio e originale in virtù dei carismi presenti nell’insieme ecclesiale, assume tale identità come dono e come compito. La Chiesa di Bologna con la consapevolezza della propria storia e responsabilità specifica – bene evidenziate da una riflessione su Lercaro di Dossetti dal titolo la Chiesa di Bologna e il Concilio – si chiede come essere fedele alla «nuova pentecoste» conciliare, nella coscienza che ogni vera fedeltà al vangelo e allo Spirito implica un, non generico, rinnovamento della propria forma storica e dei propri assetti istituzionali e spirituali in loco.

 

  1. La riforma ha le proprie radici vitali nella forma fondamentale della Chiesa che nella visione – teologica e pastorale – di Lercaro può essere sintetizzabile intorno a tre prospettive di fondo.

a)In primo luogo, la Chiesa è essenzialmente l’assemblea liturgica e da questo centro pulsante si irradiano le attività pastorali e sociali. La manifestazione più piena dell’identità ecclesiale si trova nella celebrazione dell’eucarestia da parte della comunità coesa quale assemblea intorno al proprio vescovo. Tale prospettiva che informa la pastorale lercariana si fa via via più radicale e, se possibile, ancora più convinta negli anni della celebrazione del Concilio e dell’immediato post-concilio. Nella relazione su Liturgia ed ecumenismo dell’11 aprile del 1964 a Beirut commentando in larga parte la costituzione conciliare sulla liturgia si ha una sorta di sintesi delle prospettive ecclesiologiche a fondamento del lavoro di riforma della Chiesa universale e di quella diocesana: «la Chiesa è e si rivela anzitutto nell’assemblea liturgica», è quindi «indubbio che la Chiesa godrà di vita nuova, recupererà delle energie che ignorava di possedere, se saprà concentrare e unificare i suoi sforzi orientandoli tutti verso questo scopo».

b)In secondo luogo, il recupero della dimensione orante e liturgica dell’identità della Chiesa comporta, contestualmente, una Chiesa che assume come atteggiamento fondamentale l’ascolto della parola di Dio nella Scrittura. Sulla base di tale prospettiva «vediamo l’inizio di una nuova epoca nella vita della Chiesa, in cui la giovinezza sarà, più che nel passato, rinnovata dal contatto quotidiano con la parola di Dio», si tratta di una vera e propria «riscoperta qualitativa della Bibbia, una riscoperta dell’inesauribile attualità della sua forza creatrice. Attraverso la Bibbia, soprattutto quando essa viene proclamata nella liturgia è ‘Dio che parla al suo popolo, è il Cristo che annuncia ancora il vangelo’». La Bibbia dopo centinaia di anni di sospetti e paure, legate alle controversie con i mondi delle riforme e alle difficoltà di rapporto con la modernità critica, torna ad essere consegnata al popolo di Dio perché se ne nutra e perché la Chiesa intera ne venga ringiovanita.

c)In  terzo luogo, la comprensione misterica della vita della Chiesa – universale e locale – comporta anche un’acuta percezione del valore sacramentale dell’episcopato e del battesimo. Sulla medesima linea teologica di Ignazio di Antiochia, si sottolinea che non può esistere Chiesa locale se non riunita intorno al vescovo e in comunione con lui (su questo punto specifico varrebbe la pena svolgere un approfondimento della teologia ‘forte’ dell’episcopato di Lercaro e Dossetti che ha avuto effetti particolari e distonici, rispetto alle intenzioni originarie, nella storia recente della Chiesa di Bologna). Ogni riforma deve assecondare questo principio vitale, cercando i modi più propri perché la paternità del vescovo si concretizzi agli occhi del suo popolo e perché la comunione tra i vescovi con e sotto il vescovo di Roma sia realtà capace di informare un’effettiva collegialità. La guida del vescovo e il dialogo con il proprio popolo è, dunque, percepito come essenziale dal punto di vista sacramentale e vitale: egli insiste talora che il vescovo debba essere aiutato – talvolta educato – dalla comunità stessa a essere guida capace e saggia. Proprio la rilettura dell’importanza del ministero ordinato e, in esso, del ruolo del vescovo è in relazione con una riconsiderazione del ruolo ecclesiale del sacramento della fede. Anzi, a ben vedere solo la percezione esatta del battesimo permette di cogliere il senso e il “luogo” del servizio del ministero ordinato episcopale, presbiterale e diaconale. Il battesimo occupa, infatti, un posto centrale nella ricomprensione, teorica e pratica, dell’ecclesiologia diocesana: è il fondamento e la scaturigine della vita cristiana e la ragione basilare della partecipazione alla vita della Chiesa. Questo è il motivo per cui Lercaro auspica che si superino tutte le divisioni che irrigidiscono la comunità ecclesiale o che la suddividono rigidamente in laici e clero: «tutte queste differenze, sono differenze che, in certi momenti, da un punto di vista psicologico, sociologico, da un punto di vista emotivo, possono sembrare gigantesche, ma in effetti sono quasi nulla di fronte a ciò che vi è di veramente e profondamente comune, che è il battesimo». Secondo tale prospettiva si evidenzia la dimensione pneumatologica e carismatica della comunità cristiana con la conseguente necessità di valorizzazione dei doni che ciascun membro del popolo di Dio può ricevere dallo Spirito per la vita della Chiesa. L’obiettivo di fondo della riforma ecclesiale è, quindi, quello di ascoltare i moti dello Spirito e di trovare i modi più adatti perché tutti i cristiani possano esprimere la vita battesimale.

 

  1. In tale contesto emerge una maturazione tipica di tale programma di ritrovamento della forma evangelica della Chiesa con un movimento di ritorno della Chiesa all’essenzialità dei suoi elementi costitutivi e capaci di testimonianza: si tratta di una comunità pasquale radunata intorno alla parola, all’eucarestia e prossima ai poveri. Alcune istanze di purificazione e spoliazione diventano, così, essenziali perché la comunità diocesana compia in maniera più libera il proprio compito di annuncio e testimonianza del vangelo. Si delinea un tipo di presenza nel mondo in cui per evidenziare l’alterità cristiana non si sottolineano più tanto gli aspetti di visibilità della Chiesa – le sue istituzioni, i suoi progetti sociali e politici – quanto gli aspetti evangelici di imitazione di Gesù di Nazareth: la mitezza, la purezza, la povertà, la pace, il servizio dei poveri e la croce, in modo omogeneo a quanto già affermato in Concilio:

 

Sono le parole evangeliche che scandiscono il modo più vero e più efficace con cui la Chiesa è presente al mondo e a tutto il mondo: cioè il modo del martyrion, cioè la testimonianza nel senso dell’attestazione pura e semplice del vangelo e della coscienza evangelica in faccia a tutte le genti, ai loro principi e capi; presenza che è specialmente la diaconia, cioè il servizio di chi sa di dovere sempre preferire di essere il più piccolo e il servo di tutti, di essere inviata soprattutto per i piccoli, gli umili, i poveri, per quelli ai quali si dà senza sperarne nulla (Lc 6, 34-35), senza poterne ricavare un aumento di potere […].

 

La Chiesa bolognese sceglie progressivamente, come stile proprio, una sorta di disarmo che porta Lercaro, nel discorso in Consiglio comunale, ad affermare di voler:

 

ritornare nel modo più scarno e denso all’evangelo: ad essere per tutto il popolo di Bologna, nella forma più semplice e senza mediazione, araldo del vangelo, ad essere semplicemente un servitore del vangelo […] nelle sue forme più elementari e genuine, sine glossa come direbbe san Francesco; del vangelo senza complessità di appoggi e di strumentazioni umane.

 

La scelta della povertà, del non potere, della non competizione, del vangelo sine glossa è indicata da Lercaro – in dialogo con Dossetti – non solo come una via di fedeltà a Cristo, ma come la via di massima incidenza nella storia a cui lui non rinuncia:

 

nulla mi sarebbe più gradito di questo: che al di là della persona dell’arcivescovo, al di là della stessa Chiesa come compagine sociale (LG 8), si vedesse […] soprattutto, anzi, soltanto, l’Evangelo: quella parola sacra e creatrice, alla quale lo stesso magistero ecclesiastico non è superiore, ma subordinato e servo (DV 10).

 

Si tratta di «ripensare in termini più essenziali e rigorosi» il rapporto della Chiesa con la città e lo stesso ministero episcopale in base ad un «vangelo disarmato». Tale ripensamento ha come funzione una rinnovata spinta missionaria dell’intero popolo di Dio che è chiamato a formare «una comunità vitale, che inevitabilmente si inserirà come levito nella vita degli uomini». Fa quindi parte del duplice movimento della vita diocesana – ed in tal senso viene anche concepito il ripristino del diaconato nella riflessione propria di quegli anni – non solo il radunarsi intorno all’altare e alla parola di Dio, ma anche l’inserirsi in maniera prossima alla vita umana e ai poveri: la fedeltà e la vera comprensione del «vangelo disarmato» richiede la circolarità di entrambi i movimenti.

 

  1. A questo livello si ha una riconsiderazione complessiva dell’esperienza storica del cristianesimo nella sua relazione con le culture, la politica e i progetti sociali. Per tale riflessione è davvero significativa – ad episcopato concluso – la riflessione su Il cristianesimo e il dialogo fra le culture che in larga parte pare preparata da Giuseppe Alberigo. In tale testo Lercaro ricorda esplicitamente due relazioni tenute durante gli anni del concilio il 15 e il 28 novembre 1963: la prima destinata al Papa e agli organi direttivi del Concilio su La coscienza conciliare e la seconda rivolta all’episcopato africano sul Concilio come grande occasione per la Chiesa. Si trattava in quei testi di acquisire una visione più universalista, dismettendo «impostazioni rigide e monolitiche» e di passare da una universalità quantitativa ad una qualitativa.

In tale quadro nel discorso del ‘68, partendo dalla prospettiva del rapporto esistente tra l’Ecclesia universale e l’Ecclesia Dei vivente in un determinato luogo, si riflette sulla necessaria decentralizzazione che ha la finalità di raggiungere con il seme evangelico ogni cultura e popolo. Per far questo risulta necessario uscire da una modalità per cui la Chiesa cattolica risulta cristallizzata in alcune sue forme storiche occidentali e latine. Coltivando, invece, la consapevolezza che «la cultura occidentale, la nostra cultura non è che una delle tante possibili, e forse nemmeno delle più proiettate verso l’avvenire». Si ha quindi la ripresa del tema cruciale della povertà della Chiesa e segnatamente della sua povertà culturale, ma con un’accentuazione ulteriore rispetto alle pur ricche trattazioni conciliari. Lercaro afferma esplicitamente: «debbo umilmente confessare che le posizioni che solo cinque anni fa mi erano parse importanti punti di arrivo, mi appaiono oggi decisamente insufficienti […] devono essere coraggiosamente sviluppate». Egli, partendo dall’affermazione che «il cristianesimo lungi dal riconoscersi o dall’identificarsi con una cultura, ha la sua condizione ottimale in insediamenti pluralistici che siano occasione di dialogo fecondo e generante con tutti gli autentici filoni culturali dell’umanità», sviluppa tre aspetti specifici capaci di risuonare in modo singolarmente eloquente anche nel nostro oggi.

a)Nella de-solidarizzazione dal mondo occidentale inteso come unica modalità di incarnare la cultura cristiana egli vede in gioco prima di tutto il problema supremo della pace. Com’è noto, il tema è cruciale nell’evoluzione della riflessione di Lercaro, qui viene ripreso e collegato direttamente alla questione della povertà culturale attraverso un’interpretazione del sistema occidentale – ed in modo speculare anche di quello sovietico – come di un sistema essenzialmente di guerra:

 

la secolare simbiosi di tanta parte del cristianesimo con la cultura occidentale ha prodotto tra l’altro calcificazioni tenacissime di aspetti di questa cultura con il cristianesimo stesso; e proprio la tollerabilità della guerra per il cristianesimo è apparsa uno degli effetti macroscopici del processo di calcificazione di un aspetto tra i più ‘mondani’ dell’occidente su un’istanza cristiana di cristallina ed inequivoca chiarezza. Oggi l’obbedienza allo Spirito passa attraverso il rifiuto di tale calcificazione e la riscoperta gioiosa della pace.

 

Il mondo occidentale viene letto come un mondo che ha fatto della guerra una sua «componente stabile e necessaria» per la politica e per il proprio sviluppo economico e scientifico e per tale motivo un’identificazione di fatto tra cristianesimo ed occidente va superata e integrata in un quadro più ampio.

b)Simmetrica al problema di un cristianesimo saldatosi con una «cultura obsolescente e invecchiata» è la questione della non-violenza. Infatti «non è difficile riconoscere dietro le timidità cristiane in ordine ad una rinunzia ferma e definitiva alla violenza tutta una serie di condizionamenti derivanti dalla cultura egemone dell’occidente» che si è preferita a scapito di «una lettura diretta e plenaria del discorso della montagna». I cristiani sono chiamati ad uscire da un sistema di violenza ed iniquità, non rinunciando certo a mutare le condizione storiche oppressive e violente, ma nella maniera mite e disarmata propria del vangelo.

 

Oggi non è più la violenza che spargendo il sangue altrui – anche se per giusta causa – reintegra l’ordine violato, realizza la giustizia, libera l’uomo dal dominio dell’uomo, ma è solo la fede dei mansueti e dei pacifici, e il loro sangue di martiri, che fondendosi con il martirio del Cristo, con la sua lode al Padre, con la sua eucarestia riordina, anzi con un’immensa forza creatrice rigenera il mondo, realizza la giustizia non dell’uomo ma di Dio, sottrae gli uomini ad ogni schiavitù […] conferisce loro potere, non il miserabile potere dei signori di questo mondo, ma l’unico vero potere, quello dei figli del Regno.

 

c)Lo sganciamento dalla simbiosi con la cultura occidentale e da alcune sue calcificazioni in vista di un vero universalismo implica, infine, un terzo aspetto. Il rigetto della violenza riguarda anche quella dei modi del potere pubblico, la cui diagnosi suona particolarmente severa: «è ormai chiaro che la violenza più insidiosa, quella cioè che infrange ogni forma sia di convivenza che di carità, è proprio la violenza del potere paludata dal possesso dell’autorità, coperta da un mandato pubblico, di cui vengono alterati gli stessi elementi costitutivi per cui esso diviene una funzione di parte e di conservazione, in luogo di essere un servizio di comune, pacifico progresso». I cristiani hanno il compito di scindere le loro posizioni da un’idea e da una prassi che allontana dalla prospettiva e dal senso del vero potere che il «vocabolario conciliare ha identificato evangelicamente con servizio in una società che è famiglia di Dio». Infatti «di fronte alla denuncia universale di fatti, come le ormai continue guerre, condotte o concretamente incoraggiate, i soprusi e le violazioni delle più legittime autonomie e la sempre incombente minaccia atomica, non si può tacere la constatazione che si tratta di arbitrii consumati proprio dai massimi poteri responsabili del nostro pianeta». In questa situazione, da un lato, bisogna rivedere l’assetto globale del cristianesimo rispetto alla modalità consueta di concepire il rapporto stato-chiesa, modalità che nel quadro contemporaneo non è più adatta ai tempi, dall’altro lato si tratta di riscoprire il giudizio critico «dell’evangelo sul potere come oppressione e perciò contraddizione della libertà e della responsabilità dei figli di Dio». Pertanto il rifiuto del potere di uomini su altri uomini, come oggi il potere si è maturato, è una questione bruciante, una «strozzatura», per la coscienza cristiana che è «di nuovo di fronte al problema radicale e globale del potere come modulo egemone dell’assetto sociale prevalente nel nostro mondo». In tale discorso riprende, nella logica esplicita dei segni dei tempi, alcune questioni sollevate dalla contestazione giovanile – e dalla riflessione probabilmente di Herbert Marcuse e di Ivan Illich – a riguardo «delle possibilità mostruose di cui i poteri pubblici dispongono: di saziare o di affamare, di informare o di lasciare nell’ignoranza, di far continuare o di estinguere la stessa creazione» mostrando la piena legittimità di tali domande e la loro rilevanza per i cristiani, chiamati a partecipare alla liberazione degli uomini loro fratelli. Il Concilio stesso con la valorizzazione della categoria del popolo di Dio, del principio sacramentale della gerarchia implica un ripensamento ed un modello in questo cammino in cui il cristianesimo è tenuto ad «un operante rifiuto, una rinuncia e denuncia di un potere divenuto ideologicamente ed effettivamente egemonico; ed una profonda e sincera liberazione da una tale dottrina e prassi, per realizzare la piena desolidarizzazione del cristianesimo dall’assetto storico culturale ancora vigente ma fatiscente» e la conseguente «sua totale disponibilità a servire l’umanità nella nuova fase della storia che si va aprendo». Il testo si conclude riprendendo in maniera coerente alcuni elementi dell’ecclesiologia del Vaticano II: ossia la dimensione profetica ed escatologica – che pongono la compagine ecclesiale in una tensione, strutturale e feconda, con ogni assetto culturale e sociale – e la questione delle condizioni effettive, per una Chiesa a dimensione mondiale, che preservino, nello stesso tempo, l’unità della Chiesa e la sua necessaria differenziazione e articolazione inclusiva.

 

Prospettive in sintonia con le istanze dell’oggi

Nell’enciclica Laudato sii al numero 3 Bergoglio ha scritto di aver rivolto l’esortazione programmatica Evangelli Gaudium «ai membri della Chiesa per mobilitare un processo di riforma missionaria ancora da compiere». Nel quadro di questo processo di riforma missionaria comprensibile come una rinnovata attuazione delle istanze del Vaticano II, molti temi appena ricordati della vicenda lercariana suonano di impressionante attualità nel quadro delle parole tipiche della prospettiva di riforma di Bergoglio. Ne ricordiamo alcuni in maniera solo indicativa e schematica, ma se ne potrebbero evidenziare numerosi altri: 1) la prospettiva del rinnovamento complessivo – comunionale e missionario – della Chiesa, 2) la riforma della Chiesa universale e delle Chiese particolari nel senso di una Chiesa più povera e prossima ai poveri, 3) l’importanza della comunione sinodale tra i vescovi e le Chiese nella contestuale ridefinizione pastorale ed evangelizzatrice del ministero del vescovo e del ministero ordinato, 4) la valorizzazione del principio battesimale – proprio di uomini e donne – e del sensus fidei, 5) il lavorio necessario per una testimonianza del vangelo capillare, fraterna e davvero inculturata con una rinnovata attenzione al principio teologico della pastoralità, 6) l’avviamento di processi di formazione e testimonianza in cui il tempo prevale sullo spazio e in cui l’avvio di dinamiche davvero profonde prevale sull’occupare spazi di potere, 7) il rigetto della identificazione esclusiva tra cristianesimo ed occidente e – nella medesima linea di Erich Przywara ne L’idea d’Europa (cf. L’idea d’Europa. La “crisi” di ogni politica “cristiana”, introduzione, traduzione e note a cura di F. Mandreoli e J.L. Narvaja, Trapani 2013) – della cristallizzazione in una forma – culturalmente e geograficamente datata – di Chiesa, 8) il recupero quindi del tema capitale della povertà della Chiesa e del necessario aggiornamento – in chiave essenzialmente pastorale – delle sue categorie teologiche e culturali, 9) il ruolo della Chiesa tra i popoli identificato – seguendo ancora Przywara (Cf. E. Przywara, Che ‘cosa’ è Dio? Eccesso e paradosso dell’amore di Dio, introduzione, traduzione e note a cura di F. Mandreoli e M. Zanardi, Trapani 2017) – con quello dell’amore «sempre più grande» di Dio espresso nel servizio della lavanda dei piedi, 10) il vangelo e il suo messaggio di misericordia come strumento di lettura profetica e di posizionamento geopolitico, 11) il rifiuto radicale di un’interpretazione violenta – o conflittuale nel senso dello scontro di civiltà – del cristianesimo, pensato invece nella sua capacità e vocazione di avviare processi di pace.

Non sembra davvero forzoso rilevare come alcuni vettori del magistero di Lercaro – maturati nel dialogo con una Chiesa locale piena di fermenti – risuonino singolarmente vitali e capaci di futuro, nel senso di un’interpretazione accrescitiva del Vaticano II in questa nuova fase della sua recezione.

 

Fabrizio Mandreoli

* Il presente testo uscirà in forma in parte differente e con l’apparato di note presso la rivista Egeria dell’Istituto di Scienze Religiose di Arezzo.

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