Che cosa è più giusto per una comunità? Colloquio con Antonio Floridia sulla democrazia deliberativa

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È in uscita in questi giorni, per i tipi del Mulino, un nuovo lavoro di Antonio Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia. Dirigente dell’Osservatorio elettorale e del settore “politiche per la partecipazione” della Regione Toscana, Floridia ha avuto incarichi di docenza presso la facoltà di Scienze politiche dell’università di Firenze, abilitato come professore associato di scienza politica, ed è presidente dal 2014 al 2017 della Società italiana di studi elettorali. Autore di numerose pubblicazioni, un suo precedente lavoro (La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, Carocci, 2012) alternava una riflessione teorica sulla democrazia deliberativa e l’analisi di alcuni casi empirici di processi partecipativi e deliberativi, ispirandosi ad uno degli sviluppi teorici più promettenti, presenti nel campo deliberativo, il cosiddetto “approccio sistemico”. Questo approccio del nuovo testo sostiene, in sintesi, che la deliberazione pubblica (ossia i processi attraverso cui si forma l’opinione pubblica, si formano e si trasformano i giudizi dei cittadini su una determinata questione politica) non può essere vista come qualcosa che si svolge in luoghi isolati e in momenti circoscritti. Piuttosto, è un processo “sistemico” che coinvolge molti momenti, attraverso una sequenza deliberativa: dai discorsi quotidiani (gli “everydays talks” come li definisce la studiosa di Harvard, Jane Mansbridge, che per prima ha proposto questo modello) fino ai momenti più “formali” e “istituzionalizzati”. È l’insieme di questi processi di dialogo pubblico che produce (o sottrae) una legittimazione democratica alle decisioni assunte dalle istituzioni.

“Il mio nuovo libro, invece, – sottolinea Floridia  – si muove soltanto sul piano teorico: è una ricostruzione della storia dell’idea di democrazia deliberativa, dalle prime formulazioni fino all’analisi del modo con cui Rawls e Habermas, in modo diverso, hanno infine definito le basi teoriche e filosofiche di questa concezione della democrazia. Attraverso la storia di come questo modello teorico si è progressivamente formato, spero di aver mostrato anche i principi che lo ispirano, i nuclei concettuali che lo caratterizzano.”

È imminente anche la pubblicazione dell’edizione inglese di questo lavoro (From Participation to Deliberation. A Critical Genealogy of Deliberative Democracy, Colchester (UK), ECPR Press), che contiene alcuni capitoli che non è stato possibile includere nell’edizione italiana (sulle origini della “democrazia partecipativa” negli Stati Uniti degli anni Sessanta e sull’attuale configurazione del campo teorico deliberativo). Lo abbiamo intervistato.

 

Professore, cosa si intende per democrazia deliberativa?

Inizierei con una precisazione: “deliberazione” non vuol dire, come comunemente si intende, “decisione”, ma indica la fase della discussione che precede la decisione. “Deliberazione” è uno scambio argomentativo (che può svolgersi nel foro interiore di ciascun individuo, ma che, naturalmente, avviene anche, e soprattutto, pubblicamente, nel dialogo con gli altri), il momento in cui si soppesano i pro e i contro, si esprimono e si valutano le proprie e le altrui “ragioni”, si chiariscono meglio i termini di un problema e di un possibile conflitto, si ricercano soluzioni condivise o reciprocamente accettabili. Da un punto di vista storico-filosofico questa idea di deliberazione trova le sue radici nel pensiero di Aristotele, e in particolare in alcuni passaggi dell’Etica Nicomachea.

“Democrazia deliberativa”, dunque, è una visione della democrazia che fonda la legittimità democratica delle decisioni collettive non solo sulla “legalità” delle procedure istituzionali, ma anche sulla legittimazione che deriva da un processo pubblico e inclusivo di formazione e trasformazione delle opinioni e dei giudizi dei cittadini. La democrazia deliberativa si oppone dunque alle visioni “plebiscitarie” e “tecnocratiche” della democrazia, ma anche alle ricorrenti illusioni su un possibile ritorno alla democrazia “diretta”. La qualità di una democrazia si fonda sulla possibilità che i cittadini si formino un giudizio riflessivo, ponderato e informato, e che questo avvenga attraverso un dialogo pubblico. Non basta fare “quel che dice o vuole la gente”: occorre che ciò che i cittadini “vogliono” sia il frutto anche di una trasformazione riflessiva delle loro opinioni immediate.

 

Ma la democrazia deliberativa vuole sostituire la democrazia rappresentativa, cioè quella basata sull’elezioni in Parlamento, e negli Enti locali?

No, nella visione prevalente tra gli studiosi che la sostengono, la democrazia deliberativa non vuole affatto prendere il posto della democrazia rappresentativa, piuttosto la vuole rafforzare. Una democrazia pienamente “rappresentativa” è, in linea di principio, una democrazia “deliberativa”, che si fonda cioè sulla circolarità comunicativa tra rappresentanti e rappresentati. La democrazia deliberativa si oppone a tutte quelle visioni riduttive e impoverite della democrazia rappresentativa che la vedono soltanto come una democrazia fondata sulla selezione dei leader e sulle elezioni come mera autorizzazione al “comando”…

 

Perché la democrazia rappresentativa è in crisi?

Le ragioni sono plurime. Forse soprattutto perché ha preso piede da decenni una visione che assume e radicalizza la concezione della democrazia a suo tempo proposta da Joseph Schumpeter: la democrazia come una mera procedura elettorale che seleziona un team di politici, in concorrenza tra loro sul mercato politico per acquistare il potere di assumere decisioni in nome di tutti. Punto e basta: né di più né di meno. Questo vuol dire che tra una votazione e l’altra i cittadini non hanno più voce in capitolo. Sono solo spettatori, in attesa della prossima tornata elettorale. A questo si collega quella che si può definire come un’ideologia “decisionista” propria del “comune sentire” di molti politici e amministratori. Ma non c’è dubbio anche che essa stia incontrando crescenti e insormontabili difficoltà.

 

Come la democrazia deliberativa può venire incontro alla crisi della democrazia rappresentativa?

Un buon processo deliberativo può aiutarci a superare tre decisivi aspetti critici che mettono in crisi la legittimità democratica delle decisioni: a) un deficit di legittimazione discorsiva delle decisioni politiche (il fatto, cioè, che una decisione non sia sufficientemente discussa e valutata pubblicamente, prima che venga assunta, rivelandosi perciò stesso poco accettata e condivisa e, spesso, in definitiva, anche inefficace); b) un deficit cognitivo e informativo sui contenuti delle decisioni (che potrebbe essere superato da una più ampia attivazione e mobilitazione di esperienze e conoscenze diffuse e presenti nella società e nei suoi corpi intermedi); c) una radicale incertezza strategica circa gli effetti (previsti, perversi e/o inattesi) di una decisione (che può essere, anch’essa, quanto meno limitata dal più ampio coinvolgimento dell’intelligenza sociale, in grado di considerare molte più “variabili”, rispetto a quelle che un decisore “solitario” è in grado di controllare).

 

In Italia ci sono esempi di democrazia deliberativa e che risultati stanno dando?

Alcune Regioni, come la Toscana, l’Emilia Romagna e, più recentemente, la Puglia si sono dotate di una legge sulla promozione della partecipazione in termini deliberativi. Inoltre, molte amministrazioni locali, in giro per l’Italia, hanno sperimentato processi partecipativi ispirati dal modello deliberativo. Per il mio ruolo, ho seguito in particolare le vicende della legislazione toscana in materia, sin dalla prima legge approvata nel 2007 e poi modificata nel 2013 (l.r. 46). La legge prevede un’Autorità indipendente, eletta dal Consiglio regionale, che ha il mandato di coordinare ed organizzare le richieste di iniziative partecipative proposte dai cittadini, dalle scuole, dai Comuni, valutando quelle meritevoli di finanziamento in quanto rispettose di alcuni requisiti stabiliti dalla stessa legge regionale. La legge toscana, dal 2008 ad oggi, ha permesso lo svolgimento di oltre 200 processi partecipativi.

 

Ci sono studiosi che invece criticano la democrazia deliberativa. Chi sono e perché?

Le critiche vengono soprattutto da alcuni studiosi (ad es. Luigi Pellizzoni) che, ispirandosi al pensiero di Foucault, leggono la diffusione di pratiche deliberative come frutto di una strategia di neutralizzazione e depotenziamento del conflitto sociale. Altri, molto più schematicamente, vedono la democrazia deliberativa come uno strumento dell’egemonia di un neo-liberalismo “temperato”. Sul piano teorico, Nadia Urbinati mette in guardia da alcune versioni della democrazia deliberativa che sfociano di fatto in una concezione “impolitica” della democrazia: cioè una visione che presuppone un “cittadino-giudice” imparziale che emette dei “verdetti”. Ma la politica, secondo Urbinati, ed io condivido il suo giudizio, è essenzialmente un conflitto intorno ad idee alternative del bene comune: la deliberazione pubblica ha l’obiettivo, appunto, di definire i termini di questo conflitto, di costruire anche le basi di una conduzione positiva, cooperativa e condivisa, del conflitto stesso. Non c’è alcun “bene comune” presupposto a priori: il bene comune va costruito. La deliberazione cerca di formulare un giudizio su cosa è (o sembra) “giusto” o “sbagliato”, non su ciò che è “vero” o “falso”.

 

Quali sono i nuovi campi di ricerca della democrazia deliberativa, questioni ancora aperte?

Le principali vie di sviluppo sono legate ad alcune domande: in che modo il disegno e la struttura di un processo partecipativo possono incidere sulla qualità e sui risultati di un processo deliberativo? Come possiamo misurare la qualità di una deliberazione? Come possiamo rendere “ordinaria” una modalità di costruzione delle politiche pubbliche che veda l’attivazione di procedure deliberative e partecipative? La risposta a questi interrogativi non è facile, ma l’esperienza di questi anni, in Italia e in campo internazionale, ci offre molti elementi. In primo luogo, occorre superare una visione semplificata, e spesso controproducente, della “partecipazione”: non basta convocare un’assemblea per poter sperare che i cittadini si sentano veramente coinvolti. Occorrono modalità innovative di strutturazione dell’”arena” in cui si svolge la discussione, con l’intervento di esperti e “facilitatori” che permettano un dialogo ordinato e inclusivo. Occorre poi – ed è una premessa fondamentale – che i decisori politici non abbiano una visione strumentale della partecipazione: se una decisione, di fatto, è già “presa”, non ha senso parlare di “partecipazione”. E non bisogna confondere la partecipazione con la “consultazione”, e tanto meno con la “comunicazione” (dall’alto verso il basso) tra il politico e i cittadini. Occorre un impegno preventivo, serio e credibile, delle istituzioni: non per delegare ai cittadini la decisione finale, ma per permettere veramente che – prima della decisione – siano attivate tutte le “competenze” di cui i cittadini sono portatori, sollecitando l’assunzione – da parte dei cittadini – di un “punto di vista” che superi interessi parziali e settoriali. Portare a discutere su “cosa è (più) giusto” per una comunità (e non solo per sé stessi o per il proprio gruppo) non è facile: ma un appropriato disegno e un’efficace progettazione di un processo partecipativo può aiutare in questo senso. Non è facile, ma – come l’esperienza insegna – non è impossibile. E soprattutto, non ha molte alternative, se non vogliamo che la politica democratica sia affidata soltanto allo scontro tra “amici” e “nemici”, o al dominio dei puri rapporti di forza e di potere.

 

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