Vigilia di un atteso e pur inaspettato cammino sinodale

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La decisione, infine, è stata presa. I vescovi italiani lo hanno annunciato nella loro assemblea generale dello scorso maggio. Il sinodo italiano si farà. Per una qualche cautela, dopo tanta incertezza e tanti timori, si è deciso di chiamarlo non “sinodo” ma “cammino sinodale”. Le forme di questo cammino debbono ancora essere pensate; vi stanno lavorando alcune persone incaricate dalla Cei), ma saranno comunque impostate strada facendo. Alcune cose, però, già si sanno; i vescovi le hanno dette. Intanto la durata: sarà un percorso di quasi cinque anni; e avrà inizio entro la fine dell’anno. Poi il fatto che tale cammino sinodale avverrà nel mentre che la chiesa italiana sarà impegnata in un analogo cammino, ma a dimensione universale, quello del sinodo dei vescovi, che inizierà nel mese di ottobre e si concluderà nell’ottobre del 2023: un sinodo che papa Francesco – sulla base delle esperienze della duplice assemblea sinodale sulla famiglia, del sinodo sui giovani e di quello sull’Amazzonia – ha voluto si svolgesse in modo da consentire il massimo possibile di partecipazione “dal basso” (diocesi per diocesi, parrocchia per parrocchia), e che avrà per tema proprio la riflessione sulla nozione e sulla pratica della sinodalità (“Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”).

Oltre alla durata e alla necessaria armonizzazione con il sinodo dei vescovi, altri elementi sono emersi dall’assemblea della Cei di maggio: sia dalla relazione e del card. Bassetti sia dalla cosiddetta “Carta di intenti” presentata ai vescovi da mons. Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara. La “Carta d’intenti” è un documento di appena quattro pagine (solo una “traccia” come l’ha chiamata mons. Brambilla), che i vescovi avevano deciso di stendere già lo scorso febbraio dopo aver ricevuto, in gennaio, l’ennesimo rimprovero da papa Francesco per la loro mancata risposta al suo invito di cinque anni prima, a Firenze, a “mettersi in cammino sinodale”, e che gli avevano mostrato prima dell’assemblea di maggio per averne un parere. In questo documento si dice che “l’itinerario del ‘cammino sinodale’ comporta la necessità di passare dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano chiamate a recepire gli Orientamenti Cei a un modello pastorale che introduce un percorso sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in ricerca per individuare proposte e azioni pastorali comuni”. Si tratta – si legge ancora – “di passare da un modo di procedere deduttivo e applicativo a un metodo di ricerca e di sperimentazione che costruisce l’agire pastorale dal basso e in ascolto dei territori”. Tre, dunque, le parole chiave suggerite: “ascolto”, “ricerca” e “proposta”. Tre passaggi da avviare e costruire, allo scopo di leggere la situazione attuale, immaginare un percorso futuro e “smuovere il corpo ecclesiale e la sua presenza nella società”. Dunque, si tratta di “ripensare il presente e il futuro della fede e della Chiesa in Italia”. E farlo sulla base delle indicazioni sia della magna charta di papa Francesco, l’Evangelii gaudium, del 2013, che contiene in nuce già i temi sviluppati nelle successive encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, sia del discorso da lui tenuto al convegno ecclesiale di Firenze del 2015 in cui aveva ribadito: “Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti”; una Chiesa – aveva detto, richiamando il tema scelto dalla Cei per il convegno fiorentino “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” – che faccia suoi i tratti dell’umanesimo di Gesù: umiltà, disinteresse e beatitudine; una chiesa che affermi radicalmente la dignità di ogni persona e stabilisca tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, e che insegni ad abitare il creato come casa comune. Un Chiesa creativa, che sappia innovare con libertà.

Papa Francesco, allo stile della sinodalità, del camminare insieme pastori e fedeli, crede molto. Sempre in quel 2015, in ottobre, un mese prima di parlare alla Chiesa italiana riunita a Firenze, aveva commemorato il 50° anniversario dell’istituzione, voluta da Paolo VI, del Sinodo dei vescovi. Aveva detto che riteneva il Sinodo una delle eredità più preziose del Vaticano II, perché dava sostanza alla collegialità pastorale, e aveva affermato di ritenere che “proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”. Sinodalità nella collegialità dei vescovi cum Petro e sub Petro, ma anche collegialità, camminare insieme, di tutto il popolo di Dio. “Sarebbe inadeguato – aveva detto nell’Evangelii gaudium – pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del Popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni”. E nel discorso sul 50° dell’istituzione del Sinodo dei vescovi aveva ripreso un tema a lui caro: il sensus fidei del santo popolo di Dio. “Il sensus fidei – aveva detto – impedisce di separare rigidamente tra Ecclesia docens e Ecclesia discens, giacché il Gregge possiede un proprio ‘fiuto’ per discernere le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa”.

Certo, Francesco è anche consapevole (e lo ha detto in quel discorso dell’ottobre 2015) che “camminare insieme – laici, pastori,  e vescovo di Roma – è un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica”. Si dice che il “Cammino sinodale” (con la “c” maiuscola, in quanto si riferisce all’evento che andrà dal 2012 al 2025) “ha bisogno di condividere uno stile ecclesiale, un metodo sinodale e alcuni strumenti di lavoro”. Lo stile ecclesiale, la Carta ne conviene, “rappresenta la sfida decisiva”. E viene così tratteggiato: “dovrà essere attento al primato delle persone sulle strutture, alla promozione dell’incontro e del confronto tra le generazioni, alla corresponsabilità di tutti i soggetti, alla valorizzazione delle realtà esistenti, al coraggio di ‘osare con libertà’, alla capacità di tagliare i rami secchi”. Inoltre, “tutti siamo chiamati a risvegliare quel sensus ecclesiae, che lo stile sinodale è chiamato a far crescere”. Sul metodo, la Carta ripropone i tre momenti di cui si è detto: ascolto, ricerca, proposta; un metodo, cioè, che “si impegna ad ‘ascoltare’ la situazione, attraverso un’attenta verifica del presente, vuole ‘cercare’ quali linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili, intende ‘proporre’ scelte concrete che ciascuna Chiesa locale può recepire per il suo cammino ecclesiale”. Per gli strumenti di lavoro, poi, ancora non è ben chiaro a che cosa si pensi; saranno comunque instrumenta laboris che avranno il compito – si dice – “di indicare prospettive comuni su cui orientare l’ascolto dal basso” (questione delicata, questa, perché orientare l’ascolto può significare anche condurlo in una direzione invece che in un’altra, e comunque non lasciare che dal basso emerga ciò che sta più a cuore ai fedeli). Si dice ancora che sarà la Segreteria generale della Cei con i suoi uffici ad accompagnare il percorso e a proporsi come “luogo di sintesi di quanto giungerà dalle Chiese locali” (anche questo è un elemento delicato; viene da chiedersi se la Cei non farebbe bene a dotarsi di un gruppo di laici e anche di parroci esperti per questo compito di accompagnamento del percorso e, ancor più, per il compito di fare sintesi di ciò che emerge). La Carta si sofferma infine anche sui possibili contenuti del cammino sinodale, avanzando la proposta di mettere al centro i temi su cui già la Cei aveva riflettuto nell’impostare i futuri Orientamenti per gli anni Venti (cosa anche qui assai delicata, forse un po’ discutibile, perché rischia di limitare la libertà di scelta e di proposta “dal basso”). I temi indicati dalla Cei ruotano attorno a tre grandi nodi – Vangelo, fraternità, mondo –, e vengono così identificati: la “forma di Chiesa” per il prossimo futuro, l’eucaristia domenicale al centro della vita ecclesiale, l’accompagnamento delle famiglie, la presenza dei giovani nella chiesa, l’attenzione verso i poveri e alcuni campi di impegno sociale e culturale (cattolicesimo popolare, cultura, cittadinanza, casa comune).

Tanti gli interrogativi, gli spunti di discussione, che nascono attorno a questo snodo della Chiesa italiana che potrebbe essere davvero momento di svolta, di maturazione, di recupero di corresponsabilità. Qui mi soffermo brevemente soltanto sulla questione dell’ascolto, primo passo di un cammino sinodale autentico. Ascolto di chi? Ascolto come? E chi è il soggetto che ascolta? Una cosa mi sembra evidente: nelle nostre parrocchie, in linea di massima, non c’è l’abitudine all’ascolto, non c’è quasi neppure l’idea che ci si debba ascoltare vicendevolmente, scambiare opinioni e suggerimenti, confrontarsi per decidere insieme qualcosa. Lo faceva, e certamente ancora lo fa, ma in una dimensione più ristretta, e spesso a latere delle comunità parrocchiali, la benemerita Azione cattolica. E dunque io credo che, se si vuole provare a partire davvero dal basso (e direi anche da fuori, cioè da chi a messa ci andava ma ora non ci va più, e però se invitato a dire perché e a suggerire qualcosa forse lo farebbe), la prima cosa da fare (da parte della Cei e dei singoli vescovi) sia riunire, territorio per territorio, i parroci e offrire loro l’opportunità di interrogarsi, guidati da persone adatte allo scopo, su perché e come debbano svolgere il compito di suscitare il confronto tra i fedeli (compresi gli allontanatisi), di porsi in ascolto delle persone e di ciò che emerge nel dare loro la parola, di entrare in dialogo con loro, e di trarre da questo libero confronto (aiutati da alcuni laici e religiosi) stimoli, suggerimenti, proposte, e anche timori, perplessità, dubbi. E, soprattutto, convincersi che “camminare insieme” non è solo l’esercizio richiesto da un sinodo ma è parte essenziale dell’essere Chiesa.

Papa Francesco si sofferma molto sul sensus fidei di quello che ama chiamare “il santo popolo di Dio”, che è santo, egli dice, in funzione del battesimo “che lo rende infallibile ‘in credendo’”. “In tutti i battezzato, dal primo all’ultimo – scrive nella Evangelii gaudium n. 119 –, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare”; e quella che chiamiamo nuova evangelizzazione “deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati” (n. 120). Nel fare riferimento al sensus fidei dei fedeli, papa Francesco ha in mente, per lo più, la pietà popolare, così ancora largamente presente nel contesto latino-americano; ma non più, o molto meno, in Italia, dove l’ascolto va fatto in seno a un popolo di Dio che soltanto in parte partecipa all’eucaristia domenicale, e spesso vi partecipa con molta passività, che è composto per lo più da persone che si sono perse per strada, che hanno abbandonato, che sono in crisi, che sono critiche, insofferenti, talvolta forse perché fa comodo dare al proprio scetticismo l’alibi della delusione, ma più spesso perché davvero sono rimaste deluse da un esser chiesa che non coinvolge e non appassiona. Ascoltare questo popolo di Dio non è cosa semplice, giunti al punto in cui siamo giunti. Bisogna che i parroci (con alcuni collaboratori scelti tra i fedeli più assidui e tra quelli meno assidui, tra i vicini e i lontani) chiamino a raccolta, pezzo per pezzo, le diverse componenti di questo popolo, diano loro la parola, con assoluta libertà, raccolgano ciò che emerge, vi riflettano poi sopra insieme a tutti coloro che hanno in qualche modo partecipato, e di quello che è emerso ne facciano il canovaccio del cammino da compiere nel tempo a venire, non solo così partecipando al Cammino sinodale dei prossimi quattro anni (per il compimento del quale dovranno inviare alle diocesi quanto ascoltato e raccolto, senza purgarlo), ma anche e soprattutto cercando per questa via (ascolto, poi ricerca cioè sperimentazione, e infine proposta: i tre passi suggeriti dalla Carta d’intenti della Cei) la concreta possibilità di una rigenerazione della propria parrocchia.

Un’ultima annotazione. Nel suo discorso a Firenze nel 2015 papa Francesco indicò alla Chiesa italiana, oltre alla necessità di fare sinodo, due grandi ambiti di impegno: l’inclusione sociale dei poveri e la capacità di dialogo e di incontro con tutti. Parlando della capacità di dialogo (che – ha ricordato – include anche il conflitto), ebbe a dire: “Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti, non da soli tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà”. Qui sta anche un aspetto non secondario per la rigenerazione della Chiesa e di ciascuna singola parrocchia. Il suggerimento di Francesco vale sia per il cammino sinodale, per la rigenerazione “ad intra” della Chiesa e di ciascuna parrocchia (dove comunque il parlare e discutere è necessario, prima di provare a fare insieme dei progetti), sia per l’azione della Chiesa nel mondo, in ciascun territorio e Paese, per la Chiesa “ad extra”. Perché la Chiesa è veramente Chiesa di Cristo se “esce”, se dialoga con tutti, e ancor più se lo fa collaborando per tratti di strada con tutte le persone di buona volontà; e non se resta trincerata nelle sue strutture.

 

Giampiero Forcesi

 

 

2 Comments

  1. Condivido pienamente questa riflessione e i conseguenti auspici e proposte di Giampiero Forcesi per rendere condiviso e fecondo il cammino sinodale che abbiamo davanti agli occhi e dentro il cuore. Speriamo! (…e preghiamo!….e impegnamoci!).Grazie! Angelo Bertani

  2. Grazie Giampiero Forcesi per questo contributo, molto ricco e profondo. Credo che il Sinodo potrà essere fruttuoso se guarderà con coraggio in faccia ai problemi e alle attese della nostra comunità ecclesiale (più che elencare quelli del mondo e della società, esercizio in cui siamo sempre molto bravi…) senza però fermarsi a lamentose disamine, per individuare invece tentativi di risposta nel segno del coraggio, dell’innovazione e di qualche sperimentazione. Alcuni temi sono già citati nei documenti emessi e sicuramente i giovani sono una questione cruciale. Mi auguro che ci sia una riflessione vera sulla soggettività delle donne e su un modo diverso di intendere il ruolo maschile nella comunità cristiana. Sarà poi necessario avviare processi reali, anche facendo tesoro delle buone pratiche già in corso, e non pensare che l’obiettivo del Sinodo sia solo la produzione di un voluminoso documento finale.

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